Cantanti con le facce bistrate in un proscenio d’argento circolare, lunghe parrucche colorate appese a treppiedi di fotografi, icone dell’immaginario sessuale afro-chic che sciamano fra drappi rossi, quinte teatrali, video psichedelici e bottiglie d’aperitivo in scatole di plastica. Potremmo essere a una qualsiasi festa di carnevale di una qualunque periferia di città africana. Invece siamo all’opening della Biennale di Venezia 2023. “Il laboratorio del futuro” che pare una visione possibile ma distopica di quello che ci attende. Una profezia dove sembra esserci tutto, o quasi tutto, ma che non risponde a una domanda: E l’architettura? In realtà la curatrice, Lesley Lokko, figlia di un chirurgo ghanese e di un’artista scozzese, interessante mix di architetta, teorica del postcoloniale e scrittrice di best seller globali, l’aveva anticipato. “C’è una coincidenza tra il carnevale di Venezia e la diaspora africana: il carnevale è un momento di liberazione in cui gli schiavi potevano, per una settimana, essere liberi. Per questo, comunicatori e altri attori organizzeranno eventi pubblici, che sono una forma per colmare la distanza tra architettura e pubblico”.
Il futuro? È nella metamorfosi dell’architettura (africana)
Riflessione sulla XVIII Biennale. E perché genererà interpretazioni contrastanti.
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- Walter Mariotti
- 23 maggio 2023
Soprattutto, Lokko aveva detto, a Domus, che “architettura significa almeno due cose. La pratica, che riguarda gli architetti ed è una professione rischiosissima in un mondo sempre più complesso. E la conversazione sociale, alta, colta, che nel Nord del mondo va “decolonizzata”. Ebbene, passeggiando per l’Arsenale e le Corderie l’impressione è che la decolonizzazione non sia garantita. Sostituire il mondo bianco, patriarcale, inquinante e sessista con uno nero, matriarcale, sostenibile e fluido potrebbe non essere la chiave per risolvere le tragiche aporie del nostro tempo. Anche perché, ammesso che dopo l’illuminismo, la Rivoluzione industriale e la società dei consumi l’architettura sia divenuta l’istituzione totale al servizio del colonialismo, come essere certi che l’apocalisse ecologica venga disinnescata dalla generazione africana, che nel suo paese sta riproducendo lo stesso film? E questa, forse, l’omissione più vistosa della Biennale 2023, che dimentica quasi del tutto i giganteschi progetti che altre nazioni, e in particolare la Cina, stanno realizzando proprio in Africa.
Allora la domanda è: perché una Biennale che vuole decolonizzare l’architettura e si concentra sulla diaspora africana non racconta i 15 parlamenti nazionali, le ferrovie da miliardi di dollari, le infinite autostrade e le intere città che nel continente nero stanno venendo fuori dal nulla? Perché durante la conferenza stampa preferisce concentrarsi sui permessi negati dall’Ambasciata Italiana ai collaboratori di Lokko, tema goloso per la superficialità dei social e della media ponderata dei quotidiani italiani, ma non pone domande sull’architettura della nuova realtà africana, sempre più prigioniera delle implicazioni geopolitiche della “debt-trap diplomacy”?
La risposta pare essere il potere del canto tribale, la forza del suono e della narrazione orale contro la diafanizzazione del presente. Un assunto che conferisce allure poetico a molte scelte forti di Lesley Lokko, fra tutte il film documentario Black Artist Retreat: Reflections on 10 Years of Covening di Theaster Gates Studio e l’esperienza di The African Post Office di Sumayya Vally e Moad Musbahi. Non abbastanza forti, però, da risolvere equazioni ancora una volta politiche, come l’allestimento di Andrés Jacque che afferma l’equivalenza fra l’estrazione di cromite, usata per esempio nella facciata dell’Hudson Yards, e segregazione razziale.
Al termine di due giorni intensi in uno stranissimo maggio, The Laboratory of the future appare come un potente e suggestivo statement in (larghissima) parte dominato delle pratiche della creatività africana. Un’affermazione molto identitaria e poco geopolitica, altamente intellettuale e abilissima a travalicare confini disciplinari, creando così un’evocazione ignota a larga parte del pubblico. Un grand guignol scandito da 89 partecipazioni internazionali dove si celebra la scomparsa dell’architettura come relazione fra tempo, spazio e individui per il suo nuovo statuto: momento di un processo, funzione di raccordo fra designer, practitioner, sociologi e naturalmente artisti sonori che restano l’essenza stessa di una Biennale dove il silenzio della porta sbarrata del Padiglione russo lascia sgomenti.
Immagine di apertura: Adjaye Associates. Kwaeε. 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future. Photo by Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia