Articolo da Domus 1081, in edicola a luglio 2023.
Biennale Venezia 2023: indignazione senza architettura
Il programma ambizioso di Lesley Lokko porta a Venezia i temi caldi del momento, ma è carente di approcci propositivi. Una mancanza che fa riflettere sul senso della Biennale e sul ruolo dell’architettura.
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- Vittorio Magnago Lampugnani
- 12 giugno 2023
Le ambiziose dichiarazioni di intenti di Lesley Lokko rispetto alla sua 18. Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, The Laboratory of the Future, mi hanno incuriosito sin dall’inizio: la sua volontà di affrontare temi scottanti e intrecciati come il cambiamento climatico, l’inquinamento ambientale, l’eredità del colonialismo, la migrazione coatta nonché l’ingiustizia sociale; la sua determinazione a coinvolgere fortemente la cultura africana, sinora rimasta a margine del dibattito internazionale; la sua scelta di sostituire, per i partecipanti, la qualifica di architetti o urbanisti o paesaggisti o ingegneri con quella di practitioner, di professionisti. Le aree di indagine dei suoi quattro progetti speciali – paesaggio, genere, memoria e futuro –, sono affascinanti, anche se un po’ nebulose. Il tema della memoria, per esempio, pervade quasi tutti i contributi: riesuma episodi sepolti e recupera frammenti di storia esiliati, spazia dai ricordi crudeli e vergognosi dello schiavismo al sapere dei pastori, dei contadini e dei costruttori tradizionali, maestri di tecniche e strategie mirate a usare le risorse della Terra con parsimonia rispettosa. In effetti, la mostra a Venezia è decisamente e, credo, opportunamente incentrata sul saccheggio del nostro pianeta e la conseguente catastrofe ecologica che ci minaccia, mostrandone spietatamente le sinistre implicazioni politiche, sociali ed economiche.
Le installazioni del Padiglione centrale, ma ancora di più quelle delle Corderie dell’arsenale, risucchiano la visitatrice e il visitatore in molteplici mondi di immagini, suoni, oggetti e testi che invitano, anzi, che costringono a immedesimarsi in realtà spesso atroci e a riflettere sulla loro violenza. Impossibile non rimanere scossi dalla loro forza concettuale e visiva, ma anche sconcertati dalla scarsità di approcci propositivi. I progetti rimangono diagnosi o denuncia. Spiragli di speranza sono rari: tra questi l’ipotesi Nebelivka, una città di 6.000 anni fa i cui resti archeologici sono stati scoperti in un’area particolarmente fertile dell’Ucraina e suggeriscono la memoria di una società egalitaria e pacifica che avrebbe addirittura lavorato con microorganismi e lombrichi per arricchire di sostanze nutrienti il suo territorio agricolo.
Che i contributi siano per la maggior parte di autrici e autori giovani, talvolta addirittura giovanissimi, è una caratteristica felice della mostra e un gesto generoso della curatrice. La generosità è contagiosa. Rende disposti a perdonare qualche ingenuità, qualche caduta di tono, qualche banalità e parecchio fumo concettuale e linguistico, tipo “L’architettura deve essere trans: transscalare, transspecista, transmediale, una transizione continua di tempi, spazi e materialità al fine di prefigurare un presente ‘più che umano’”. Rende anche disposti ad accettare la presenza preponderante di opere provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana, cosa che se da un lato consente uno sguardo su una realtà culturale, politica ed economica sottovalutata e emarginata, esclude bruscamente altre realtà, impoverisce il tema centrale della salvaguardia del pianeta e sbilancia una rassegna che si dichiara internazionale.
In effetti, la mostra a Venezia è decisamente e, credo, opportunamente incentrata sul saccheggio del nostro pianeta e la conseguente catastrofe ecologica che ci minaccia, mostrandone spietatamente le sinistre implicazioni politiche, sociali ed economiche.
Più difficile, invece, non rimanere sconcertati dal fatto che le risposte alle sfide, che siano ecologiche o sociali o, come quasi sempre, ambedue, non si concretizzino quasi mai in architetture. Qualche disegno e qualche modello in mostra si trova, ma meramente come presentazione di costruzioni appena contestualizzate e sostanzialmente esterne all’appassionante discorso generale. Invece di fungere da trait d’union tra questioni e spazi costruiti, reiterano il presenzialismo e l’esibizionismo autocelebrativo che ci hanno tanto infastidito nelle mostre precedenti. Il resto sono installazioni tendenzialmente artistiche, giochi di scritte e luci, oggetti-scultura, spazi virtuali e tanti, tantissimi, troppi video. L’architettura è praticamente assente. In una mostra di cui rappresenta l’oggetto, l’assenza diventa una dichiarazione molto forte. E pone la questione se l’apertura di Lesley Lokko, assolutamente deliberata, preluda a un arricchimento della disciplina o non, piuttosto, alla sua disintegrazione.
