Architetto madrileno nato a Valladolid nel 1946, Campo Baeza si laurea nel 1971 in un contesto storico che risente della presenza ingombrante del dittatore Franco. Nonostante ciò, riesce fin dall’inizio ad assumere un’autonomia progettuale che si basa sulla ricerca di forme semplici, pure, che guardano alla storia dell’architettura come a un vocabolario in continuo mutamento e aggiornamento – anche grazie al suo stesso contributo.
L’estrema pulizia formale dei suoi progetti li fa essere rigorosi, sia nelle proporzioni volumetriche sia nei rapporti pieni/vuoti. Infatti, la chiusura degli edifici verso l’esterno determina una predilezione allo scavare la materia muraria per ricavare patii e corti interne che trovano un archetipo nel vernacolare Mediterraneo.
Se nelle prime opere, come il Municipio di Fene, in Spagna (1980) e gli asili a Onil e Aspe (1982) il riferimento sono le “cattedrali bianche” lecorbuseriane, dove emerge il tracciato regolatore sia in pianta che in alzato, nelle opere successive Campo Baeza assume una sempre maggiore autonomia linguistica. Autonomia ben rappresentata dalla Casa Gaspar (Cadice, 1992), a pianta quadrata, impostata sul concetto dell’hortus conclusus con le pareti esterne cieche e il patio circondato da pareti bianche che si fanno volumi in relazione con il quarto lato rappresentato dal cielo. Dunque il tema dell’edificio a corte, che non riguarda solo le case ma anche gli edifici pubblici, enfatizza l’introversione della architettura di Campo Baeza.
“Nel suo lavoro – scrive Alessandro Lanzetta in Opaco Mediterraneo, Libria, Melfi 2016 – il riferimento vernacolare viene sottoposto a un processo di sottrazione, figlio del ‘less is more’ di Mies, che lo trasforma in un linguaggio purista e astratto, in cui dominano il controllo della luce e della gravità, due elementi assoluti ed eterni”.