Incontro Bjarke Ingels nel suo quartier generale di Copenaghen, un edificio che dice molto di lui e della sua visione. Enfant prodige dell’architettura danese prima, poi globale, Ingels è appena atterrato da New York, eppure ha l’energia di un ciclone creativo, combinata al pragmatismo di chi ha fatto della materia e della forma il proprio campo d’azione. Nonostante l’età, “che inizia a sfumare in quella matura, avvicinandomi ai 50”, confessa con un sorriso, il suo curriculum è già un’epopea di affermazioni planetarie. Da CopenHill, la centrale elettrica trasformata in pista da sci, icona di una Copenaghen sostenibile e giocosa, a Via 57 West, il grattacielo piramidale che ridisegna lo skyline di New York, fino alle colonie lunari immaginate per Nasa, dove l’architettura si fa avamposto dell’umanità nello spazio. Un percorso costellato di premi e riconoscimenti, che lo ha consacrato tra i demiurghi del nostro tempo, capaci di plasmare la realtà con la forza delle idee.
Walter Mariotti: Proprio d’idee, visioni e materializzazione di sogni voglio parlare, in questo incontro che segna il tuo arrivo a Domus come guest editor dove ha fatto parlare solo la tua pratica architettonica, il ‘fare’. Perché hai accettato il nostro invito?
Bjarke Ingels: La prima ragione è perché Domus è una rivista iconica, insuperata e insuperabile, che richiede però un lavoro a tempo pieno. Io ne ho già uno full time, ma valeva la pena lo stesso pensarci. Per il resto hai ragione, mi sono deliberatamente tenuto lontano dagli eccessi di comunicazione per cinque o sei anni. Mi sono concentrato su ciò che è stata la cosa giusta da fare: organizzare e sviluppare lo studio. Abbiamo costruito la sede dove ci troviamo ora, ci siamo impegnati nella progettazione paesaggistica, nell’ingegneria, abbiamo messo molta energia nella pratica dell’edilizia in ogni parte del mondo. Così, quando mi hai contattato, ho davvero sentito che era il momento perfetto per guardare indietro e avanti. Come dicevo, penso che abbia pesato che stavo metabolizzando il mio cinquantesimo compleanno.
Un caso o un segno?
Un segno. Una volta ascoltai un discorso sui quattro quarti della vita, che può durare 100 anni. Nel primo quarto ti evolvi e diventi chi sei. Nel secondo persegui un mestiere o una vocazione, diventi parte di una squadra o ne metti insieme una, sei un creatore e anche un’organizzazione, scopri davvero il tuo dono. Nel terzo provi a dare questo dono al mondo. Infine, il quarto e ultimo vieni a patti con l’inevitabile: in qualche modo, ho passato gli ultimi 25 anni esattamente a costruire, Photo Laurian Ghinotoiu assemblare la squadra, scoprire cosa dobbiamo dare, fare osservazioni ed elaborare i valori e l’ideologia che sono specifici della nostra visione utopica pragmatica del mondo. Ecco, io vedo Domus in questo quarto che è appena iniziato. Ho i prossimi 25 anni per condividere quel dono attraverso la nostra pratica, modi di lavorare là fuori che troviamo stimolanti e vediamo come un contributo a dare forma al futuro.
L’architettura è la materializzazione del pensiero. Un ponte teso tra l’immaginazione e il mondo fisico, tra il sogno e la concretezza del vivere.
Bjarke Ingels, guest editor di Domus per il 2025
Hai pensato a un piano editoriale centrato sul materialismo, togliendo questo concetto dai luoghi comuni e non interpretandolo nel suo senso più crasso e banale, ma in quello più nobile di chi plasma la realtà, di chi traduce la visione in materia. Un demiurgo, una parola enfatica che indica chi, con pragmatismo e audacia, edifica utopie concrete.
