Prima l’immagine poi la cosa

Frank O. Gehry 1969-today. 21 works, Casey C.M. Mathewson, Feierabend Verlag OHG, Berlino 2006 (pp. 600, s.i.p.)Ecco un nuovo testo su Frank Gehry, architetto americano dall’eccezionale notorietà, ideatore di progetti sensazionali dal planetario riconoscimento: le sue opere restano indimenticabili per chiunque vi abbia gettato anche solo uno sguardo fuggevole.

di Luisa Ferro

Frank O. Gehry 1969-today. 21 works, Casey C.M. Mathewson, Feierabend Verlag OHG, Berlino 2006 (pp. 600, s.i.p.)

Ecco un nuovo testo su Frank Gehry, architetto americano dall’eccezionale notorietà, ideatore di progetti sensazionali dal planetario riconoscimento: le sue opere restano indimenticabili per chiunque vi abbia gettato anche solo uno sguardo fuggevole. Di fronte a tanto clamore tuttavia si insinua un dubbio. E qui vengono in mente le parole di Canetti sugli scrittori di grande fama: anziché tacere, ha seguitato a scrivere sempre lo stesso libro. Ma valga da impegno: per un qualsiasi commento alle opere altrui è necessaria una comprensione vera. Non deve essere rifiutato niente o si cade nell’oratoria da dopopranzo. Ben vengano allora volumi come questo curato da C.C.M. Mathewson, perché documentano fino al dettaglio le opere più importanti. Cinque saggi introducono alla poetica dell’architetto americano, individuando alcuni temi ricorrenti: la concezione dell’architettura come un’opera scultorea, l’uso dei tagli computerizzati per realizzare forme complesse, l’elaborazione di oggetti che danno l’effetto del movimento, strutture piene di contraddizioni che tendono ad un’armonia sempre difficile. La documentazione (proveniente dagli archivi dell’agenzia fotografica di Colonia), quasi esclusivamente fotografica, è alternata a capitoli dedicati ad alcuni temi costruttivi, secondo i quali sono raggruppate le opere: l’uso della luce naturale, la sperimentazione attraverso l’uso di materiali differenti (il legno, il metallo). L’architettura degli esordi richiama apertamente l’opera di Oldenburg (che collabora ad alcuni suoi progetti), l’artista che crea cose-immagini, lavora su oggetti comuni standardizzati, li ingrandisce, esaspera i colori, ne fa una caricatura facendoli diventare troppo ingombranti in modo che sembrino rubare spazio alla nostra esistenza. Ma i modelli non sono gli oggetti reali bensì la loro pubblicità a colori: perché nella tanto famigerata società dei consumi prima viene l’immagine pubblicitaria, poi la cosa. Gehry agli esordi, come gli artisti pop, pesca nei materiali poveri delle periferie urbane: costruisce con reti metalliche, lamiere ondulate, trasferisce in architettura ciò che era stato sperimentato in pittura e scultura. Nella casa a Santa Monica, in questo libro ben documentata, scoperchia, sventra, decostruisce una casa prefabbricata. E poi via via il museo del design Vitra, il centro americano a Parigi. Mano a mano che scorre questo strepitoso viaggio fotografico nelle opere più celebri (la concert hall della Walt Disney, Bilbao e altre), viene alla mente quando, nel 1958, Le Corbusier e Xenakis progettano il Padiglione Philips. L’architetto francese anticipa alcuni caratteri dell’architettura contemporanea, quella fondata su dinamiche non lineari. Quella di Gehry, per esempio, fatta di edifici generati e tagliati al computer, attraverso la deformazione di curve matematiche e strutturali. Ma non solo: “Non darò al vostro padiglione una facciata – scrive Le Corbusier – ma comporrò un Poema elettronico… il padiglione sarà dunque uno stomaco che assimilerà cinquecento ascoltatori-spettatori e li farà evacuare automaticamente alla fine dell’esibizione…”. Con il bombardamento visivo di forme in movimento in grado di raggiungere la cultura di massa comincia il museo-spettacolo-mercato-fiera-esposizione-emporio dell’architettura condannata a essere per sempre contemporanea e di avanguardia. La spettacolarità diventa un valore, l’innovazione tecnologica, i mezzi straordinari, un universo linguistico moderno riportano istintivamente gesti antichi (del costruire) a una spettacolarità più immediata ottenendo un successo commerciale stupefacente. Queste architetture come enormi stomaci ingeriscono eventi di massa, fiumi di interviste, pubblicità strabordante e talvolta aggressiva. Generano movimento; sono fotogeniche e soprattutto riconoscibili anche al primo fotogramma. Sono veloci da memorizzare, veloci da capire. O forse non ci capisci proprio niente. Ma non è questo il punto. Riflettiamo un attimo: in ciò non c’è nulla di negativo, ma sia ben chiaro che un’opera di architettura deve vincere il caso, canalizzare l’emozione; essa deve essere interamente fissata nello spirito; la realizzazione tecnica allora è soltanto una materializzazione rigorosa della concezione, quasi una fabbricazione. Nel Fedro di Platone, all’inizio del dialogo il protagonista, Fedro appunto, e il suo maestro di vita, Socrate, si dirigono fuori dalle mura di Atene, seguendo il corso dell’Ilisso fino a raggiungere un boschetto sacro, dove si adagiano per leggere un’operetta sull’amore. Ogni frase lascia aperti problemi complessi, e ogni risposta suscita nuovi interrogativi, spingendo gli amici a dimenticare ben presto il libretto e a inerpicarsi in una discussione sui temi più vari fino ad arrivare, in un crescendo vertiginoso, a interrogarsi sulla struttura stessa del cosmo. Se l’architettura fosse, come questo libretto letto da Fedro e il suo maestro, la molla dell’azione? È necessario distinguere coloro che insistono a prolungare la catena dell’innovazione concentrandosi entro linguaggi esasperati e coloro che cercano il modo affinché la loro opera possa rivelare aspetti della realtà che riguardano tutti. In questo modo l’opera è in grado di portare lo spettatore oltre il limite fisico definito dall’opera stessa. Così il lettore, lo studioso, si fermi per un po’ a guardare due piccoli edifici (ahimè luoghi di sofferenza) documentati nella monografia: il centro Ronald McDonald e il Maggie’s Center e tragga le proprie conclusioni…

Luisa Ferro Docente di Composizione architettonica

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