Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1047, giugno 2020.
Mano a mano che tutti ci abituiamo alla condizione d’isolamento casalingo e a riconoscere l’importanza delle più semplici e fondamentali attività della vita quotidiana, prestiamo maggiore attenzione anche all’organizzazione, alle strutture e alle persone esterne al nostro ambiente domestico, dalle quali dipendiamo e che spesso diamo per scontate.
Quando guardiamo all’esterno, in cerca di ciò che resta del nostro rapporto con il mondo circostante, iniziamo a capire e ad apprezzare maggiormente i legami che reggono la struttura collettiva da cui siamo dipendenti, sia fisicamente sia emotivamente. Quando picchiamo sulle pentole o applaudiamo insieme con i nostri vicini in onore di tutte le persone che con coraggio stanno facendo sacrifici per noi, ricordiamo allo stesso tempo il concetto di generosità umana e di comunità. Esprimiamo la nostra convinzione che la civiltà sia qualcosa di più del raggiungimento del benessere individuale e dichiariamo nella maniera più diretta possibile il nostro bisogno di appartenenza. Questo periodo ci ha ricordato il nostro impegno nei confronti dell’idea di comunità, ma ha anche evidenziato drammaticamente chi ne resta escluso.
‘Comunità’ è una voce importante nel vocabolario di questi ultimi mesi. Il termine è usato incessantemente da politici e commentatori, nel tentativo di spiegare e stabilire le nuove condizioni e i limiti a cui dobbiamo sottostare nel nostro attuale e complesso contratto sociale. In questo delicato momento, mentre affrontano il conflitto tra la sicurezza delle persone e la salvaguardia del tessuto economico, i politici di tutti gli schieramenti fanno inevitabilmente appello a questi ideali di bene pubblico. Siamo tuttavia tutti noi a doverci chiedere perché sia necessaria una tale minaccia alla nostra salute e alla nostra economia affinché le tendenze e le necessità umane di base vengano adeguatamente riconosciute, e perché in passato esse siano state così frequentemente trascurate. Un virus, che non è possibile controllare fisicamente o ignorare politicamente, ha rimesso in luce i fondamenti della società: prendersi cura del prossimo, interrogarsi sui meccanismi del privilegio e riconoscere che tutti traiamo beneficio dal nostro contributo al bene comune. Possiamo avere l’ardire di sperare che d’ora in poi queste qualità (oggi così ben visibili) vengano valorizzate e integrate stabilmente nei meccanismi decisionali di routine che definiscono il nostro ambiente costruito?
Come architetti, urbanisti e designer, anche noi tendiamo a usare piuttosto liberamente i termini ‘società’, ‘comunità’ o ‘civico’ come utili evocazioni di un ordine che potrebbe dare uno scopo a ciò che costruiamo e realizziamo. Vorremmo che il nostro lavoro avesse un valore per gli altri, non solo come conseguenza del suo aspetto pratico, ma anche della funzione che assolve al di là della singola necessità contingente. Speriamo che per mezzo dei fattori fisici – edifici, spazi, l’organizzazione di come viviamo e lavoriamo – potremo essere in grado di confermare le tendenze e gl’istinti che ci spingono a vivere insieme, in comunità. Nonostante tutto, restiamo convinti che l’ambiente costruito non solo contribuisce alla nostra qualità di vita e al nostro benessere, ma anche a esprimere materialmente l’idea stessa di comunità.
Un virus, che non è possibile controllare fisicamente o ignorare politicamente, ha rimesso in luce i fondamenti della società: prendersi cura del prossimo, interrogarsi sui meccanismi del privilegio e riconoscere che tutti traiamo beneficio dal nostro contributo al bene comune
Nel mondo di oggi, queste ambizioni lottano contro le strutture amministrative e di mercato. Le decisioni che influenzano la pianificazione delle nostre città dipendono sempre più da risultati quantificabili e monetizzabili, piuttosto che da azioni rivolte all’interesse collettivo. Nella migliore delle ipotesi, cerchiamo di ottimizzare il sovrapporsi d’interessi commerciali e sociali e facciamo appello all’importanza della popolarità come misura generica del bene comune. La domanda che dobbiamo porci è come la pianificazione e la progettazione delle nostre città, degli edifici e degli spazi che contengono, possono promuovere i contatti umani e il senso di appartenenza. Sebbene sia possibile discutere l’aspetto formale con cui questo viene realizzato, non dovremmo aver bisogno di convincere nessuno che tutto ciò è fondamentale per il fine del nostro lavoro, né che, se il nostro impegno è creare una comunità, la partecipazione è essenziale.
Facciamo affidamento sugl’interessi, le aspirazioni e le preoccupazioni della comunità per essere difesi e anticipati dall’amministrazione dello Stato attraverso processi e procedure di pianificazione. Tuttavia, questo è diventato un meccanismo inaffidabile, invariabilmente incapace di trovare un giusto equilibrio tra considerazioni logistiche, commerciali e sociali. Come architetti, urbanisti e designer operiamo inevitabilmente su incarico di un insieme indeterminato di gruppi d’interesse che avanza richieste diverse riguardo alle nostre qualità, capacità professionali e interessi intellettuali e sociali. Non possiamo fare finta che questo equilibrio sia garantito. Alcuni hanno una posizione precisa e non necessitano d’incoraggiamenti, altri hanno bisogno che prendiamo chiaramente la loro parte.
Mano a mano che dalla nostra attuale situazione cominciamo a emergere in un futuro incerto, il nostro impegno a favore dell’idea di comunità sarà sottoposto a un severo scrutinio. La pandemia ci separa e mette alla prova le strutture del comportamento e dei rituali sociali. Anche se procediamo ansiosi e insicuri, abbiamo l’opportunità non solo di riconfermare e ristabilire le priorità, ma di sancire un nuovo impegno verso l’idea di comunità. Gli ultimi mesi hanno dimostrato che l’ordine delle cose può essere cambiato e che possiamo prendere decisioni non solo per proteggere gl’interessi economici, ma anche il bene comune. Dobbiamo riesaminare le esigenze che hanno messo in conflitto il modo in cui costruiamo e progettiamo con il nostro ambiente naturale, e che hanno sottovalutato il contributo decisivo che il modo in cui costruiamo e progettiamo può dare al nostro senso di comunità.
Immagine di apertura: Thomas Struth, Shibuya Crossing, Tokyo 1991. Stampa cromogenica, 184 x 241,3 cm.