L’architettura è la materializzazione del pensiero. Un ponte teso tra l’immaginazione e il mondo fisico, tra il sogno e la concretezza del vivere. Non si limita a rappresentare, ma costruisce, interagisce con le persone e con la natura. In questo senso vedo e intendo il materialismo, togliendo i significati negativi che storicamente ha accumulato. Si può guardare all’evoluzione della storia umana come a un racconto plasmato dai materiali che abbiamo saputo raccogliere e lavorare. Come dimostra il modo in cui chiamiamo le varie epoche preistoriche – l’età della pietra, l’età del bronzo, l’età del ferro – la nostra capacità di manipolare la materia è forse la forza più grande che ha guidato lo sviluppo della nostra cultura. Quando Michelangelo spiegò di aver guardato il blocco di marmo e di aver semplicemente rimosso tutto ciò che non era David, si ottenne la formula: marmo + eliminazione = David. Oppure, in termini più generali: materia + dono = realtà. Se il dare forma è ciò che abbiamo da dire come progettisti, allora il materiale è il mezzo con cui lo comunichiamo. Parafrasando Marshall McLuhan, il motto di quest’anno di Domus potrebbe essere: il materiale è il messaggio. Mi piace associare il materialismo ad alcune forme ossimoriche come “utopia pragmatica”, o “edonismo sostenibile”. Architettura è la capacità unica di tenere insieme tensioni apparentemente inconciliabili. Per dirla alla Paul Virilio, si può guardare alle città come a decelerazioni temporanee all’intersezione del costante flusso materiale di persone e merci. L’orchestrazione e la costellazione di questo flusso materiale è la nostra forma d’arte. La società è tutta fatta di questi processi immateriali, strutture immateriali, sociali, politiche ed economiche, che non sono tangibili. Il compito dell’architetto è capire quale sia il flusso di persone, delle relazioni tra i diversi. Devi comprendere l’istruzione se stai progettando un’università, la sanità se stai facendo un ospedale, la mobilità se stai facendo una piazza. Ecco, se stai facendo bene il tuo lavoro finisci per disegnare i contorni di queste strutture invisibili di processi, quindi in ogni caso manifesti, rendi materiale ciò che è astratto.
Mostri di muoverti con disinvoltura in questo campo di forze contrapposte, tra la spinta ideale verso un futuro migliore e la consapevolezza dei vincoli, tra l’ambizione di trasformare il mondo e la necessità di confrontarsi con la realtà. Sembri un equilibrista che danza sul filo teso tra l’utopia e la pragmatica, tra l’edonismo e la sostenibilità. Un ossimoro vivente, potremmo dire. È questo il tuo rapporto con i luoghi?
Ogni luogo ha una sua anima, un suo genius loci che va ascoltato, compreso, interpretato. Questo è il mio approccio alla progettazione, che si tratti dei grattacieli a Manhattan o delle montagne nel Bhutan, l’architettura non è mai un gesto prevaricatore, ma un dialogo rispettoso con il contesto, con la storia, con le tradizioni. Un processo di osmosi, di scambio e arricchimento reciproci.
E poi c’è la tecnologia, elemento chiave nel tuo lavoro.
La tecnologia è uno strumento straordinario, che ci consente di superare i limiti del passato, di esplorare nuove frontiere. Non deve però essere fine a se stessa, ma contribuire a creare spazi più vivibili, più sostenibili, più a misura d’uomo. Un’architettura tecnologica, quindi, ma non tecnicista, che utilizza l’innovazione per migliorare la qualità della vita. Viviamo in un’epoca di grandi trasformazioni, un’epoca in cui il mondo cambia a una velocità vertiginosa. L’architettura deve saper interpretare questi cambiamenti per dare risposte concrete ai problemi del nostro tempo
Quali sono? Il cambiamento climatico, la scarsità di risorse, la crescita demografica, le tensioni sociali? Sfide epocali che richiedono soluzioni innovative, capaci di coniugare sostenibilità ambientale e nuovi approcci.
Per rispondere parto dai neorazionalisti, in primis Aldo Rossi. Il viaggio del neorazionalismo alla fine è degenerato in una forma molto postmoderna. Penso che, in questo momento, stiamo attraversando qualcosa di simile, c’è ansia per il cambiamento climatico, il riscaldamento globale, una sorta di senso di colpa e responsabilità dell’industria delle costruzioni. Tutto questo sta portando a cercare conforto in ricette ben note, ma purtroppo non puoi semplicemente ripetere il passato, perché il mondo è in continua evoluzione.
Non sei nostalgico, quindi.
