Emmanuel Petit, Irony; or, The Self-Critical Opacity of Postmodern Architecture, Yale Press 2013, 272 pp.
L’architettura “postmoderna” è oggetto di calunnie. Battezzata con mille nomi, da “architettura del travestitismo” a “vandalismo architettonico” il movimento intellettuale del Postmodernismo, comparso alla metà degli anni Cinquanta è decaduto a superficiale mania stilistica, comunemente nota come “PoMo” all’inizio degli anni Ottanta.
Ironia della modernità
Attraverso la lente dell’“ironia” Emmanuel Petit passa in rassegna l’opera di cinque architetti: Venturi e Scott Brown, Tigerman, Isozaki, Eisenman e Koolhaas. E si immerge oltre la superficie per svelare molti dei più interessanti progetti intellettuali della storia dell’architettura.
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- Matt Shaw
- 23 agosto 2013
Nel suo nuovo libro Irony Or, The Self Critical Opacity of Post-modern Architecture, l’architetto e docente Emmanuel Petit dà nuovo vigore a un progetto intellettuale che ha esercitato un influsso fondamentale sull’architettura dell’ultimo mezzo secolo. Attraverso la lente dell’“ironia” l’autore passa in rassegna l’opera di cinque architetti: Robert Venturi e Denise Scott Brown, Stanley Tigerman, Arata Isozaki, Peter Eisenman e Rem Koolhaas. Attraverso un’analisi fatta di rigorosa ricerca e di scrupolosa scrittura Petit si immerge ben oltre la superficie dell’architettura per svelare appieno molti dei più interessanti progetti intellettuali della storia dell’architettura.
Il libro di Petit riconquista le posizioni occupate dai numerosi superficiali detrattori del Postmoderno e restituisce ricchezza di contenuti all’architettura degli anni Sessanta, degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, dal punto di vista della storia e della disciplina dell’architettura, nonché da quello dei più vasti cambiamenti culturali che hanno avuto luogo in quegli anni. Ricorre agli strumenti della critica letteraria, della filosofia e della teoria dell’umorismo per svelare le molteplici forme in cui l’ironia si è espressa nell’architettura di quella generazione. L’obiettivo viene messo a fuoco con precisione e permette di leggere un’opera che Petit definisce dotata di “ironia” come un dispositivo (normalmente) serio. Il libro può essere, a volte, decisamente fitto di informazioni e contiene molti riferimenti che richiedono nozioni acquisite. È facile da leggere, se si pensa al tema, ed è incredibilmente prezioso per chi trova il tempo di scorrerne i riferimenti.
Ogni capitolo è percorso dall’“ironia” della problematica contraddizione insita nella condizione della modernità. L’architettura sta tra due realtà paradossali: le visioni assolute, utopiche e razionali del creativo (l’architetto) e la confusione, l’irrazionalità e il pluralismo del mondo reale. Il primo capitolo riguarda l’opera di Robert Venturi e Denise Scott Brown. Secondo Petit l’uso della storia nell’opera di Venturi non è revival storicistico ma gesto ironico, che contribuisce a concretizzarne il progetto sociale (il populismo) e le teorie sulla comunicazione in architettura. Rintracciando l’influsso dei New Critics su Venturi Petit descrive come Venturi leggesse edifici e città come “testi”, dotati di rapporti non solo tra le rispettive componenti, ma anche tra un testo e l’altro. È questo il fondamento su cui si è formato l’atteggiamento profondamente contestuale dei due architetti nei confronti del costruire. L’opera di Venturi si focalizza sulla “disordinata vitalità” dell’ambiente costruito, prendendo in seria considerazione ciò che il Modernismo aveva tentato di non affrontare. Fu questa sospensione del giudizio nei confronti dell’architettura a contraddistinguere il cambiamento più radicale rispetto al Modernismo e a introdurre nell’architettura un nuovo linguaggio, e quindi il più serio dei dilemmi ironici (in senso buono).
