Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1048, luglio-agosto 2020. Le sedie di Robert Wilson sono pezzi d’arredo, sculture, icone, oggetti di scena, narrazioni, personaggi e, in tutti questi ruoli, sono parte di una Gesamtkunstwerk, di un’opera d’arte totale. La loro esistenza incide sul mondo che le circonda e lo cambia. Come ogni cosa progettata da Wilson, travalicano i confini disciplinari, hanno funzioni molteplici e lasciano spazio all’interpretazione personale. Le sedie sono parte integrante del suo lavoro di regista teatrale e danno un contributo all’affascinante bellezza dell’opera in continua evoluzione di Wilson. Il mio esempio preferito è la Chair with its Shadow (Freud Hanging Chair) nata per un caso fortunato. Poiché Wilson non era soddisfatto delle proporzioni verticali del primo prototipo, un assistente disegnò al computer un profilo più corto e più largo sulla sinistra. Wilson la vide e se ne innamorò. Risultato finale: la sedia ha sei gambe e una seduta sorprendentemente comoda.
Robert Wilson: “Mai pensato al design teatrale come decorazione, ma come qualcosa di architettonico”
Il grande regista americano ricostruisce il complesso dialogo tra le arti che c'è dietro alle sue produzioni, svelando una ricca gamma di punti di riferimento. Punto di partenza, le sedie.
Courtesy of RW Work Ltd
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- Christian Wassmann e Robert Wilson
- 13 agosto 2020
Pur essendo oggetti statici, le sue sedie sono sempre in movimento. Quando un nuovo oggetto (o una persona) entra in scena o in uno spazio, si crea una tensione, si sviluppano dei dialoghi. Chi era già presente reagisce finché non viene ristabilito l’equilibrio della costellazione, per essere lentamente spinti o trascinati via di nuovo pochi momenti dopo. Questo gioco continuo è anche uno dei principi fondamentali del Watermill Center, il centro d’arte e cultura con artisti in residenza e laboratori che Bob Wilson ha fondato a Long Island nel 1990, dopo avere studiato architettura al Pratt Institute negli anni Sessanta e dopo avere lavorato con Paolo Soleri all’urbanistica della futuristica città di Arcosanti.
Christian Wassmann, architetto e designer svizzero attivo a New York, ha collaborato spesso con Robert Wilson tra il 1997 e il 2007.
Quando avevo 11 anni per il Giorno del ringraziamento andai a trovare mio zio Sherod ad Alamogordo, nel New Mexico. Viveva come in clausura nel deserto di White Sands, in una casa bianca fatta di adobe che si era costruito da solo. Era un edificio semplice, con pareti e pavimento di terra battuta, come del resto travi e soffitto. In ogni stanza c’erano pochissimi arredi: in una, vasi e contenitori nativo-americani; in un’altra, un materasso con sopra una coperta Navajo. La stanza che più colpiva, però, era quella che conteneva un’unica sedia. Era una sedia di legno snella, piccola, con lo schienale abbastanza alto, di origini ignote, ma probabilmente costruita da qualcuno che viveva nel New Mexico. Non era più larga di 40 cm ed era alta circa 1,40 m.
Dissi a mio zio Sherod: “È una sedia bellissima!”. Il Natale seguente lui me la mandò in regalo. Era un regalo di Natale decisamente insolito per un ragazzo del Texas. Di solito, ricevevo un fucile o una camicia a scacchi di flanella rossa, doni che non mi piacevano. Sei anni dopo, mio cugino John mi scrisse che suo padre mi aveva spedito una sedia che era sua, e che la rivoleva indietro; e io gliela spedii in California. Così iniziai a interessarmi alle sedie. Come diceva Marcel Breuer, “nei dettagli di questa sedia c’è tutta la mia estetica. La stessa estetica di quando progetto un edificio o una città è già presente nei dettagli della sedia”.
Bertolt Brecht perseguiva un teatro epico in cui tutti gli elementi erano ugualmente importanti. Un gesto, un testo recitato o stampato, una sedia: erano tutti parte integrante e altrettanto importanti in quello che chiamava teatro epico. Nei miei spettacoli, le sedie non sono pensate come attrezzi di scena, ma possono essere considerate sculture in sé. Fin dagli inizi della mia carriera teatrale ho introdotto spesso una sedia come parte integrante dei miei spettacoli. Uno dei primi allestimenti del 1969 fu The Life and Times of Sigmund Freud. Per quello spettacolo progettai una sedia appesa. L’allestimento era in tre atti e la sedia nel corso dei tre atti veniva calata dall’alto del proscenio per tutta la durata dello spettacolo.
