“Speriamo di portarla al prossimo livello”, mi racconta Jonathan Spampinato, a capo della comunicazione e del planning strategico della fondazione.
“Lavoreremo a stretto contatto con i vincitori per vedere quali di queste idee possono diventare davvero soluzioni plausibili per le famiglie di rifugiati”. I progetti finalisti ricevono un budget di 10.000 € ciascuno e un servizio di coaching da parte della fondazione stessa, in modo che i rispettivi team possano trasformare le proprie proposte in un prototipo e un business-plan.
A proposito di struttura, gli chiedo se ci siano modi – oltre a sfide come quella di WDCD – in cui un brand come Ikea possa sfruttare il proprio peso e la propria presenza internazionale per bypassare queste barriere istituzionali. Mi fa l'esempio di un programma in Svizzera, dove la compagnia offre stage ai rifugiati per facilitare l'integrazione nella società, dove sarebbe altrimenti difficile trovare lavoro senza esperienza. “Parte del problema è concettuale, va dalla struttura legale internazionale fino a quella locale. È una sfida, ma vogliamo migliorare la vita della gente e non possiamo lavorare in astratto e dire che sarebbe meglio se le cose fossero diverse. È per questo che ci piace lavorare con i designer, sono realisti.”
In questo Spampinato sposa lo spirito ottimista di WDCD: “Tutti adesso si stanno concentrando sui dati più preoccupanti, ma questo non aiuta. Dobbiamo guardare dove c'è uno spiraglio di luce e andare in quella direzione”.