All’Arsenale si trova una strana macchina che produce pellicole di sapone. Si tratta del risultato perfezionato di un workshop collaborativo diretto da Riccardo Blumer, a capo dell’Accademia di Architettura di Mendrisio dal 2017, insieme agli studenti di architettura e con il supporto della fondazione americana MADWORKSHOP. Le installazioni, presentate nella sezione “The Practice of Teaching” della Biennale, esplorano come gli algoritmi possano generare nuove forme di architettura dinamica, e sono il punto di partenza per un excursus sull’architettura, il gioco e l’industria 4.0.
Sette architetture automatiche e altri esercizi
Il direttore dell’Accademia di Architettura di Mendrisio ci racconta il progetto presentato alla Biennale di Venezia sul rapporto tra algoritmi e architettura, gioco e tecnologia.
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- Marianna Guernieri
- 01 agosto 2018
- Venezia
Come nasce il concept?
“Sette architetture automatiche” nasce dalla voglia di sperimentare, come ogni volta, qualcosa che non sapevamo fare: architetture che si muovono. Grazie all’intelligenza artificiale volevamo lavorare su un oggetto fisico il cui tempo fosse determinato dalla macchina. Quest’ultima mette in scena un muro fatto di un liquido saponoso, come una grande bolla piana. Wall è costituito da 10 pannelli da un 1 x 2 metri che hanno un tempo limitato: dopo un po’ esplodono, ma la macchina li replica finché a un certo punto riuscirà a creare un grande muro. Questo è stato il concept degli studenti e noi li abbiamo aiutati a realizzarlo.
Space, invece, è dello studente greco Georgios Voutsis che ha dato a dei prismi la possibilità di muoversi con dei motori indipendenti, ricreando delle scale. Questa macchina potrà comporre scale sempre diverse per 250 anni. L’idea è di un’architettura che quasi non si riesce a controllare: non è intelligente però è talmente ampia la possibilità e la variabilità delle forme, che sembra che decida lei. Questo è il tema dell’intelligenza artificiale. La macchina non decide dove andare, ma controlla le regole del viaggio.
Qual è l’importanza di questa architettura mobile?
L’importanza è di usare la scuola per fare approfondimenti di conoscenza. Cosa che nel lavoro è sempre più difficile fare perché si è complicato tantissimo. Usiamo la scuola come un luogo di conoscenza più che di sperimentazione, dove si fanno delle cose vere. Questa è la scuola che immagino io e che da anni faccio. In questo caso, lei vede la pellicola di sapone perché è la pellicola di sapone a fermare la luce, non il contrario. Una buona architettura è l’architettura che mette in scena la luce, anche se con una pellicola di sapone. Crea una fisicità reale, non simbolica, di qualcosa dove si è al di qua o al di là. Questa è una delle grandi premesse dell’architettura: il tema del limite che pone una condizione necessaria all’architettura. In questo modo si introducono modalità che aiutano anche a rovesciare alcuni concetti. Dal mio punto di vista libertà è saper porre dei limiti: quando costruisco un muro, non è la paura del muro di oggi che divide le popolazioni, ma è il muro che mi permette di far storia di me, un luogo in cui scelgo di stare, cioè la casa. Questo ci aiuta anche a pulire dei pensieri di fondo sui grandi temi dell’architettura.
Video by PLANE–SITE, 2018
Com’è lavorare con gli studenti (di oggi) su questi temi?
