Interprete indimenticabile del design della luce, figura poliedrica capace di legare senza soluzione di continuità arte, architettura e design in nome di una ricerca personalissima incentrata sulla consapevolezza del rapporto spaziale, Nanda Vigo è stata una figura irripetibile della scena artistica italiana e internazionale. Vera cosmopolita sensibile soprattutto al richiamo dell’Africa, dove aveva vissuto intrigata dalle simbologie delle culture locali, Vigo ha fatto della capacità di astrazione formale una sintesi tra introspezione cosmica e vortice verso l’assoluto: una tensione, la sua, da risolvere con l’estetica asciutta propria di una personalità definitiva – quella che corrispondeva non a caso alla sua proverbiale, e del resto mai dissimulata, schiettezza.
C’era un gioco incredibile di luce che si rifletteva negli spazi in continuazione, rimbalzando l’architettura, e modulava le forme che continuavano a spostarsi, ma per gli effetti della luce, e questo fatto mi ha particolarmente preso che, senza accorgermi, ho impostato tutto il mio lavoro solo sulle riflessioni luminose.
Nata nel capoluogo lombardo nel 1936, Nanda Vigo dichiarerà di essersi avvicinata alla poetica della luce dopo aver osservato, giovanissima, la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni. Laureata all’Institut Polytechnique di Losanna, nel 1959 rientra a Milano per aprirvi il suo studio dopo uno stage non troppo apprezzato da Frank Lloyd Wright a Taliesin West – l’iperspecializzazione americana di quegli anni non si confaceva del resto alla sua inclinazione al dialogo tra discipline. È nella stagione irripetibile delle avanguardie di quegli anni, accanto a figure quali Lucio Fontana, Piero Manzoni – di cui sarà compagna – ed Enrico Castellani, che inizia ad operare lavorando a progetti industriali in serie, multipli, allestimenti, progetti di interni, showroom, abitazioni private.
La predilezione per la luce artificiale, spesso vivificata con la presenza di colori elettrici quali il blu, il viola, il rosa, il giallo, andrà di pari passo con l’utilizzo di acciaio, specchi, vetro stampato, perspex, materiali prodotti industrialmente e capaci di prestarsi alle riflessioni della luce e alla sua messa in forma dello spazio. Primo esito di questa sperimentazione saranno i lavori sui cronotopi, opere in vetro e luce la cui poetica verrà sintetizzata ne Il Manifesto cronotopico del 1964.
La luce va seguita senza opporre resistenza. Non potrà che illuminarci.
Entrata in contatto con il movimento Zero, fondato in Germania da Heinz Mack e Otto Piene e con cui esporrà a più riprese in tutta Europa, inizia la progettazione della ZERO house a Milano, casa con i muri di vetro satinato dotata di un sistema di luci al neon che definisce il rapporto tra materia e spazio. Traghettatrice delle idee del movimento in Italia, si occupa della curatela della leggendaria esposizione Zero avantgarde che Vigo allestirà nell’atelier di Fontana presentando l’opera di 28 artisti.
Risale sempre a quegli anni la collaborazione con Gio Ponti, ineludibile punto di riferimento con cui Vigo lavorerà agli interni della residenza Lo scarabeo sotto la foglia concependo un ambiente monocromo e sperimentale, rivestito di piastrelle ed ecopelliccia grigia, dove far convergere in maniera integrata le opere degli artisti. La sperimentazione con la ceramica e le geometrie assolute ritorna con la casa vacanze di Remo Brindisi al Lido di Spina: uno dei suoi progetti più noti, architettura totale animata dalla tensione della grande corte interna cilindrica che ne distribuisce gli spazi, oggi trasformata in casa museo e centro espositivo permanente.
Sono puntigliosa e di forte di temperamento. Quello che devo dire lo dico sempre. E poi sono orgogliosa. Deve considerare che sono cresciuta, come altre, in una cultura di dominio maschile. Non c’era altra espressione: o ti veniva fuori il carattere o niente. Ecco, a me è venuto fuori per amore del mio lavoro.
Di pari passo, dagli anni ’60 fino ad oltre il 2000, si svilupperà il confronto con il mondo del design in serie: un impegno che Vigo sviluppa concentrandosi nel settore illuminotecnico – pensiamo alla sua collaborazione con Arredoluce e ad icone sempre orientate all’astrazione e ad una certa assolutezza quali Golden Gate, Osiris, Utopia, Linea - pur senza privarsi di collaborazioni con i grandi marchi dell’arredo tra cui Acerbis, Driade, Glass Italia, a cui si affiancano incursioni più irriverenti, a tratti vicini alle espressioni della stagione radicale – le sedute Due Più, il tavolo Rokko, insieme a tanti pezzi su disegno per case private.
Se l’opera di Nanda Vigo ha sempre trovato numerose occasioni di visibilità nelle tante mostre tenutesi in Italia e all’estero – sono infatti oltre 400 le esposizioni, inclusa la partecipazione alla Biennale del 1982, organizzate in sessant’anni di attività -, gli ultimi anni numerosi musei internazionali, dal Guggenheim di New York, al MAMM Museum di Mosca, al K11 Museum di Shanghai, al Vitra Design Museum, sembravano aver intrapreso un percorso di riscoperta culminato nella grande retrospettiva “Nanda Vigo. Light Project” tenutasi nel 2019 a Palazzo Reale a Milano.
Tra i riconoscimenti alla carriera conseguiti si segnalano il New York industrial Design Award del 1971 per Golden Gate, il primo premio Saint Gobain per il design nel 1976, il primo premio Koiné per allestimento della mostra di Piero Manzoni al Palazzo Reale nel 1998, il Compasso D’oro per le mensole Light/Light nel 2001 e il primo premio Wallpaper/Best Show per la mostra Genesis a Londra nel 2008. La ricerca, la catalogazione e la promozione dell’opera omnia di Nanda Vigo è oggi affidata all’omonimo Archivio, aperto nel 2013 per volontà della stessa artista.
Immagine di apertura: Nanda Vigo, Cronotopia. Photo Nini e Ugo Mulas