Non riesce a trovare pace. Ronza, nervosa, nei 35 gradi della tenda affollata. La mosca, nera e frenetica, si posa su una guancia accaldata, poi su una padella ammaccata e, infine, vola fuori, trovando una via d’uscita. In Grecia, ai confini con la Macedonia, gli accampamenti di rifugiati sono città invisibili. Tra sbarchi, rimpatri e ricollocamenti, le tendopoli nate come soluzioni temporali si sono trasformate in luoghi d’emergenza umanitaria dove vivono, in tende e container, nell’afa estiva o nel gelo invernale, migliaia di profughi. 60.000, secondo l’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Progettare per l’emergenza. Maidan tent, una nuvola gonfiabile in un campo profughi
Opera del giovane studio milanese ABVM con Leo Bettini Oberkalmsteiner e patrocinata dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Maidan Tent colma un vuoto nella progettazione.
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- Francesca Esposito
- 24 ottobre 2018
- Grecia
- ABVM
- edificio pubblico
- 2018
“Loro, noi, tutti siamo migranti. L’abitare, per questo, deve essere flessibile e fluido”. Si infervora, come solo i giovani di grandi speranze sanno fare, l’architetto Bonaventura Visconti di Modrone. Classe 1986, dopo una laurea in Architettura allo IUAV e un master in Danimarca, a 27 anni parte alla volta di Haiti dove realizza un complesso multifunzionale per bambini di strada.
Poi, nel 2015, si spinge a Idomeni, sul confine greco macedone. Nel 2018 fonda lo Studio ABVM e guida, insieme a Leo Bettini Oberkalmsteiner, il gruppo di volontari che ha inaugurato lo scorso maggio, nel campo greco di Ritsona, la Maidan tent.
Patrocinata dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), agenzia collegata alle Nazioni Unite, con il sostegno di Arup Community Engagement, è frutto di un’azione corale che ha coinvolto anche una squadra di creativi: il grafico Giovanni Dufour, l’architetto Simon Kirchner, lo psichiatra Giuliano Limonta, i fotografi Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti, l’organizzatrice di eventi Clementina Grandi e l’addetta stampa Francesca Oddo. La “nuvola gonfiabile”, come la chiamano i profughi del campo di Ritsona, ha una posizione centrale come fosse la piazza di un insediamento urbano. È frutto di “Maidan, infatti, significa piazza in arabo” racconta Bonaventura.
“Tutto è nato quando sono arrivato in Grecia, a due giorni dallo sgombero della tendopoli di Idomeni. Mi sono guardato attorno. In tanti, come me, erano arrivati lì per fare qualcosa, per ascoltare le testimonianze, per dare una mano. Da parte mia ho iniziato a sentire la gente, a notare l’imbruttimento cui erano costretti i profughi. Ho iniziato a chiedermi: cosa succede dopo che i bisogni primari vengono soddisfatti. Dopo che hai un panino in una mano e una coperta nell’altra? Dopo due anni di studi, test, sopralluoghi, confronti con la popolazione del campo, incontri con organizzazioni non governative, enti pubblici e privati, ho capito che c’era bisogno di un posto dove stare nella collettività”.
A cinque mesi dalla realizzazione, la Maidan tent, 200 metri quadrati e una capienza di 100 persone, segue un programma di attività mirate alla condivisione e alla socializzazione: dalla proiezione di film alle feste di compleanno, dai mondiali in tv alla celebrazione della fine del Ramadan. E, a breve, ospiterà un mercato ortofrutticolo. “Può essere contemporaneamente uno spazio dove ricevere cure mediche e psicologiche, un campo giochi per i bambini, un luogo di raccolta dove poter mangiare insieme, acquistare e vendere beni, imparare e insegnare, pregare, interagire, confrontarsi, scambiare idee”, continua l’architetto umanitario. “Il nostro obiettivo principale è far capire e sensibilizzare chi vive in Europa su una questione politica che riguarda tutti ed è legata all’aspetto della collettività”.
