Esiste una regola aurea per mantenere il quieto vivere nella società britannica: non mettere il naso nel back garden, il giardino sul retro delle case detached o semi-detached di Sua Maestà. Caotica rimessa d'attrezzi, lembo di terra selvaggia, casa per gli amati shed, talvolta curato, il giardino rappresenta l'intimità a porte chiuse di un popolo riservato.
Non sorprende, dunque, ma comunque stupisce, la scelta della Gran Bretagna di dedicarvici l'intero concept del suo padiglione.
“The Garden of Privatised Delights” (Il Giardino delle Delizie Privatizzate) – questo il nome del progetto espositivo il cui titolo si ispira al “Garden of Heartly Delights” di Hieronymus Bosch – si impone come uno dei pochi padiglioni veramente politici della Biennale, senza però perdere la leggerezza sorniona tipica dell'approccio alla vita dei britannici.
In una nazione con una forbice sociale sempre più preoccupante come messo in luce – tra le altre cose – dai London Riots del 2011 o dalla tragedia della Grenfell Tower del 2017, in cui l'edilizia civile si concentra da ormai mezzo secolo in verticale – tra council estate e gentrificazione spietata – la pandemia di Covid-19 ha fatto emergere un problema stringente: l'assenza di spazi comuni e condivisibili, siano essi pubblici o privati.
In un Regno Unito sempre più privatizzato (dinamica in crescente esportazione anche in Europa, si pensi a Aermont, per esempio) ed in mano a speculatori stranieri (Russi e Arabi su tutti), le curatrici del padiglione britannico Manijeh Verghese e Madeleine Kessler, co-fondatrici di Unscene Architecture, sembrano guardare al passato del welfare state Laburista post-bellico come fondamenta della Gran Bretagna del futuro.
Partendo da una riflessione sul pub come modello ideale di spazio pubblico privato – public house, per l’appunto – le due curatrici vogliono stimolare, attraverso sei ambienti, riflessioni su come il Regno Unito possa, e debba, aprirsi a una maggiore interazione tra il settore pubblico e quello privato in materia di spazi condivisi per le comunità locali.
Ritornano le lezioni dell’architetto e urbanista britannico Colin Ward, che a partire dagli anni ‘70 teorizzava – non senza piglio pragmatico – l'importanza della libertà e di un approccio anarchico all’urbanistica per migliorare il rapporto tra uomo e ambiente in una società post-industriale dominata da burocrazia e privatizzazione.
Il giardino diventa così spazio aperto all'azionariato popolare sul modello simile a quello delle cooperative agricole, dei birrifici indipendenti o a quello con cui diversi club calcistici stanno provando ad opporsi al sistema uber-capitalista della Premier League, la competizione sportiva più globalizzata al mondo.
Il padiglione è, inoltre, fortemente attuale nel mettere in luce come le dinamiche aggregative degli inglesi siano in piena mutazione. I tradizionali beer garden – i giardini rigorosamente appartati sul retro dei pub – sono stati traslati, per necessità economiche conseguente alla pandemia, sul fronte, contribuendo così a stabilire un modello di consumo dell'alcohol e del cibo continentale nella nazione che aveva sempre fatto virtù del suo isolazionismo.
“The Garden of Privatised Delights” sembra così proporre, come ripartenza post-Covid, la rinascita di un'utopia socialista con cui la Gran Bretagna avevo sperato di rinascere durante la ricostruzione.
Tra un passato remoto precedente agli Enclosure Acts del diciottesimo secolo, che abolivano un sistema agricolo basato sull’open field, e un presente dominato dalla privatizzazione, nel padiglione britannico analogie e ricorsi storici che hanno il pregio di non perdersi nella retorica.
È vincente la decisione di non esportare una visione edulcorata e stereotipata del Regno Unito fatta di Royal Family, chitarre con pattern della Union Jack e Peaky Blinders, ma il paese reale con le sue cicatrici, il multiculturalismo e l’incertezza delle sfide post-Brexit. Lo stesso tema del pub viene affrontato, attraverso fotografie storiche, dall’inedita prospettiva delle comunità Indiane e Pakistane, tradizionalmente meno legate a questo luogo di aggregazione.
Diventa così necessario trattare di politica, per staccarsi da un'astrazione teorica in cui troppo spesso scivolano i padiglioni di questa Biennale.
Le due curatrici ci mettono un ATM machine che eroga sentimenti, una critica pungente alla biometrica imperante ed all'asfissiante pratica della raccolta di dati personali e, ciliegina sulla torta, un intero pub con tanto di karaoke.
Forse l'intero progetto ha il retrogusto stucchevole di una forma mentis anni 2000 discepola dei graffiti di Banksy o dei sogni freak dei festival fangosi (un tratto comune, per ragioni anagrafiche, con diversi curatori che in altri padiglioni propongono, anche dal punto di vista grafico, soluzioni figlie di quegli anni e di una certa estetica no global).
Fatto sta che “The Garden of Privatised Delights” emerge come un padiglione militante che ci ricorda di come dietro le facciate ordinate delle case di un popolo apparentemente mite ci siano giardini ribelli. È ora di portarli sul fronte. God save the beer.
Immagine di apertura: "The Garden of Privatised Delights", un progetto di Manijeh Verghese e Madeleine Kessler per il padiglione della Gran Bretagna. Foto: Giulia Di Lenarda e Giorgio De Vecchi (Gerdastudio).