Credo che non si debba dimenticare quanto conquistato da alcune delle grandi soluzioni del passato, ma in qualche modo dobbiamo affrontare il presente. Anche perché, quando penso che i materiali finiscono per essere associati a certi errori commessi nel passato, mi deprimo. Per esempio in Danimarca, in Inghilterra e forse anche in Italia, il cemento è associato all’edilizia popolare degli anni Settanta, con tutto quello che di immaginario e di reale si porta dietro. Peccato, però, che tutti questi edifici ultramoderni in vetro e acciaio che puoi vedere qui dal nostro balcone, anche se sembrano diversi sono costruiti con il cemento. Anche i mattoni che usiamo nella tradizione edilizia del Nord Europa non sono cotti al sole africano, ma nei forni che incidono tantissimo su inquinamento e impronta, perché sono cotti due volte per farli sembrare rustici. Questo è il problema. Nel contesto del cambiamento climatico, sappiamo che l’ambiente costruito è responsabile del 40 per cento delle nostre emissioni, ma sappiamo anche che la maggior parte della nostra vita avviene dentro gli edifici, quindi è difficile invertire la marcia.
Andiamo verso la conclusione. Che consiglio daresti al Bjarke di 25 anni fa, quando eri all’inizio del secondo quarto?
Il mio unico consiglio è di non accettare consigli (sorride). Al di là della battuta, credo che ciò che è vero ora non lo sarebbe stato per me allora. Da un lato penso di aver dovuto riconsiderare costantemente le mie ipotesi, a volte ribaltandole. D’altra parte, a posteriori mi sono sorpreso di quanto siamo stati coerenti, di come abbiamo continuato a rimanere fedeli alle stesse idee fondamentali. Penso che forse le domande che ci poniamo rimangono in qualche modo coerenti, mentre le risposte che diamo finiscono per assumere una nuova forma. Ho sicuramente avuto molti dogmi quando ero più giovane, utili perché mi permettevano di non provare a fare tutto, ma probabilmente si ha bisogno di avere convinzioni forti per portare avanti degli ideali. In Bhutan ho scoperto l’artigianato locale: ancora oggi, ci sono 12 grandi scuole che istruiscono intagliatori del legno, pittori, scalpellini che modellano. A 25 anni era praticamente impossibile capire questi meccanismi, queste realtà. Quando è caduto il muro di Berlino avevo 15 anni e mi sembrava che ci sarebbero stati solo pace e armonia. Invece, negli ultimi due anni, Svezia e Finlandia sono dovute entrare nella Nato e stanno mettendo missili vicino alla base navale di Copenaghen, che è davanti alla casa galleggiante dove vivo e che doveva chiudere quattro anni fa per diventare un nuovo quartiere. Non solo non è successo, ma ora ci sono quattro navi da guerra lì a causa dei conflitti in Ucraina e a Gaza. Abbiamo visto poi il crollo del Nasdaq nel 2001 quando abbiamo iniziato con Plot. Dopo che abbiamo creato BIG è arrivata la crisi finanziaria nel 2008, il Covid-19 nel 2020: abbiamo attraversato queste frantumazioni più volte. Ecco, la nuova consapevolezza è una sorta di citazione e idea di accelerazione dell’innovazione e di miglioramento costante, ma bisogna lottare per i principi in cui si crede, perché saranno costantemente minati se non li si combatte. Anche in Occidente dobbiamo lottare per la libertà di parola, chi lo avrebbe mai detto? Penso che la critica alla polarizzazione del mondo, che rovescia alcuni luoghi comuni tra nord e sud, sinistra e destra, sia il fondamento della democrazia e del discorso intellettuale. La critica è tutto, è il fulcro della conversazione, della riflessione, dell’evoluzione del pensiero e della creazione della dialettica. Per questo sono felice di fare il guest editor di Domus.
L’ultima parola.
Critica. L’unico modo in cui comunichiamo in architettura è criticando il nostro lavoro. L’unico modo in cui puoi migliorare è essere fedeli ai se stessi prima di tutto. Oggi il rischio più grave è che il discorso politico e culturale sia privo di critica. Non si possono seguire i dogmi, perché sono il tentativo di trarre tutte le conclusioni in anticipo e poi non pensare mai più criticamente. Poiché viviamo in un mondo in continua evoluzione, il dogma è destinato a diventare obsoleto: l’unico modo per agire è accumulare saggezza e osservazioni, rimanere aperti. Lo stesso atteggiamento di una rivista come Domus, che fa critica da 96 anni ponendo domande scomode per trovare le risposte più pertinenti possibili al mistero della realtà.