Il tendone Maidan, a forma circolare e con una struttura a otto spicchi – ognuno dei quali prevede due aree concentriche – assolve sia il compito di sviluppare la privacy sia un ruolo sociale e partecipativo di piazza che, adesso, nell’era ella globalizzazione, sta scomparendo”.
Su questo punto si sviluppa la collaborazione con l’Università Bocconi, che si occupa di analizzare e valutare scientificamente l’impatto di questo nuovo luogo pubblico sulla vita dei residenti del campo.
Un diametro di 16 metri, alluminio e acciaio per la struttura rigida, un tessuto per la copertura resistente all’acqua, al vento e al fuoco. Il prototipo, che è stato inserito dall’OIM all’interno del piano di sviluppo ufficiale del campo profughi, è rapido da montare e smontare, trasportabile, durevole, di facile manutenzione grazie alle componenti standardizzate e certificate.
“Abbiamo avuto bisogno di molte approvazioni. Quindi abbiamo disegnato, aggiustato il tiro, aspettato il nullaosta sulle questioni legate alla sicurezza”, continua Bonaventura. “È stato via via ottimizzato. Rispetto al progetto originale, per esempio, è stato sovradimensionato. Quando abbiamo preparato il progetto dovevamo parlare con il capo missione Onu. Tutto doveva essere impeccabile, a norma, pronto ad affrontare ogni emergenza. In questo forse abbiamo esagerato per eccesso e realizzato un oggetto troppo muscoloso”. Maidan tiene 110 km di vento, quando, invece, ne basterebbero 90.
“È diventato proprio quello che speravamo diventasse, il ‘ci vediamo lì’ tipico della piazza. Ma sai qual è la cosa più bella?”, lo sguardo si amplia: “Intercettare le reazioni dei bambini, degli operai, delle ong”.
C’è stato un lungo lavoro di community engagement e di ascolto con il coinvolgimento della popolazione – e l’aiuto di uno psicologo – e la distribuzione di volantini in arabo. “Se all’inizio avevano risposto solo in 10, alla fine erano in 120. Abbiamo raccolto le loro richieste: dagli oggetti di uso comune, come phon e medicine, a necessità legate all’abitare. Prima della realizzazione del progetto, ho osservato quali fossero davvero le necessità. I ‘cittadini’ avevano creato una tettoia comune dove ritrovarsi: una grossa tenda tagliata inutilizzata. Non c’era aria, né luce e nemmeno una separazione al suo interno. Quel tipo di struttura era pensata come un deposito, non per l’essere umano. Per contrasto, la nostra è piena di luce e aria, nasce separata”.
Differenze di genere nelle esigenze: gli uomini volevano un posto dove fumare la shisha e bere the, la possibilità di giocare a carte, uno spazio commerciale dove vendere le sigarette e giocare a ping pong. Nell’altra metà della tenda, le donne richiedevano che la Maidan fosse divisa in due, con ambienti chiusi, porte, aree per giocare con i bambini o tagliarsi i capelli, recuperare e riappropriarsi anche di quelle azioni in grado di esprimere la loro femminilità. Condizioni al limite, nessuna privacy, sporcizia: per le donne la situazione è particolarmente difficile. Oggi in Europa, secondo l’Eurostat, su quasi 1,3 milioni di richiedenti asilo, il 32% – 415.000 – è costituito da donne. L’ambizione dei campi più virtuosi è spesso ricreare ginecei autogestiti per tornare, prima di tutto, a soddisfare le esigenze legate alla femminilità. In alcuni accampamenti a nord della Grecia, anche grazie all’aiuto di volontari e associazioni, è possibile trovare hammam per neonati, luoghi per rieducare all’allattamento, spazi dove organizzare corsi di educazione sessuale, distribuire biancheria intima o imparare a usare un tampax. “Purtroppo non è stato possibile realizzare due tende, perché non c’era più superficie disponibile. Ma l’idea resta”, prosegue Bonaventura. “In questo l’architettura può adempiere a un grande obiettivo politico: migliorare davvero la vita delle persone, influenzarne le abitudini e condizionare ciò che quel cittadino un giorno farà”.
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