Nei miei spettacoli, le sedie possono essere considerate sculture in sé
Partendo da questa sedia ho realizzato una scultura, Freud Hanging Chair, di rete metallica a maglie quadrate. Si appende in diagonale e la si illumina con una sorgente che proietta un’ombra sulla parete vicina. Guardandola da una certa distanza, non si capisce se si sta guardando la sedia o l’ombra: diventano tutte linee nello spazio. Alcune delle sedie che ho progettato rappresentano, per me, gli dei del nostro tempo: Freud, Einstein, Stalin, la Regina Vittoria, Marie Curie. Come i drammaturghi greci, che scrivevano degli dei del loro tempo. Spesso le sedie non sono funzionali. Sono qualcosa da considerare in astratto come una scultura. Hanno la loro autonomia, indipendentemente da una produzione teatrale.
Gertrude Stein, quando le chiesero che cosa pensava dell’arte moderna, rispose: “Mi piace guardarla”. Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come a una decorazione, ma come a qualcosa di architettonico.
Freud Hanging Chair. Ho costruito una serie di sedie simili alla sedia di legno di mio zio Sherod
Blacksmith Chair, 1999, disegnata per l’opera musicale The Days Before: Death, Destruction, and Detroit III
Kafka Chair, 1987, in Death, Destruction and Detroit II
Pierre Curie Chair, 1989, dall’opera lirica di Louis Andriessen De Materie
Per Einstein on the Beach, ho realizzato la Einstein chair di tubo idraulico, perché Einstein diceva che, in un’altra vita, avrebbe fatto l’idraulico. Curiosamente, quando l’ho fatta, Philip Glass faceva l’idraulico
Jochanaan’s Chair, 1987. Quando ho diretto la Salomè alla Scala, con Montserrat Caballé nella parte di Salomè, ho costruito questa sedia rossa per Jochanaan
Bessie Smith “Breakfast” Chair, 1988. All’epoca, con Allen Ginsberg e una composizione jazz di George Gruntz, ad Amburgo ho allestito l’opera Cosmopolitan Greetings. C’era una scena con Bessie Smith. Un giorno, Bessie Smith stava facendo colazione con suo marito. Lui non parlava. Verso la fine della colazione, il marito si alzò, uscì dalla stanza e non tornò più. Così ho fatto questa sedia doppia, dove due personaggi (un uomo e una donna) sedevano rivolti in direzioni diverse. A un certo punto, l’uomo si alzava e se ne andava. Non l’ho mai detto a nessuno, e di per sé non era evidente, ma quell’episodio è il sottotesto della Bessie Smith Chair
Butterfly “Waiting” Chair, 1993. Ho progettato questa sedia per la Madama Butterfly. Secondo me la scena più importante dell’opera di Puccini è un momento che dura tra gli 11 e i 13 minuti, a seconda del direttore d’orchestra. Sul palcoscenico non accade nulla, a parte Madama Butterfly che se ne sta seduta ad aspettare il ritorno di Pinkerton. In sottofondo, fuori scena, il coro sussurra. Spesso la scena non è inserita nell’allestimento perché nessuno sa come realizzarla. Al debutto dell’opera, i critici attaccarono Puccini: sostenevano che l’allestimento era un fallimento perché non succedeva nulla. Così lui la tagliò subito dopo il debutto. Finché Puccini fu in vita (e successivamente sua moglie), la scena fu esclusa, e spesso ancora oggi non è rappresentata. Quando ho messo in scena la Madama Butterfly l’ho inclusa e, in generale, il pubblico confermò che quello era il punto saliente dell’opera. Questa sedia compare più volte in tutto l’allestimento come elemento scultoreo. Solo occasionalmente abbiano visto Butterfly sedercisi, in attesa. È la Butterfly “Waiting” Chair
Child’s Horse Chair, 1994. Negli anni Ottanta ho allestito al Münchner Kammerspiele uno spettacolo che si intitolava The Moon in the Grass, basato sulle fiabe dei fratelli Grimm. C’era una scena con un bambino che giocava con mattoncini; costruiva una casetta che poi qualcun altro distruggeva. Questa era la sedia-cavalluccio di un bambino
