Marina Otero Verzier, Chief Curator della Oslo Architecture Triennale 2016 insieme all’After Belonging Agency, attualmente direttrice del Dipartimento di Ricerca dell’Het Nieuwe Instituut di Rotterdam, ha curato il Padiglione dell’Olanda alla Biennale di Architettura 2018 a Venezia. Il progetto, intitolato “Work, Body, Leisure”, ha messo insieme voci poliedriche e ha dato un contributo importante alla riflessione sulle responsabilità dell’architettura nei confronti delle nuove tecnologie di automazione del lavoro (e non solo). Ne abbiamo parlato con lei.
Marina Otero Verzier. Una call for action alla Biennale di Venezia
Intervista alla curatrice di “Work, Body, Leisure”. Il Padiglione Olanda alla Biennale di Architettura di Venezia 2018 indaga le responsabilità dell’architettura a proposito delle nuove condizioni di lavoro.
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- Annalisa Rosso
- 02 agosto 2018
- Venezia
Hai definito l’Olanda un “terreno di prova dove il futuro del lavoro è stato e continua a essere reimmaginato”. Partendo da questa affermazione di base che cosa pensi delle prospettive del lavoro a venire?
In tutta l’Olanda oggi è in corso di applicazione un’architettura della completa automazione, da Rotterdam, il principale porto del paese, fino alle zone agricole. Queste trasformazioni incidono sulla logica e sui rapporti che definiscono il paesaggio fisico e sociale del lavoro e della sua organizzazione, nonché il suo futuro. Il cartesiano paesaggio produttivo olandese, progettato in funzione di un’efficienza senza precedenti, preannuncia l’imminente mondo del post-lavoro e svela la tecnologia e l’architettura che dovrebbero renderlo possibile. È lo specchio dei nostri sogni e dei nostri timori a proposito di quel che deve ancora avvenire. Per esempio l’infrastruttura logistica del nuovo terminal container APM Maasvlakte II del porto di Rotterdam – interamente automatizzata, dove veicoli senza conducente, gru automatiche e interfacce di ogni genere facilitano la gestione dei container con un’efficienza e una produttività senza precedenti – ha fatto nascere scioperi dei lavoratori portuali e progetti di edilizia urbana. Gli operatori delle tradizionali gru del porto sono stati sostituiti da impiegati che se ne stanno seduti nelle sale controllo dove si svolge la supervisione delle operazioni 24 ore su 24 per sette giorni la settimana. Gli uffici del terminal container sono una superficie libera fatta di postazioni adattabili, sale di riunione e armadietti, delimitata da una varietà di barricate di calcestruzzo, reti metalliche e telecamere a circuito chiuso che impediscono l’accesso non autorizzato.
Dentro le serre che occupano e racchiudono ampie porzioni del paese la produttività del terreno viene controllata e migliorata da tecnologie automatizzate. In questi interni dalla bellezza sublime fiori e frutti crescono assistiti dal controllo climatico, dalla luce artificiale e da sistemi di distribuzione dell’acqua e dei nutrienti. Non sono soggetti ai vincoli delle condizioni esterne, dei dintorni immediati, e presto nemmeno da quelli del lavoro umano. Nei campi i produttori di latte controllano un numero sempre crescente di operazioni automatiche attraverso quadri di comando su personal computer oppure app per lo smartphone. Mucche e lavoratori temporanei diventano dati e il loro corpo viene gestito come il componente astratto di un sistema più vasto, accessibile grazie a una registrazione sul cloud. “Work, Body, Leisure” è un viaggio attraverso queste e altre architetture, in Olanda e oltre: uffici, campi di gioco, fattorie, fabbriche e spazi virtuali, finestre, letti e porte. Scenari concepiti, tra gli altri, da Amal Alhaag, Beatriz Colomina, Marten Marten Kuijpers, e da Victor Muñoz Sanz, Simone Niquille, Mark Wigley e Liam Young. Scenari che hanno un aspetto familiare – anche se difficilmente accessibili o di apparenza banale – ma che si trovano comunque nell’epicentro della trasformazione del lavoro. Il progetto attualmente presentato alla Biennale di Venezia è anche un appello all’impegno. Nonostante l’attuale trasformazione dell’ambiente costruito e dei corpi che lo abitano a causa dei processi di automazione, la sfera della ricerca e dell’innovazione è ancora in grande misura priva di una prospettiva spaziale critica. Il nostro obiettivo è l’apertura di un dibattito su questo futuro prossimo e sui regimi tecnologici che lo rendono possibile, e in definitiva l’analisi delle forze in gioco, per assecondarle oppure per contrapporvisi.