Lo studente di oggi spesso insegue degli stereotipi, che sono l’architetto professionista, il costruire… in un mondo che, in realtà, si sta ribaltando completamente. È difficile scardinarlo da questa posizione e fargli capire che questi esercizi gli produrranno una capacità di riflessione su ciò che fanno, aiutandolo a diventare un protagonista vero e, forse, un domani anche professionista interessante. Questo discorso si può ricondurre alla grande confusione tra professione e scuola. La scuola universitaria – ma anche quella liceale e quella elementare – deve essere una scuola di formazione di cultura. Sono luoghi dove tu come civiltà produci il progetto della tua civiltà. Si pensa sempre che la scuola debba avere una relazione diretta con il lavoro: è vero, ma il lavoro è una forma di cultura, e bisogna sempre riporre una gerarchia etica dei valori, accompagnata a una grande disciplina di lavoro tecnico. Bisogna rimettere in gioco i parametri in questo senso, almeno, io sto facendo questo lavoro e sono contento perché vedo che le cose si muovono. Noi siamo qui grazie a una fondazione americana di Los Angeles che per caso ci ha visti attraverso il FAI, a Villa Panza di Varese e il nostro lavoro a Mendrisio. Ci ha sponsorizzato e dato la possibilità di portare qui questa macchina. È come se noi fossimo il far west adesso: dall’America vengono da noi e ci finanziano. È buffa come cosa ma molto interessante.
Il gioco ti fa essere come uomo. Ti fa crescere come bambino e ti porta in una dimensione ludica, come la musica, dove tu trovi quel valore che va oltre il tema ingombrante della sopravvivenza.
Quando conta la componente ludica?
È importante, fondamentale. Il gioco è una delle tecniche più complesse che l’uomo inventa. Il gioco delle carte, ad esempio, è complessissimo. C’è chi lo paragona al grande tema del computing che si fa nell’elettronica. Il gioco è composto da tecniche precise, ma ha la capacità di far scomparire la complessità tecnica e far emergere solo il valore ludico. È un po’ come il clown, che usa delle tecniche precisissime. Io adoro tutto quel mondo, come la danza, dove ti sembra che facciano dei movimenti in grande libertà, ma c’è una disciplina di lavoro incredibile. A me piace molto Carlo Sini, il filosofo italiano che racconta sempre che non siamo noi che facciamo le cose, ma sono le cose che ci fanno essere. Il gioco ti fa essere come uomo. Ti fa crescere come bambino e ti porta in una dimensione ludica, come la musica, dove tu trovi quel valore che va oltre il tema ingombrante della sopravvivenza. Quindi è bello che queste macchine siano ludiche, però le garantisco che hanno dietro una complessità incredibile. Però la globalizzazione ci permette di comprare componenti in Cina, di seguire dei tutorial su YouTube, di chiamare un maker e creare una struttura a dei costi accessibili, da scuola.
Qui in Biennale sono poche le installazioni complesse da un punto di vista interattivo e tecnologico.
È vero, ma la Biennale dura sei mesi, e devo dirle che questo un po’ ci preoccupa (ridendo). Noi questa macchina l’avevamo già a Mendrisio. Per portarla qui l’abbiamo riprogettata completamente tenendo solo la struttura e cambiando la motoristica, il controllo della direzione delle barre, i timer, i sensori eccetera. Quindi, secondo la nostra previsione, dovrebbe durare. È il tema dell’industria 4.0, che è pazzesca, noi al confronto siamo all’asilo, e l’architettura secondo noi deve imparare cos’è, questo mondo. È inutile capitarci dentro e stupirsi. Dobbiamo fare esperienza di questi nuovi mondi, è un modo di conoscere, come dicevamo prima.
In apertura: Riccardo Blumer, Sette architetture automatiche, Wall, Biennale di Venezia 2018. Foto Alberto Canepa
- Sette architetture automatiche e altri esercizi
- Riccardo Blumer
- Accademia di Architettura di Mendrisio
- Lorela Arapi, Andrea Cappellaro, Stefano Clerici, Georgios Voutsis, Silvia Cippelletti (video), Massimiliano Marconi (video)
- Tommaso Alessandrini, Matteo Borghi, Claudia Broggi, Ettore Contro, Simone Majocchi, Francesco Tencalla (coordinatore in loco)
- 16. Mostra Internazionale di Architettura
- Arsenale, Biennale di Venezia
- Campiello Tana, 2169/F, Venezia
- 26 maggio – 25 novembre 2018
- PLANE–SITE