Da “less is more” a “less, but better”: la semplicità nella storia del design

Da “less is more” di Mies van der Rohe a “meno, ma meglio” di Dieter Rams, la semplificazione è un filo conduttore nella storia del design che oggi diventa una questione di sopravvivenza.

“Semplificare, semplificare!” annotava Thoreau nel suo taccuino, dal suo isolamento nel bosco di Walden. E, come un grido d’allarme contro i pericoli della sovrabbondanza e come antidoto alla cultura del consumo sfrenato, l’appello alla semplicità riecheggia di nuovo oggi, nel mondo in crisi.

Sempre di più, il nostro habitat è saturo di immagini e sovrappopolato di loghi, le case e città sono invase da oggetti e prodotti, l’orizzonte mediatico è sovraccarico di sollecitazioni visive che ci disperdono invece di attrarci. Nel suo libro Horror Pleni, Gillo Dorfles [1] aveva spiegato come questo eccesso di “rumore” visivo e cognitivo, che parassita la comunicazione della società contemporanea, richiamava, in senso inverso, l’horror vacui, la paura del vuoto, dell’uomo preistorico, che lo spingeva a decorare le pareti delle grotte con i primi segni.

Oggi, sotto la pressione di una doppia crisi economica ed ecologica, accentuata da una emergenza sanitaria inedita, è più necessario togliere che mettere, cancellare, reintrodurre sistematicamente delle zone di silenzio di vuoto. Rallentare, fermarsi, fare una pausa. Semplificare, a tutti i livelli (pubblico e privato, individuale e collettivo): dall’alimentazione all’agricoltura, dal turismo all’energia, dai trasporti alla politica. Una forma di tregua, per immaginare un mondo a misura d’uomo di fronte alla minaccia della sua saturazione e del suo degrado…

Il ritorno alla semplicità non è un’ennesima tendenza nella giostra delle mode, non si impone come un’esigenza estetica, ma come imperativo etico.  

DIeter Rams, Braun TP1, radio e giradischi portatile, 1959. Collezione Alfaro Hoffmann, Godella.

L’arte ci ha fornito da decenni esempi significativi di strategie di semplificazione: dall’emergere dell’astrazione all’inizio del ‘900 alla persistenza del monocromo in pittura, dal minimalismo all’esilio dell’oggetto nelle pratiche concettuali. Semplificando le sue forme, e spesso rinunciando all’oggetto, l’opera diventa ambiente, sistema, comportamento, esperienza. Perché, come spiegava Robert Morris in una formula divenuta famosa, “la semplicità della forma non equivale necessariamente alla semplicità dell’esperienza” [2].

Allo stesso modo, la semplificazione è un filo conduttore nella storia del design, non solo nel suo continuo dialogo con il mercato e l’industria, ma anche con l’arte. Qualche anno fa, l’esposizione The Essence of Things. Design and the Art of Reduction (2010) aveva tracciato la storia del “principio di semplicità” nella produzione di manufatti dalla preistoria a oggi [3].

In particolare, con il modernismo, la semplificazione formale diventa sinonimo di razionalizzazione, e si manifesta in un rifiuto dell’ornamento, in una riduzione all’“essenza dell’oggetto”, cioè alla sua dimensione funzionale. Questa linea, che rivendica una perfetta aderenza tra forma e funzione, collega la scuola di Chicago con il Bauhaus, Ulm con le ricerche contemporanee sull’innovazione tecnologica. Diversi slogan la punteggiano: dalla “Gute Form” di Max Bill [4] al “Less is More” di Mies van der Rohe, al “Weniger, aber besser” (meno, ma meglio) di Dieter Rams… E proprio Rams conclude il suo decalogo per il Good Design, spiegando che il “buon design è meno design possibile”, e inneggiando alla semplicità come valore fondamentale. L’efficacia ergonomica e funzionale e l’essenzialità formale non costituiscono solo dei principi tecnici, ma una vera e propria filosofia etica, in cui il “buon design” si afferma come uno strumento fondamentale del miglioramento sociale. È in questa prospettiva che si è sviluppata una buona parte del design tecnologico, da John Maeda – che ha fatto l’elogio della semplicità in un celebre libro-manifesto [5] – a Yves Béhar, Sam Hecht, e, naturalmente, Jonathan Ive.