In genere, le mostre di architettura della Biennale hanno una struttura tematica relativamente chiara nelle loro parti principali, il Padiglione centrale e le Corderie, e vanno frammentandosi nei padiglioni nazionali, le cui curatele indipendenti sono tenute a contribuire soltanto blandamente al tema generale. Questa volta si assiste al contrario: alcune mostre nazionali declinano il tema della sostenibilità in modi diversi e stupefacentemente complementari. È il caso di quella della Turchia, che denuncia con onestà intellettuale la propria eccessiva attività edilizia, funzionale alla sua economia sfrenata e al suo regime politico, ed espone le modalità e le tecniche di riuso di edifici inutilizzati o apparentemente obsoleti.
I risultati dello sconfinamento sono interessanti, a volte sorprendenti. Quasi mai raggiungono, però, il livello delle discipline in cui scantonano. In altre parole: gli artisti veri sono più bravi, gli attivisti professionisti più efficaci.
Il padiglione del Belgio risponde con un esame puntuale di un materiale da costruzione sperimentale e squisitamente naturale, il micelio, l’apparato vegetativo dei funghi, di cui esplora sia le potenzialità tecniche sia quelle estetiche, celebrandole in un suggestivo spazio che riempie quasi tutto l’edificio espositivo. Il padiglione del Giappone ripercorre la storia del proprio progetto e della sua realizzazione, svelandone la delicatezza e complessità e suggerendo che per conservare un edificio bisogna conoscerlo profondamente e almeno un po’ amarlo. Il contributo della Slovenia, modesto e sobrio, offre una sorta di sintesi della sostenibilità edilizia, cercandone le soluzioni nella sapienza delle architetture vernacolari e mettendo bene in chiaro che per essere sostenibili non dobbiamo cambiare soltanto le nostre case, ma anche e soprattutto il nostro modo di viverle, le nostre abitudini e le nostre pretese.
Uscendo dalla mostra, arricchiti di stimoli e immagini, ma anche un po’ frastornati, non si può fare a meno di riflettere sul suo senso e la sua utilità. Questa mostra tutta costruita sui grandi temi del momento, piena di verbose dichiarazioni e praticamente senza progetti di architettura, rispecchia la situazione attuale della disciplina che ne è rimasta estromessa. Assillata dalle devastazioni di cui è complice o addirittura artefice, angosciata dalle catastrofi a cui ha inavvertitamente o sconsideratamente contribuito, l’architettura si è avventurata in altri campi, dall’arte all’attivismo politico. I risultati dello sconfinamento sono interessanti, a volte sorprendenti. Quasi mai raggiungono, però, il livello delle discipline in cui scantonano. In altre parole: gli artisti veri sono più bravi, gli attivisti professionisti più efficaci.
Un altro pensiero, più sgradevole, si insinua mentre attraversiamo i Giardini, passiamo di fronte all’Arsenale e ci incamminiamo lungo Riva degli Schiavoni. Mentre la folla multicolore, vociante e elegante, biasima lo schiavismo e la colonizzazione, critica l’emarginazione delle minoranze, deplora la devastazione delle Terra e si avvia verso San Marco, a pochi chilometri di distanza l’alluvione in Emilia Romagna, conseguenza dell’incuria per il territorio appenninico, uccide 15 persone e strappa via le case a più di 36.000. Sempre nello stesso tempo, le nostre colleghe e i nostri colleghi più disinvolti progettano e costruiscono un edificio dopo l’altro, quasi tutti senza scrupoli ecologici e sociali, e quasi tutti brutti; peraltro anche, e non marginalmente, in Africa. Forse un prossimo laboratorio del futuro potrebbe assumere un atteggiamento più umile e rinunciare alla presunzione di salvare il mondo. Scontenterebbe gli indignati di professione, ma contribuirebbe al compito più urgente e grave dell’architettura contemporanea: trovare il suo ruolo in una nuova possibile civiltà sostenibile.
Immagine di apertura: Pavilion of Turkey. Ghost Stories: Carrier Bag Theory of Architecture. 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future. Photo by: Marco Zorzanello. Courtesy: La Biennale di Venezia