Lo stadio-città
Rowan Moore
Dal 1972, quando Frei Otto costruì il suo Stadio olimpico a Monaco, fino allo stadio di Wembley di Foster e HOK, di prossima realizzazione, una convenzione vuole che il punto più importante nel progetto di uno stadio sia il modo in cui si regge la copertura. Il risultato viene ottenuto grazie a tensostrutture, con cavi tesi da archi o alberi, oppure con travature grandi come ponti stradali. Si è addirittura proposta un’analogia tra le tensostrutture e i tendini degli atleti. Intanto gli stadi sono diventati più complessi per programma e per funzioni.
Non sono solo luoghi dove si assiste a prestazioni sportive, ma piccole città dotate di ristoranti, negozi, spazi di riunione e raffinati servizi per sponsor e media; il che significa che il semplice compito di sorreggere la copertura diventa una questione sempre meno centrale. Forse per questo pochi tra i seguaci di Otto hanno eguagliato la semplice bellezza del suo progetto, che consiste nel riprendere la concezione greca secondo cui uno stadio dovrebbe essere poco più di un luogo individuato nello spazio. L’Allianz Arena di Herzog & de Meuron, anch’essa a Monaco, fa apparire fuori moda tutti gli stadi a grande copertura venuti dopo quello di Otto.
È un artefatto culturale, non un’opera di ingegneria, la cui ispirazione d’origine non è il ponte sospeso ma un’immagine composita di calciatori che giocano in uno stadio barocco. La sua prima preoccupazione è creare un rapporto il più stretto possibile tra giocatori e spettatori, in uno spazio che gli architetti paragonano a un ‘cratere’ e al Globe Theatre di Shakespeare. Uno spazio che è un ambiente, non un’attrezzatura, le cui qualità sono definite dalla ripida pendenza dei sedili, dal senso di continuità tra la parte bassa e quella alta, dalla lieve curvatura delle file dei sedili per dare un maggior senso di raccoglimento, e dalla velatura della struttura dietro una pelle trasparente di politetrafluoroetilene (ETFE).
Quando lo stadio è pieno e vi si svolge un incontro, l’architettura fa un passo indietro, offre solo il suo contributo all’intensità dell’esperienza. All’esterno l’edificio tenta di dare un senso alla sua collocazione periferica, definita da una strada a grande scorrimento, da cumuli erbosi di terreno di riporto e dal panorama distante della città. Da un certo punto di vista lo stadio è un’architettura-insegna stradale, un gran pallone da calcio schiacciato che funziona come le paninerie a forma di panino di Los Angeles che erano la delizia di Charles Jencks; ma in modo meno letterale, più sublimato. Come le costruzioni a forma di panino ha in sé un’ambiguità di scala: si sa che è grande, ma sembra qualcosa che si può tenere in tasca, oppure mangiare. Come in tutte o quasi le opere di Herzog & de Meuron si gioca con la percezione.
Lo stadio, avvolto nei cuscini di ETFE, trasforma la greve realtà del cemento in qualcosa di apparentemente privo di peso e quasi portatile, trasformando in mito poetico l’idea anni Sessanta di struttura gonfiabile. Questa epidermide dà anche allo stadio il massimo dell’attrattiva visiva, la sua capacità di cambiare colore. Di giorno risplende di un bianco perlaceo da iPod, desiderabile come un oggetto di consumo. Di notte si accende di rosso, di bianco o di blu, secondo la squadra che sta giocando. L’impianto è condiviso dal Bayern di Monaco, che gioca in maglia rossa, e dal TSV 1860, in maglia blu.
Ci giocherà anche la nazionale tedesca (in bianco). Il rivestimento rappresenta l’idea dell’effimero, non la sua realtà, ma il progetto gioca anche più direttamente sul movimento e sul cambiamento. L’architettura viene completata dall’evento, dalla folla che si avvicina per riempirla: l’arrivo dei visitaori al di sopra del tetto convesso del parcheggio, attraverso un paesaggio di vegetazione bassa, che riecheggia deliberatamente lo squallore circostante, viene abilmente trasformato in momento coreografico. La convessità della curvatura fa sì che lo stadio si innalzi lentamente allo sguardo a mano a mano che ci si avvicina.
Lo stadio è un’opera destinata a un’epoca meno innocente di quella del monumento di Otto all’illuminismo socialdemocratico internazionalista, un’epoca in cui i finanziamenti provengono interamente dalla finanza privata e dagli sponsor, in cui il logotipo dello sponsor diventa parte importante del progetto, in cui l’immagine dell’edificio prima e dopo il completamento della costruzione è una questione cruciale, in cui l’edificio è contemporaneamente un marchio e un’architettura. Il progetto comprende il Business Club, uno spazio pubblico aziendale, il cui soffitto è rivestito di cilindri di alluminio anodizzato che, strettamente raccolti e porosi – a dispetto della loro solidità – arrivano ad avere l’aspetto di una spugna.
Il Club è un esempio importante di quello che si potrebbe definire uno “spazio alla Taschen”, in cui, come nei libri del famoso editore, la decadenza degli anni Settanta viene evocata per creare un’atmosfera ironica, vagamente volgare. Con questo non si vuol dire che il nuovo stadio monacense sia migliore o peggiore del vecchio. L’Allianz Arena parla con eloquenza un proprio linguaggio, in cui la potente realtà fisica di una partita di calcio svanisce tra marketing e media in un’immagine priva di peso, e in cui la fede tribale dei tifosi, radicata nel territorio, si traduce in effetti di luce multicolore.