Partiamo dall’inizio. Come è nata la vocazione per il design e l’architettura?
Antonio Citterio: La vocazione non credo di averla avuta mai. Nel senso che non mi sono mai posto la domanda. Ho sempre fatto design, era per me la cosa più naturale. Mio padre era artigiano ma disegnava i prodotti, per cui già da piccolo ero circondato da disegni. A 14 anni mi sono iscritto a una scuola d’arte e a 18 anni avevo già vinto una competizione di design. È all’istituto d’arte che ho conosciuto Paolo Nava, con cui ho fondato uno studio, subito dopo la fine della scuola, nel giugno 1970. Abbiamo lavorato insieme fino all’81, poi ho continuato da solo. Nel 2000 si è consolidata la partnership con Patricia Viel, con cui collaboravo dal 1984, ed è nato lo studio Antonio Citterio & Partners, divenuto poi Studio Citterio Viel & Partners (oggi Antonio Citterio Patricia Viel, con uno staff di oltre 100 persone, guidate da otto partner).
Come si articolano nel vostro lavoro design e architettura?
AC: Il design costituisce solo una piccola parte dello studio. È uno dei punti forti della tradizione del design italiano: non c’è distinzione tra visione del prodotto e visione dell’architettura, il prodotto nasce all’interno di una visione dell’architettura. Il design italiano è quasi sempre fatto da architetti. Gli oggetti nascono quasi sempre come soluzioni a problemi di spazio, a problemi architettonici.
Patricia Viel: La cultura dello studio, anche di architettura e di urban design, ha assorbito questa visione, che, più che focalizzarsi sugli oggetti o sulle forme, stabilisce delle relazioni tra gli oggetti. È un modo specifico di vedere il mondo, un processo mentale che attraversa tutte le scale del progetto. Un modo per affrontare la complessità.
AC: È un metodo profondamente legato alla definizione del design. Certo, esiste un design decorativo, basato su oggetti semplici. Ma il mio design si concentra su prodotti complessi in situazioni complesse, per questo richiede un lavoro di team. In ogni progetto sono all’opera una moltitudine di esperienze e competenze specifiche. Questo vale per il design come per l’architettura, dove la complessità è ancora maggiore: si lavora con lo strutturista, il facciatista, il light designer... Saper gestire le competenze, saper gestire la complessità, è una grande qualità degli architetti.
A proposito del vostro metodo, tra i termini che avete scelto sul vostro sito per spiegare i progetti appaiono dei concetti forti come linguaggio, storia, memoria.
AC: La definizione del linguaggio è uno dei grandi temi che devi affrontare quando inizi la professione di designer: capire chi sei e cosa vuoi fare. Poi, con il tempo e l’esperienza, questo nodo si scioglie. Nel mio caso, ho capito che non mi interessa stravolgere o sorprendere, ma cercare di arrivare alla sintesi. Per questo, considero importante studiare quello che è stato fatto, comprendere come avvengono le cose, come un progetto funziona. In questo senso, mi sento vicino alla metodologia di Eames e della scuola americana, dove si scompone l’oggetto per poterlo pensare in tutte le sue parti, dove la connessione diventa il disegno del progetto stesso. È fondamentale essere chiari, costruire delle cose chiare, che abbiano una forma di limpidezza, di esattezza e di evidenza. Il processo non si riassume certo nel dettaglio tecnico o costruttivo, anzi il dettaglio è rapidamente dimenticato, assorbito, fa sempre più parte della mano che scrive, e non è pensiero. Ma l’abitudine di pensare in questa logica, fa sì che tutto diventi semplice. È una vera e propria forma mentale.
PV: Nell’architettura, oggi l’aspetto più rilevante è sicuramente il ruolo del progetto nel contesto sociale, economico, nel contesto dell’ambiente costruito. Prima di iniziare il progetto, si deve decidere cosa deve fare l’architettura: cosa deve attivare, se deve avere una vocazione civile o costituire uno sfondo, creare una continuità di paesaggio, se deve dare una netta percezione di bellezza – che nell’architettura qualche volta è pericolosa, perché sconfina in altre forme di espressione. L’architettura non si occupa di gusto, e, paradossalmente, nemmeno di proporzioni, è più brutale da una parte, e più complessa dall’altra. In ogni caso, l’analisi del problema è la base di tutto.