Ma altri approcci rivendicano lo stesso imperativo della semplicità. Basta pensare all’esposizione SuperNormali (2007) [6]. Secondo i designer Jasper Morrison e Naoto Fukasawa, curatori della mostra, la “normalità” degli oggetti ordinari, a volte anonimi ma sempre radicati negli usi della vita quotidiana, è da rivalutare, contro una deriva del design che troppo spesso cede alla retorica dello stile e alle logiche del marketing.

Victor J. Papanek e James Hennessy “Lean-To Chair”, illustrazione dal manoscritto Nomadic Furniture 2, 1974. © James Hennessy e University of Applied Arts Vienna, Victor J. Papanek Foundation

Ma oggi l’appello alla semplicità sembra andare verso un’altra direzione, più legata alla situazione di emergenza. Più che funzionalità, la semplicità è vista come sinonimo di frugalità.

Il processo della modernità, che sembrava inarrestabile, arriva a una svolta. Di fronte alla minaccia di una crisi irreversibile, si invocano i principi della resilienza, in cui il design si riconnette ai bisogni fondamentali, alla sussistenza. Se per il modernismo, la semplicità di forma fondava la dimensione etica del design, ora è il fondamento etico del design che impone la semplicità della forma. Semplificare significa riappropriarsi gli strumenti, ridurre i filtri, le intermediazioni, sottrarsi alle logiche del mercato, e, come l’aveva già immaginato Victor Papanek negli anni ‘70, ripensare il design in una prospettiva non solo sociale ma anche politica.

Dappertutto sono visibili i sintomi di questa “svolta etica”: il proliferare di strutture che infiltrano il tessuto urbano, come i giardini condivisi, i collettivi del compost, gli ecoquartieri, le cooperative energetiche, ma anche i Fab Labs, gli eco-hacklabs, i centri di riciclaggio, testimoniano l’empowerment degli abitanti delle città nei confronti delle istituzioni pubbliche e mercato. Queste iniziative di resilienza urbana autogestita sono spesso ospitate da associazioni, costituite con pochi fondi, e promuovono la lentezza, l’autoproduzione, le “tecnologie semplici”, la collaborazione e l’economia dei mezzi.

Nel frattempo, nel mondo del design si raccolgono esperienze (Design Emergency, a cura di Paola Antonelli e Alice Rawsthorn), si diffondono progetti – pensiamo ad Autarchia dei Formafantasma, basato sull’uso del pane come materia prima – e si sviluppano pensieri e pratiche rivoluzionarie come la Material Ecology di Neri Oxman (in mostra al MoMa), che considera la materia biologica come un nuovo substrato di co-design con cui costruire secondo una logica che ribalta i fondamenti della modernità. L’urgenza e l’impegno animano tutti questi progetti: ridurre, semplificare, è diventata oggi una questione di sopravvivenza.

Emanuele Quinz (Bolzano, 1973) è storico dell’arte e curatore. Professore associato all’Université Paris 8 e ricercatore associato all’EnsadLab (École nationale supérieure des Arts Décoratifs), le sue ricerche esplorano le zone di frontiera tra le diverse discipline artistiche.

Immagine di apertura: Neri Oxman and The Mediated Matter Group. Silk Pavilion. 2013. Vista attraverso le aperture del Padiglione della Seta come i bachi da seta scuoiano la struttura. Foto: The Mediated Matter Group. Courtesy The Mediated Matter Group

[1]:
Gillo Dorfles, Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Roma Castelvecchi, 2008
[2]:
Robert Morris, Notes on Sculpture, in Artforum, Octobre 1966
[3]:
The Essence of Things. Design and the Art of Reduction, Vitra Design Museum, 2010
[4]:
La formula che usa Bill è “ein maximum an wirkung mit einem minimum an materie” (un massimo di effetto con un minimo di materia). Cf. Max Bill, Schönheit aus Funktion und als Funktion (1949), in Form, Function, Beauty = Gestalt, London, Architectural Association, 2010, p. 32-41
[5]:
John Maeda, Le leggi della semplicità, Milano Bruno Mondadori, 2006
[6]:
Naoto Fukasawa, Jasper Morrison, Super Normal. Sensations of the Ordinary, Zurigo Lars Müller Publishers 2007

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