Vittorio Gregotti, Il sublime al tempo del contemporaneo, Einaudi, 2013 (pp. 257 € 18,00)
Il sublime al tempo del contemporaneo
Il nuovo libro di Gregotti, uscito per Einaudi, riprende le parole chiave del suo trentennale discorso sull'architettura.
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- Emanuele Piccardo
- 19 luglio 2013
Gregotti riappare in libreria con il suo nuovo libro "Il sublime al tempo del contemporaneo" edito da Einaudi. È come se la categoria degli architetti fosse assalita da un virus dell'apparire, partecipare, presenziare in tutte le forme: dalle conferenze ai libri, una sorta di nevrosi nel voler stabilire il proprio credo attraverso le parole, smentito poi dalla pratica professionale. Leggendo l'indice di un libro si comprende fin dall'inizio l'intento dell'autore. Così, nel caso dell'architetto novarese, storico direttore di Casabella, allievo di Ernesto N. Rogers, appaiono parole chiave che ritornano nel tempo come "Politica e architettura", "Postmodernismo e realismo critico", "Progetto e globalizzazione", "Futuro e utopia", "Ricchezza e potere". L'impressione è quella di un testamento teorico che per ammissione dello stesso Gregotti è una raccolta di testi degli ultimi trent'anni relativi a conferenze e seminari, il cui fulcro rimane il rapporto tra la politica e l'architettura, nella dimensione locale e globale, in profonda crisi.
"Rappresentazione evidente di queste difficoltà è il disinteresse –scrive Gregotti– sia della cultura architettonica che dei poteri, per il disegno della città, la decadenza dello spazio pubblico e la sua progressiva sostituzione con i “non-luoghi” privatizzati, la prevalenza della competizione mercantile nella costruzione dell’immagine urbana, e ovviamente il rispecchiamento da parte della cultura architettonica di successo mediatico di questo stato delle cose". Poi però se confrontiamo le condivisibili critiche al sistema globalizzato dell'architettura con i progetti che la multinazionale Gregotti ha realizzato nel mondo, dalla pianificazione della nuova città cinese di Pujiang al recupero della Bicocca, si evidenzia una forte dissonanza. Nonostante le contraddizioni, se siamo qui a recensire l'ennesimo libro gregottiano che manifesta, almeno, un pensiero critico forte, significa che siamo circondati dalla superficialità della cultura architettonica nostrana sempre supina nei confronti del potere e incapace di assumersi una responsabilità teorica attraverso la scrittura critica.
D'altronde la crisi che attraversa l'architettura ha determinato città sempre più succubi delle regole del mercato, dove la figura dell'urbanista è stata rimpiazzata dal developer immobiliare. In queste condizioni l'architetto è un mero esecutore non di una progettualità urbana, ma di una politica finanziaria che, una volta cessata l'erogazione dei fondi a causa della recessione economica, ha interrotto la costruzione dei nuovi quartieri nelle città italiane, vedi la vicenda di Santa Giulia a Milano, dimostrando la fragilità di progetti inutili per la collettività.
"Cos’è, quindi, l’architettura? –si chiede polemicamente Gregotti– Professione, mestiere, pratica d’arte o semplicemente attività di una società di servizio (quale e per chi è più difficile dirlo ma ci riempie di sospetti), come definisce l’attività degli studi di architettura la legislazione europea?" La risposta va ricercata nell’incapacità delle istituzioni architettoniche e governative a definire i compiti dell'architetto, a cominciare dall'Università (dove sono ancora molti gli architetti laureati rispetto alla domanda) fino all'ammuffita legge sulla Qualità dell'Architettura (il cui iter iniziò nel 1998, primo governo Prodi) passando per una riforma profonda delle professioni dei geometri e degli ingegneri-architetti, altre anomalie tipicamente italiane.