Come vedi il ruolo di un’istituzione come il Nieuwe Instituut nel cambiamento delle condizioni reali della vita, in particolare per i lavoratori?
Si tratta indubbiamente dell’obiettivo principale di questo progetto a lungo termine. Come istituzione statale siamo in posizione privilegiata e abbiamo la responsabilità di proporre dialoghi culturali nonché progetti di architettura e di urbanistica in grado di approdare a un’azione politica e a trasformazioni istituzionali specifiche. La ricerca che presentiamo a Venezia avrà grandi sviluppi, sia al Nieuwe Instituut sia al di là di esso, con iniziative che stanno prendendo forma ora alla Technische Universiteit di Delft, in un dialogo con il responsabile del dipartimento statale per l’architettura e in collaborazione con altre istituzioni pubbliche e private.
Uno dei frutti di “Work, Body, Leisure” è il nostro recente lancio di un bando di collaborazione con il Nieuwe Instituut sul tema Burn-Out, “Esaurito”. Con questo bando vogliamo affrontare da un lato l’aumento dei corpi che, sottoposti a una pressione continua, a richieste schiaccianti e incitamenti quotidiani all’impegno personale, sono esausti. E, dall’altro lato, vogliamo analizzare come questo malessere sia solo uno dei sintomi della persistente presenza di strutture di sfruttamento su una scala che va dall’individuale alle più ampie ecologie sociali, istituzionali e biologiche.
“Esaurito” vuol dire fermarsi, diventare inusabile in altri modi. E tuttavia “esaurito” è un’occasione di apertura dirompente, che favorisce l’azione e catalizza il cambiamento verso nuove strutture e nuovi rapporti. Ci interessano progetti che abbiano lo scopo di dare nuova forma a strutture preesistenti come spazi per il benessere pubblico e privato, e che si contrappongano all’inevitabilità di questo rapporti di sfruttamento. Abbiamo anche invitato i candidati a presentare progetti che incidano sulle attività correnti del Nieuwe Instituut: in particolare sul suo Dipartimento di ricerca, che si impegna ad adottare e mettere in pratica queste idee e questi paradigmi nelle sue attività quotidiane. Il che può implicare forme di impegno e strategie di collaborazione interna ed esterna che non dipendano da tecnologie o forme economiche di sfruttamento, di estrazione e di discriminazione.
Abbiamo cercato di mettere in discussione il nazionalismo metodologico connesso con l’idea di un padiglione chiuso, in questo momento in cui si assiste all’ascesa dei movimenti ultranazionalisti.
Con questo bando avete selezionato contributi di architetti, artisti, designer, storici, musicisti e teorici. Di che cosa andavate in cerca?
Il progetto è uno tentativo di collaborazione da parte di una rete internazionale di istituzioni architetti, artisti, designer, storici, musicisti e teorici selezionati dal gruppo dei curatori attraverso un certo numero di bandi pubblici. I partecipanti appartengono a generazioni, geografie, origini e settori d’attività differenti, e tuttavia condividono l’interesse per il progetto e per la riflessione sui processi e sulle conseguenze della robotizzazione, e in particolare sulle possibilità e sulle implicazioni di un’architettura e di una società libere dalla costrizione del lavoro.
Fin dall’inizio del progetto abbiamo cercato di mettere in discussione il nazionalismo metodologico connesso con l’idea di un padiglione chiuso, cosa che consideriamo particolarmente importante in questo momento in cui si assiste all’ascesa dei movimenti ultranazionalisti. Per questo motivo abbiano concepito delle strategie tramite le quali il padiglione possa ampliare i suoi limiti e i suoi significati, fungendo da spazio di sperimentazione, produzione e scambio di conoscenza, oltre che di forme di solidarietà e di rappresentanza al di là dei confini nazionali. E al di là delle competenze professionali e dei settori disciplinari.