Tra tutti i progetti realizzati, quali considerate le sfide più difficili?
AC: In questo momento, i grattacieli. Molte volte, il grattacielo è talmente fuori scala da diventare quasi un oggetto.
PV: In effetti, per certi aspetti, il grattacielo è irritante. Come lo è stato il progetto del ponte dell’Expo. Era richiesto il monumento, e allo stesso tempo doveva essere un viadotto. L’infrastruttura regola dei flussi, diventa un elemento di paesaggio, è legata a un eroismo costruttivo che va oltre l’architettura.
In questi anni, avete assistito a diverse trasformazioni – per esempio dell’industria, grazie alle nuove tecnologie, all’informatizzazione dei processi di produzione…
AC: Negli anni ‘70, il rapporto con l’industria era costruito a partire dall’esperienza artigianale. Il designer passava il suo tempo a lavorare con i modellisti per realizzare dei modelli di legno, dei prototipi. Nel mio caso, determinati prodotti li so fare proprio grazie a questo sapere artigianale. Per esempio, per poter disegnare un divano, è fondamentale sapere come si taglia e come si piega il tessuto, come gira l’attacco della spalla in una giacca. Oggi tutto avviene in modo più veloce. Nel processo di concezione sono coinvolte più persone, e, per certi aspetti, il prodotto, che è sempre un grande investimento, nasce con più chiarezza rispetto alla risposta del mercato. Negli anni ‘70, andavano sul mercato una quantità di prodotti che poi sparivano rapidamente. Oggi questa proliferazione di prodotti semi-industriali ha chiuso il suo ciclo.
Gli oggetti hanno cambiato statuto, diventano sempre di più interfacce. In questo contesto, la dinamica della forma-funzione che aveva retto il design moderno appare obsoleta, la relazione diviene centrale. Ma come si progettano le relazioni?
PV: Si tratta di un punto fondamentale. Per avere il controllo sulla sostenibilità di un progetto architettonico, oggi non si deve più pensare l’architettura dal punto di vista geometrico, ma bisogna in qualche modo progettare il comportamento. La modellizzazione digitale è giunta a un tale livello di sofisticazione che permette di prevedere il comportamento di un ambiente: acustica, aria, flussi, luce, cosa accade se c’è troppa gente... In questo periodo d’incertezza ci chiedono spesso come deve essere un’architettura post-pandemica. Non è un problema di forme, ma di comportamenti. Bisogna ragionare sulla relazione tra le cose e le persone, ascoltare le voci dei diversi attori in gioco, simulare le dinamiche. Perché non è un gioco.
C’è, secondo voi, un “modo italiano” del design e dell’architettura?
AC: La forza della tradizione italiana, l’eredità che da Giò Ponti va a Caccia Dominioni, a Magistretti e che si è costituita in un sistema, che lega industrie, riviste, fiere, creando una catena del valore in cui il design è al centro. In molti mercati la casa e l’arredamento sono ancora visti come status, si accumulano oggetti staccati dal loro vero valore. Invece in Italia, l’abitare è un fatto culturale, che rappresentava un tipo di società, un saper vivere, risultato di una situazione unica. Per certi aspetti l’architettura non ha avuto il successo del design, anche se negli ultimi 15 anni, anche l’architettura italiana, e non solo Renzo Piano, comincia avere un peso nel mercato internazionale.
Emanuele Quinz (Bolzano, 1973) è storico dell’arte e curatore. Professore associato all’Université Paris 8 e ricercatore associato all’EnsadLab (École nationale supérieure des Arts Décoratifs), le sue ricerche esplorano le zone di frontiera tra le diverse discipline artistiche.