Quasi cinquant’anni fa, nell’ultimo saggio di Opera aperta, intitolato Del modo di formare come impegno sulla realtà, Umberto Eco metteva in evidenza come, grazie al comunismo fosse, forse, possibile risolvere il problema di quella alienazione nell’accezione descritta da Karl Marx. Rimaneva però senza soluzione quell’altra alienazione, immanente e strutturale, implicita nel contesto antropologico in cui l’uomo si muove. Perché, sottolineava Eco, “per il fatto stesso di vivere, lavorando, producendo cose ed entrando in relazione con gli altri, siamo nella alienazione”. Concludeva formulando l’ipotesi che gli effetti negativi di questa ineliminabile alienazione avrebbero potuto essere meglio tollerabili proprio grazie al design: “L’industrial design sembra risolvere il problema: unisce la bellezza all’utilità e ci restituisce una macchina umanizzata, a misura d’uomo. Un liquidificatore, un coltello, una macchina da scrivere che esprimono le loro possibilità di uso attraverso una serie di relazioni gradevoli, che invitano la mano a toccarli e usarli: è una soluzione. L’uomo si integra armoniosamente nelle loro funzioni e nello strumento che le rende possibili” (Umberto Eco, Opera Aperta, Milano, 1963).
Il design ha svolto brillantemente questo ruolo culturale diventando uno degli elementi caratterizzanti la nuova identità nazionale.
La soluzione immaginata da Eco si è realizzata e il design, soprattutto quello dedicato alla progettazione di elementi per l’arredamento - mobili, lampade e oggetti – ha svolto brillantemente questo ruolo culturale diventando, grazie anche al contemporaneo successo internazionale dei prodotti di abbigliamento e a quelli per l’alimentazione, uno degli elementi caratterizzanti la nuova identità nazionale. Nel cosiddetto immaginario collettivo l’Italia delle tre A: Arredamento, Abbigliamento e Alimentazione, ha da tempo preso il posto di quella delle tre M: Mafia, Maccheroni e Mandolini, modificando radicalmente il modo in cui il nostro paese si rappresenta, si comunica e viene percepito, soprattutto all’estero.
Nel primo dopoguerra la parte migliore del paese formula un ambizioso programma di ricostruzione esposto da Ernesto N. Rogers in suo famoso discorso tenuto al Politecnico di Milano nei primi anni Sessanta del secolo scorso, nel quale preconizzava che il rinnovamento postbellico del paese venisse affidato ai progettisti – architetti, urbanisti, ingegneri e designer – che avrebbero dovuto occuparsi di ogni cosa, intervenendo dal cucchiaio alla città. A distanza di oltre sessant’anni questo progetto, portatore di buon senso e di speranza da apparire una utopia, si è realizzato solo per la metà rappresentata dal cucchiaio. Invece è andata male per l’altra metà, quella che rinviava alla città, la parte più ghiotta, che i politici hanno ritenuto più conveniente affidare ai palazzinari e ai loro geometri, anziché agli architetti e agli urbanisti. Sicché si è molto costruito facendo però pochissima architettura.
La produzione italiana riesce a mettere insieme artefatti tanto diversi fra loro come quelli firmati da Marco Zanuso o da Ettore Sottsass.
Sotto la spinta della ricca e dinamica borghesia imprenditoriale lombarda, desiderosa di poter comunicare ed esibire il proprio nuovo benessere, ha inizio una profonda trasformazione riguardante non solo i cucchiai ma l’intero universo degli oggetti. E questa trasformazione avviene sotto il segno del design. Gli elementi di arredo di nuova produzione cominciarono gradualmente a sostituire gradualmente l’anacronistica congerie di riproduzioni in uso, quasi sempre copie e imitazioni di un qualche vecchio “stile” straniero. Inizia in questo modo l’inarrestabile cambiamento del paesaggio domestico, prima a Milano, poi in Lombardia e nel Nord più ricco e industrializzato e infine nel resto d’Italia. La nuova produzione di oggetti ispirati alle regole del buon design conquista il crescente favore della gente, contribuendo alla graduale crescita della cultura materiale del nostro paese. Un paese che, fino al trionfo di quello che Mario Bellini ha definito lo “stile design”, non aveva mai avuto un proprio e originale stile di arredamento, uno stile che fosse autenticamente e riconoscibilmente italiano.
Se oggi una parte della produzione industriale è guidata, non solo dai valori del profitto, dell’economicità e della funzionalità, ma anche da quelli della bellezza e della sostenibilità, ciò è dovuto al design. Grazie al design, le nuove tecnologie che continuamente si offrono alla produzione, vengono utilizzate per migliorare la funzionalità e addomesticare la tecnologia, nel rispetto dell’estetica e nella coscienza che si debba garantire la sopravvivenza del pianeta terra. Coniugato in questa maniera, il design si configura come un vero e proprio neoumanesimo edonistico post-industriale, impegnato a rendere, come auspicato da Umberto Eco, sempre più amichevole e piacevole l’incontro dell’uomo con i prodotti industriali.
La creatività dell’italian furniture design, ha potuto contare su di un grande numero di designer di eccellenza e ha saputo mettere sotto la stessa bandiera vocazioni e orientamenti anche in contrasto tra loro. Ha ragione la critica brasiliana Ethel Leon quando ricorda che: “Una delle produzioni maggiormente applaudite del design al mondo, quella italiana, riesce a mettere insieme artefatti tanto diversi fra loro come quelli firmati da Marco Zanuso o da Ettore Sottsass. Quando forse l’unico tratto comune a tutti, che conferisce loro l’attributo di “scuola”, è la capacità di invenzione formale e l’inserimento degli artefatti nel dibattito culturale contemporaneo” (Ethel Leon, Design brasileiro, Rio de Janeiro, 2005).
Se è vero che gli oggetti, anche quelli di buon design, non garantiscono la felicità, credo si possa, almeno in parte, considerare il design come un’utopia realizzata.
Le socializzanti utopie dei padri fondatori alimentavano la speranza di riuscire, grazie all’industrial design, a ridurre i prezzi rendendo al tempo stesso la bellezza accessibile a tutti. Ma le cose sono andate diversamente e oggi il design è divenuto un lusso, un lusso culturale. Un lusso capace di sedurre un numero crescente di nuovi consumatori, che io ho definito Edonisti Virtuosi, consumatori non manipolabili, capaci di fare scelte di acquisto autonome, intelligentemente orientate da un gusto individuale sempre più informato, smaliziato, sofisticato ed educato. (G. Cutolo, L’Edonista Virtuoso - Creatività mercantile e Progetto di consumo, Franco Angeli, 2010). Anche se è certamente vero che gli oggetti, anche quelli di buon design, non garantiscono la felicità, credo si possa, almeno in parte, considerare il design come un’utopia realizzata. Un’utopia che propugna e veicola la diffusione di quella bellezza che alimenta e rende plausibile la promessa di felicità alla quale tutti abbiamo bisogno di credere.