Di conseguenza abbiamo varato una serie di bandi pubblici e di collaborazioni con varie istituzioni e con altri padiglioni nazionali, abbiamo realizzato un libro, composto una colonna sonora che celebra “chi lavora duro”, abbiamo organizzato manifestazioni pubbliche, una serie di podcast e abbiamo lanciato un ampio programma di attività e di interventi in città come Amsterdam, Londra, Rotterdam e Venezia.
Quali sono le reazioni più positive che avete riscontrato?
Abbiamo avuto reazioni decisamente entusiaste e positive da parte dei visitatori. Probabilmente la risposta migliore sta nel constatare che in un contesto come quello della Biennale, dove l’arco dell’attenzione è così limitato, le persone passano davvero parecchio tempo nel padiglione, si interessano e si incuriosiscono delle sue molteplici stratificazioni e interagiscono tra loro.
Sono stata colpita anche da altre risposte. Essere curatori del padiglione dell’Olanda alla Biennale Architettura di Venezia è una grande responsabilità, soprattutto perché, nonostante io viva e lavori in Olanda, non ci sono nata. Sono nata in Spagna. In questo contesto l’occasione di rappresentare il paese in quello che è probabilmente l’evento internazionale più importante del settore dell’architettura ha un’importanza particolare, e un significato culturale e politico. La situazione non è passata inosservata. Non voglio nascondere che all’inizio abbiamo dovuto affrontare alcuni problemi e alcune questioni. È il motivo per cui sono particolarmente contenta di vedere i risultati finali e di vedere come il lavoro presentato da questo gruppo, che comprendeva cittadini olandesi, richiedenti asilo naturalizzati, lavoratori immigrati che vivono in Olanda e professionisti di altri paesi, sia stato per tutte queste persone motivo d’orgoglio. E come, nel crescere della xenofobia in luoghi come gli Stati Uniti e l’Europa, il progetto contribuisca a riaffermare la qualità dell’Olanda come luogo di accoglienza e di diversità.
“Work, Body, Leisure” è anche un libro che “intende far crescere nuove forme di creatività e di responsabilità nel campo dell’architettura, in risposta all’affermarsi delle tecnologie dell’automazione”. Parlaci del libro.
Il libro “Work, Body, Leisure” è uno dei luoghi del padiglione dell’Olanda di quest’anno alla 16a Mostra Internazionale d’Architettura della Biennale di Venezia, ed è importante quanto i Giardini. Permette di affrontare il tema in maniera differente, e anche con altre forme di diffusione, essendo disponibile anche a chi non può visitare la Biennale a Venezia. Per questo, accanto alla pubblicazione a stampa, la maggior parte dei saggi è accessibile online sul sito web del Nieuwe Instituut.
Oltre a casi di studio storici e attuali di paesaggi automatizzati olandesi il libro analizza disposizioni e protocolli spaziali modellati sull’interazione tra essere umano e macchina. È una riflessione sulle strutture urbane in cui il lavoro automatizzato e il tempo libero convergono, tratta dei modi in cui certi concetti evolutivi di lavoro hanno classificato e definito il corpo in certi momenti temporali, e mette in discussione le infrastrutture legali, culturali e tecniche che ne permettono lo sfruttamento.
Abbiamo chiesto a molti autori, tra cui Amal Alhaag, Maria Shéhérazade Giudici, Beatriz Colomina, Silvia Federici, Ayesha Hameed, Femke Herregraven, Egbert Alejandro Martina, Simone C. Niquille, Ekim Tan, Nathalie de Vries, Annemarie de Wildt e Marina van Zuylen, di riflettere su una gamma di spazi e di punti di vista teorici che vanno dal lavoro domestico e dalle forme di sopravvivenza della schiavitù all’economia dell’attenzione e alla noia. Queste prospettive, noi speriamo, si potrebbero sviluppare in una nuova configurazione delle condizioni di vita e delle strutture del lavoro contemporanee e future. Architetti, artisti e designer hanno un ruolo da svolgere nell’immaginare sistemi fondati su un insieme di principi etici diverso, cioè non dipendente dallo sfruttamento di ogni corpo.
Immagine di apertura: The Door of No Return, Gorée Island, Senegal, 2004. Foto: Lela Jefferson Fagan.
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