Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1048, luglio-agosto 2020.
Ogni volta che costruiamo, ogni volta che creiamo qualcosa, consideriamo la natura come il nostro contesto – sia reale sia metafisico – resistendo alle sue forze, godendone le qualità e considerando i suoi effetti. La natura ci ispira, ci informa, ci sfida e misura la nostra creatività. Mentre costruiamo il mondo artificiale che ci circonda, definiamo la nostra idea di natura. Fin da quando Vitruvio propugnò un’architettura come imitazione del mondo naturale, abbiamo cercato una relazione tra quest’ultimo e il modo in cui costruiamo: architetti, urbanisti, artisti e scrittori hanno tutti immaginato e articolato questa relazione. La natura è l’indispensabile sfondo delle nostre riflessioni filosofiche sulla bellezza, e ci ispira modi di costruire che ne imitano le forme. Attraverso questo rapporto definiamo le nostre idee di civiltà, traiamo alimento per la nostra immaginazione e diamo senso alla nostra esistenza.
A mano a mano che comprendiamo lo stress e il danno che abbiamo inflitto all’ambiente naturale attraverso le nostre azioni e il mondo che abbiamo creato per noi stessi, rivalutiamo questa relazione che, noi per primi, abbiamo contribuito a destabilizzare. Sfortunatamente, il nostro rinnovato rapporto con la natura non può basarsi esclusivamente su una considerazione più attenta di come costruiremo d’ora in poi, ma deve affrontare anche il danno già inflitto. Questo rapporto interessa ogni aspetto del modo in cui pianifichiamo e costruiamo il nostro ambiente. L’uso delle risorse e il consumo di energia sono evidenti e misurabili, mentre altre conseguenze della crescita e dello sviluppo sono meno facilmente identificabili, ma non meno critiche. L’espansione incontrollata delle nostre città – con le conseguenti infrastrutture e la produzione alimentare industrializzata che le riforniscono e le sostengono – ha un profondo impatto non solo sull’ordine del territorio circostante, ma sull’idea stessa di natura. Il nostro dialogo concettuale ed emotivo con la natura stessa è stato messo a nudo dalla scienza e dall’informazione, e dalla nostra consapevolezza di ciò che le abbiamo inflitto.
Il coinvolgimento nella creazione dell’ambiente costruito rende le nostre professioni collettivamente complici di una delle cause principali del riscaldamento globale, anche se a livello individuale ci battiamo per assicurarci un posto in questa nuova costellazione. Ci troviamo, invece, in posizione di difesa, immersi in un nuovo vocabolario, a misurare le nostre azioni in termini di emissioni, mitigazione, bilanciamento e compensazione. Tuttavia, è sempre più evidente che le soluzioni non risiedono solo nei nuovi regolamenti, nei nuovi standard. Le azioni incisive richiedono una visione e un’immaginazione altrettanto incisive. Il fatto di essere partiti con il piede sbagliato non aiuta, ma non possiamo agire solo per senso di colpa riguardo a ciò che abbiamo fatto, per la paura di ciò che potrebbe accadere e il rimpianto di ciò che possiamo aver perduto. Dobbiamo stabilire una nuova relazione con la società e l’ambiente, definita da uno scopo chiaro e dal desiderio di evolvere. La sfida non è solo quella di proteggere il nostro ambiente naturale, ma di riallineare il nostro atteggiamento e il nostro ruolo all’interno di un sistema ecologico che ora dipende da noi e da come ci comportiamo.
Negli ultimi mesi, tra stress, dolore e confusione, abbiamo avuto la possibilità di riflettere su come viviamo, di mettere a confronto desiderio e bisogno reale. Abbiamo dovuto fare ritorno all’immediato, a ciò che è a portata di mano. Le nostre normali distrazioni e i nostri cedimenti sono stati sostituiti da intraprendenza e inventiva. Mentre iniziamo a rimettere ordine nelle cose, ci rendiamo conto che ora abbiamo l’opportunità e l’ingegnosità per farlo in modo diverso. Ora siamo in grado di concepire molte più cose. Le strade delle nostre città, svuotate dal traffico per settimane, hanno ispirato i sindaci a reclamarne l’uso per ciclisti e pedoni. L’avere capito quanto importanti e preziosi siano parchi e giardini ci ha fatto sviluppare proposte per recuperare ampi spazi delle nostre città, rendendoli un bene pubblico. Mettiamo in discussione i disagi della città che una volta tolleravamo, la complessità della routine quotidiana e la nostra qualità di vita. La situazione ha aperto nuove opportunità all’immaginazione. Dobbiamo farne un mandato per agire e per una maggiore partecipazione, impegnando le nostre capacità e le nostre risorse in un riallineamento delle priorità, rifiutando i valori a breve termine e le soluzioni miopi.
Come architetti, pianificatori e designer, sappiamo che la situazione c’impone di guardare oltre le strategie per ‘rinverdire’ le nostre città e per proteggere il paesaggio. Sebbene si possa ritenere che le nostre responsabilità professionali non contino molto in termini di leadership, le dimensioni esistenziali della crisi ambientale ci danno il consenso di agire. Non abbiamo bisogno di giustificazioni né, si spera, di motivazioni. Non possiamo continuare a fare affidamento su tecniche compensative, né motivarci solo attraverso la retorica della sostenibilità e il richiamo del potenziale dell’economia verde. Dobbiamo essere disposti a partecipare a una svolta radicale che privilegia le iniziative ambientali e sociali rispetto a imperativi commerciali privi di senso. Né possiamo rimanere impegnati a produrre architettura monumentale e a progettare le nostre città sulla base d’infrastrutture dedicate alla loro efficienza, piuttosto che alla loro umanizzazione. Non possiamo mettere in dubbio l’importanza dell’architettura e del design, ma dobbiamo mitigare il desiderio di risultati sul piano fisico con l’adeguatezza del processo e la preoccupazione di proteggere sia le comunità sia l’ambiente. Proviamo perciò a riconsiderare non solo ciò che costruiamo, ma anche perché, come e dove lo facciamo. Queste sono le decisioni che influenzano profondamente la nostra qualità della vita, l’umanità delle nostre città e il nostro rapporto con il mondo naturale.
Immagine di apertura: Thomas Struth, Sorghum, Danforth Plant Science Center, St Louis 2017. Stampa a getto d’inchiostro, 159,8 x 221,6 cm