Father’s Chair, 1999. Nel 1999 ho diretto The Days Before: Death, Destruction, and Detroit III, con testi di Umberto Eco. C’era una scena di famiglia e questa era la sedia del padre
Mondrian Chair, 1989. Ho realizzato questa sedia per una scena su Mondrian, nell’opera lirica De Materie di Louis Andriessen. Mondrian detestava le linee diagonali. Tutti i suoi quadri e l’ambiente dove viveva erano fatti di rette ortogonali. Così progettai una sedia a linee diagonali e la misi in scena su una parete color verde acido. Mondrian odiava il verde. Una volta, una persona gli regalò dei tulipani e lui verniciò gli steli e le foglie di grigio. Questa sedia, verniciata di grigio, si stagliava contro una parete verde acido. Sottolineava un aspetto della sua personalità, come una sorta di ritratto dell’artista
Headrest for Saint Theresa, 1996. Ho allestito Four Saints in Three Acts di Gertrude Stein e Virgil Thompson e questa sedia era un poggiatesta per Santa Teresa, che poggiava il capo sulla dimora celeste
Parzival Chair, 1987. Ho progettato questa sedia per il Parzival basato sul testo originale di Wolfram von Eschenbach, la versione antica in cui il Santo Graal non viene trovato. Ho progettato una sedia con la sua ombra per Christopher Knowles, che recitava la parte di Parzival
Salomè Chair, 1987. Ho realizzato questa sedia per Salomè alla Scala nel 1987. Un trono. Nessuno ci si è mai seduto
Rudolf Hess Beach Chairs, 1979. In Death Destruction and Detroit, che ho diretto a Berlino alla Schaubühne nella stagione 1978-1979, c’era una scena su Rudolf Hess, il braccio destro di Hitler. C’erano delle sedie a sdraio posizionate sul tetto di un edificio di New York, con due persone che prendevano il sole nel bel mezzo della notte durante una Guerra mondiale
Marina Rocker, 2011. Ho realizzato la versione di questa sedia a dondolo per un allestimento sulla vita di Clementine Hunter, un’opera intitolata Zinnias. Quando avevo 12 anni, i miei genitori portarono me e mia sorella in viaggio in Louisiana, dove conobbi Clementine Hunter. Era una pittrice che aveva sempre vissuto in una piantagione. Non aveva mai studiato pittura, non sapeva leggere né scrivere, ma dipinse centinaia di quadri: immagini di vita quotidiana, scene di battesimi, matrimoni, funerali, giorni di bucato e natura. I suoi quadri erano la registrazione visiva dei suoi tempi.
Ne acquistai uno per 25 centesimi. È stata la prima volta che ho acquistato un’opera d’arte. Le zinnie erano il fiore preferito di Hunter, che le dipinse spesso. Ho progettato la sedia per lei, pensando alle sedie a dondolo che vediamo sotto le verande nel Sud degli Stati Uniti. Ne ho fatte due versioni e la seconda l’ho usata in The Life and Death of Marina Abramović
Writer’s Table, 1998. Destinato al mio spettacolo White Raven, un’opera che ho realizzato con Philip Glass, questo tavolo alterna positivi e negativi. Era il tavolo di uno scrittore e, sul piano, c’erano fiori che galleggiavano sull’acqua. Lo scrittore sedeva al tavolo scrivendo nell’aria con una piuma. In occasione della prima, Lisa Ponti mi mandò un disegno, che non conoscevo, di un tavolo progettato da suo padre, Gio Ponti. Nel disegno, il piano del tavolo è coperto d’acqua per fare galleggiare i fiori
Hermione Chair, 2005. È la sedia di Hermione, dal mio allestimento del Racconto d’inverno di Shakespeare, che ho diretto al Berliner Ensemble. È di bronzo con la seduta di ardesia
Electric Chairs... As You Like It, 2011. Queste sedie sono state realizzate per un fantasy. In origine ne ho progettate sette, per le sette età dell’uomo di Come vi piace di Shakespeare. Le sedie appaiono come linee nello spazio. La forma dei neon non ha nulla a che fare con quella delle sedie