Nel centenario della nascita di Giuseppe Terragni, Domus ospita una reinterpretazione fotografica delle sue opere principali. La serie inizia con alcune sorprendenti immagini della Casa del Fascio di Como (1933-1936). Fotografie di Paolo Rosselli. Testo di Steven Holl.
L’architettura guidata dalla politica ha lasciato spesso vestigia imbarazzanti che rappresentavano pastiche frettolosi; e questi ultimi hanno spesso finito per perdersi nella confusione della storia, senza alcun carattere distintivo se non la loro roboante grandezza (come nel caso del Vittoriale, il monumento a Vittorio Emanuele II di Roma). Ma alcune opere riescono a trascendere la matrice politica originaria trasformandosi come le larve del bruco in farfalle, diventando qualcosa di completamente diverso.
Osservando oggi – nel gennaio 2004 – la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni (1933-36) fotografata da Paolo Rosselli, ci pare che 68 anni di “distanza temporale” spalanchino un abisso tra lo stato presente dell’opera e l’epoca dell’inaugurazione dell’edificio. Osservando una vecchia fotografia della prima pagina del quotidiano locale di Como del 7 maggio 1936, si nota una folla di oltre 10.000 persone riunita a celebrare la conquista dell’Abissinia e la proclamazione del “Nuovo Impero Romano”.
Nel cercare di rappresentare l’influenza crescente del governo fascista italiano negli anni precedenti la sanguinosa tragedia della Seconda Guerra Mondiale, questo edificio radicale metteva il proprio significato politico davanti a tutto. Ma oggi, 68 anni dopo, la distanza temporale permette alle sue rilevanti qualità spaziali di emergere in un silenzio tragico e senza parole.
Gli strati che si riflettono, gli slittamenti e le inversioni spaziali, le misteriose sovrapposizioni, le cadenze inaspettate di pieni e di vuoti, sono tutte saldamente incorporate nella sua forma primaria, quasi cubica. Ora che la distanza di tempo ne rivela le qualità spaziali, l’intensità e la compressione di questo capolavoro architettonico diventano – nella sua malinconica quiete – caratteri ossessionanti. L’arte durevole dell’architettura ha la tendenza a rimanere nascosta; se emerge troppo presto, i suoi spazi svaniscono nello scorrere del tempo. Se invece sopravvive alle tragedie politiche e al trascorrere delle mode architettoniche, le sue dimensioni nascoste si rafforzano e possono venire riscoperte, come si riscoprono ‘nuove’ sensazioni suscitate da una vecchia poesia.
Quando la funzione e il programma originario dell’edificio sono scomparsi dalla scena, tutti gli eventi divengono parti indistinte di storie complesse e i fenomeni dello spazio, quelli del dettaglio e della luce – una luce fatta di fotoni affastellati, una luce di grumi di tempo – emergono con un nuovo, muto vigore. La luce all’interno di questa architettura viene ripartita in quadrati e riflessa attraverso strati cavi di spazio. Ogni superficie materica, che si tratti del pavimento lucido o del grande piano del tavolo levigato, recita la sua parte nella musicalità d’insieme di questa straordinaria composizione. Si tratta di una luce politica perversa? Lo slancio con cui si riflette persegue qualche intento discutibile, come i discorsi registrati e riprodotti senza interruzione?
Ora quella continua insistenza è svanita, e nella sua vuotezza un sogno spaziale viene rappresentato con un’intensità che si avvicina a un ideale... come l’accumularsi degli echi di uno spirito interiore. Come una promessa che traspare attraverso una superficie molto sottile, la passione di Terragni per il dettaglio rivela il suo entusiasmo per il gioco. Per aprire una finestra, un sistema a parallelogramma fissato a ciascuno degli stipiti si divarica, permettendo di spingere la lastra piana di vetro verso l’esterno della facciata. Questa inattesa disposizione parallela ha un effetto di riflessione comico.
La sedia a sbalzo nera dai tubolari cromati disegnata per l’edificio mostra una analoga e sorprendente separazione tra il sedile e lo schienale. Sedere su questa sedia e percepire il traballare discordante dei piani orizzontali e verticali significa sperimentare la risata soffocata della gioia di inventare di Terragni. L’architettura può costituire un mezzo per esplorare tutti i temi fondamentali della nostra epoca, questioni cariche di significato politico come l’egemonia di una cultura sulle altre, lo spreco irresponsabile delle risorse globali, il consumo antiurbano del paesaggio in un’espansione disordinata ecc.
Ma la distanza temporale ha la capacità di cancellare il premere degli eventi, di farci cogliere questioni che erano perdute nel tempo. In questo silenzio, l’intensità e la concentrazione dell’architettura assoluta emergono con grande forza.
Le fotografie sono pubblicate per gentile concessione del Comitato Nazionale GT04.
Il Gioco di Terragni, 68 anni dopo
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- 24 febbraio 2004