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Kara Walker a New York
La grande scultura di zucchero bianco di Kara Walker veglia sugli ultimi giorni della Domino Sugar Refinery, che si prepara a essere a breve trasformata in area residenziale.
“Fatele fare quel che vuole”, ha raccomandato Anne Pasternak, presidente della Creative Time, al curatore Nato Thompson. Con un esperto gruppo di lavoro e uno spazio di poco meno di 3.000 metri quadrati a disposizione in un ex zuccherificio, non c’è da meravigliarsi che Kara Walker, artista di fama internazionale, si sentisse un po’ come un bambino in un negozio di caramelle.
Dopo il primo sopralluogo è rimasta sveglia fino a tarda notte a buttar giù schizzi, fino a mettere insieme una scultura monumentale che vuole materializzare l’enorme peso della contraddizione rappresentata da uno spazio carico di complessi legami con l’ascesa e la caduta dell’industria agricola.
Walker, che non è tipo da far cosmesi sui lati oscuri della storia, è famosa soprattutto per le sue composizioni di silhouette ritagliate nella carta, che raffigurano schiavisti bianchi e schiavi neri degli Stati americani del Sud prima della guerra di Secessione, impegnati in interazioni violente, dalla forte carica sessuale. Uno sguardo alla sua creazione, alta più di 10 metri e lunga quasi 23 – una sfinge in forma di balia di colore, con il suo fazzoletto annodato intorno al capo, curve abbondanti ed enormi labbra – rivela che non siamo lontani dai campi di cotone e di canna da zucchero.
Saldamente collocata nella caverna della Domino Sugar Refinery, che un tempo, prima di chiudere definitivamente i battenti nel 2004, produceva più della metà dello zucchero consumato negli Stati Uniti, è decisamente ovvio che la grande ‘tata nera’ di Walker sia fatta di zucchero bianco. Totem a testimonianza delle luci e delle ombre collettive della nostra storia, la Marvelous Sugar Baby (la “stupenda bambola di zucchero”) è destinata a vegliare sugli ultimi giorni della raffineria, che si prepara a subire a sua volta un processo di raffinazione con la trasformazione in area residenziale attraverso le ruspe demolitrici.
Per la Creative Time, società newyorchese senza fini di lucro che realizza progetti d’arte pubblica d’avanguardia, Kara Walker e la Domino Sugar Factory sono un sogno che ha richiesto parecchi anni per realizzarsi. “Una delle motivazioni fondamentali per me era lo stabilimento, con la sua straordinaria storia fatta di zucchero e le relative eredità di schiavismo”, ha dichiarato Walker a Brooklyn Rail. Affrontando l’angosciosa eredità industriale della raffineria, con il suo contemporaneo operare sui materiali e sui corpi, dai Caraibi e dall’Africa occidentale alle Americhe, A Subtlety Or the Marvelous Sugar Baby (“Delicatezza, ovvero La stupenda bambola di zucchero”) prende impavidamente coscienza del suo passato, come rivela il monumentale sottotitolo: “Omaggio agli operai malpagati e sfruttati che hanno raffinato il sapore della nostra dolcezza dalle piantagioni di canna da zucchero alle cucine del Nuovo Mondo, in occasione della demolizione dello stabilimento della Domino Sugar Refining”. È una storia che non è mai sepolta troppo profondamente, un po’ come i liquami dolciastri che ancora gocciolano dal soffitto quando piove.
La titanica delicatezza di Walker è scolpita in blocchi di espanso ricoperti da quasi 4 tonnellate di zucchero in polvere. Il titolo dell’opera si riferisce allo sfarzoso passato dello zucchero, quando le corti medioevali offrivano agli ospiti complicate sculture di zucchero note con il nome di “delicatezze”. Lo zucchero, in grande misura grazie al lavoro degli schiavi, si è trasformato da genere di lusso in oppio bianco delle grandi masse. Trasformando la Domino in un tempio egizio la Bambola di zucchero è, per dirla con Walker, “una sfinge del Nuovo Mondo”, traboccante di allusioni alla schiavitù e al sesso, rigonfia di eccessi: un miracolo da basso impero.
Non è la prima volta che Walker usa il bianco e il nero per mettere in discussione il grigio implicito. Contrapposte al candore della Bambola di zucchero tredici piccole figure nere, alte ciascuna un metro e mezzo, le sfilano davanti portando cesti e caschi di banane. Questi paggetti rivestiti di melassa, stampati nella plastica e nello zucchero, sono versioni ingrandite dei mori di ceramica che ancora si producono in Cina. Ogni Banana Boy è in realtà un gigantesco leccalecca fatto di oltre 130 chili di zucchero, materiale che si è rivelato così fragile che due su cinque statue si sono spezzate durante l’allestimento. I brandelli dei loro corpi ora giacciono – spaventosi – nei cesti delle altre figure, come cannibalesche offerte alla regina della canna da zucchero.
Da parte sua la Bambola di zucchero sembra perfettamente consapevole delle delizie della carne. Con le braccia stese di fronte a sé e le gambe raccolte dietro, tutt’uno con le cosce, la sfinge mostra spudoratamente in faccia a tutti i seni e le abbondanti natiche. La mano sinistra, con il pollice tra indice e medio, proclama a gran voce la sua misteriosa natura in un gesto che significa, allo stesso tempo, fertilità e un gesto osceno. Non è chiaro se la Bambola di zucchero sia solenne, seduttiva, provocatoria o severa, ma è certamente lei che comanda.
“C’è la sensazione”, spiega Walker, “che le cose non si cancellino, e che la melassa sia colata giù da questi muri più o meno per un centinaio d’anni.” Il significato galleggia nell’aria, palpabile come l’odore della melassa, senza che occorra la mediazione dei pannelli esplicativi appesi alle pareti. In piedi di fronte alla Bambola di zucchero, la giacca fregiata dal ritratto di Tutankhamen, Walker è il perfetto faraone della sua sfinge testimone. Spera che, molto dopo che l’edificio sarà scomparso, i racconti di chi ha visto la sua delicatezza aiutino a conservarne la memoria. La sfinge, custode degli enigmi, osserva in silenzio, ricordandoci tutto quel che andrà perduto – e tutto quel che non si potrà cancellare – quando la Domino alla fine cadrà per far posto a un impero di condomini da un milione e mezzo di dollari.