Una luce bianca avvolge le opere di Cathy Wilkes all’interno del padiglione della Gran Bretagna. Si tratta di una luce studiata che nonostante la rarefatta disposizione di oggetti riempie paradossalmente gli spazi sottolineandone il senso di vuoto e creando un’atmosfera quasi spirituale. Non vengono fornite indicazioni interpretative dall’artista perché ogni visitatore è in grado di dare la propria lettura. Scrive infatti la curatrice Zoé Whitley nel catalogo: “La mostra del 2019 è offerta senza titolo e senza interpretazione. Wilkes fa appello al nostro coraggio di respingere la nozione che la conoscenza sia sempre qualcosa che possiamo possedere; siamo tutti non iniziati, tutti abbiamo pari capacità.”
Così non ci sono appigli e non ci si può appellare neppure ai titoli delle opere (tutte volutamente senza titolo), l’unica cosa che è dato sapere è che nella prima sala si incontra la rappresentazione di una tomba sepolcrale, verso la quale si dirigono gli umanoidi messi in scena dall’artista. Potrà accadere di sentirsi persi e di trovarsi in balia dell’ignoto, ma non resta altro da fare se non osservare e ascoltarsi, senza la necessità di cercare il conforto di una spiegazione preconfezionata o dettata dallo stesso artista, a cui siamo sempre più avvezzi.
Certamente il tema predominante è quello della coesistenza tra morte e vita, o forse, per dirla con Freud, tra Eros e Thanatos, dove, se la morte si manifesta nel monumento funebre, la pulsione di vita sembra materializzarsi nei pancioni di cemento che gravano sui manichini e che ritroviamo anche nella stanza accanto.
Il clima di trascendenza si propaga per tutto il padiglione attraverso la luce e il bianco che congelano e sospendono accompagnando il racconto del trapasso di qualcuno che (come scrisse Sant’Agostino) sembra dire: “Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?”. Si apre allora, avvolta in questo ambiente quasi mistico, la sfera del ricordo, che resta appiccicato addosso come la fotografia che da appesa a una parete si moltiplica sul manichino-essere umano dall’abito verde della terza stanza, o ancora i gesti spezzati e fluttuanti nella dimensione della memoria, come due mani ormai immobili che raccolgono delle stoffe, oppure gli oggetti di un comunissimo interno domestico (piatti dipinti, piccoli quadri floreali o acetaboli di cristallo) che isolati, come nella nuvola di una reminiscenza, effondono il sapore malinconico della nostalgia.