Stanley Tigerman assume un’analoga posizione ironica ma in senso più personale. Per Venturi il gioco dell’ironia sulla forma e sul significato mirava a creare collegamenti tra le classi sociali e le culture del gusto. Per Tigerman il ruolo individuale, soggettivo dell’artista si fa narrazione sullo sfondo di un Modernismo rigido e pseudo-oggettivo. Un fatto palese nell’architettura di Tigerman, intesa come rifiuto radicale e spesso metodologico, e come ribaltamento della ‘perfezione’ del Modernismo di Mies. La sua posizione rifletteva anche il suo temperamento personale, era priva dei vincoli di una prospettiva unitaria nel pensare l’architettura. Tigerman era forse anche il più esplicitamente filosofo: i suoi Architoons fanno aperto riferimento in ugual misura a filosofi e ad architetti. Inoltre Tigerman usa l’umorismo come gesto sovversivo nei confronti di ciò che considera la seriosità opprimente e dannosa del Modernismo. Per esempio una delle sue proposte è intitolata. “Ampliamento di un bagno come omaggio all’Inferno di Dante”.
Meno problematica di quella di Tigerman e di Venturi, la storia personale di Arata Isozaki ha intricati collegamenti con la sua formazione in Giappone durante la seconda guerra mondiale. Isozaki fu, agli inizi della carriera, legato ai Metabolisti, ma ruppe con il gruppo a causa di quello che considerava il suo ingenuo positivismo. Isozaki non aveva visto solo le conseguenze della storia sulla città, ma addirittura la sua distruzione durante la guerra. Un fatto che influì profondamente su Isozaki, e la sua opera è spesso molto cupa. L’ironia insita nella contemporanea presenza della storia e dell’ambizione del futuro è il fondamento di molte delle opere che Isozaki realizzò in quegli anni, specialmente di quelle che adottano l’allegoria del ‘rudere’. Si fondava anche sulla filosofia giapponese e sui suoi parallelismi con il pensiero occidentale. L’opera di Isozaki, come quella degli altri architetti in questione, era consapevole del dissidio disciplinare dell’architettura: un singolo autore che cerca di trasformare il mondo in un’immagine ideale e la realtà di un mondo che limita l’opera fisicamente e metaforicamente. Per Isozaki ciò si manifestava sotto forma di ruderi, cupezza e possibilità di collasso completo in qualunque momento, il che era fonte di ironia quando si contrapponeva nella sua opera con l’idea di costruzione ex novo.
Il quarto capitolo è il più debole e il meno convincente, non perché Petit metta meno tensione nella ricerca e nella scrittura, ma perché il tema qui non si adatta. Il libro inizia con la storicizzazione dell’opera di Peter Eisenman che, sotto la lente del tempo, appare di scarsa tenuta e oggi non sembra interessante quanto l’opera di altri architetti. A paragone dei primi progetti di Koolhaas e di Venturi e Scott Brown l’opera di Eisenman appare banale e datata, poiché sia Venturi sia Koolhaas cercarono di collegarsi a temi sociali esterni alla disciplina (le sperimentazioni di Eisenman sulla teoria del linguaggio non contano). La lezione più importante che si può trarre oggi da Eisenman è l’insipido contesto da cui è circondata l’opera dell’architetto. Il capitolo illustra anche, attraverso le opere che presenta e il testo che descrive e analizza le opere, come il progetto dell’autonomia abbia palesemente contribuito all’emarginazione dell’architettura dalla cultura esplicitamente intesa, da cui l’attuale crisi occupazionale.
Il capitolo finale analizza i primi lavori di Rem Koolhaas. In un dilemma analogo a quello degli altri architetti Koolhaas si concentrò sull’ironia tra l’ambizione modernista di creare un ambiente unitario e prescrittivo, in cui trovasse spazio l’utopia, e la realtà sociale del pubblico che circolava in questi mondi. Per Koolhaas c’era anche una frattura tra la retorica disciplinare – della scala, della rappresentazione e via dicendo – e il mondo esterno all’architettura (il contesto della metropoli). La consapevolezza del realismo del mondo quotidiano, le ambizioni collettive della popolazione cittadina e la lotta dell’architettura per adeguarvisi costituiscono l’aspetto ironico della posizione dell’architetto nei confronti della società. Koolhaas ammirava Cedric Price per il suo “pseudo anti-intellettualismo” e per la sua acuta consapevolezza del quotidiano, nonché per la sua critica di alcune delle più radicate tradizioni professionali. Qui sta l’essenza dell’“opacità autocritica dell’architettura postmoderna”. Secondo Petit il culmine dell’ironia di questo periodo della storia dell’architettura coincide con la lotta disciplinare interna per trovare una posizione e una propria identità di fronte a un mondo in radicale trasformazione: la postmodernità. Nell’insieme il libro costituisce una rassegna ottimamente scritta e attentamente costruita di uno dei periodi più ricchi della storia dell’architettura. Matt Shaw (@mockitecture)