Dal 6 febbraio al 15 giugno, a Sharjah (Uae) è in corso la Biennale dell’Arte che, in alternanza alla Triennale di Architettura, da anni si configura come uno dei palcoscenici culturali più vivaci di tutto il Medio Oriente. L’iniziativa, alla sua sedicesima edizione, è promossa da Sharjah Art Foundation, ente pubblico indipendente con il duplice obiettivo di promuovere l’arte contemporanea e valorizzare il patrimonio storico-architettonico della regione. Un approccio culturale che pone Sharjah agli antipodi della vicina, futuristica e scintillante Dubai, tra atmosfere pacate e riflessive, flussi di vita lenti e radicati nelle tradizioni locali che pervadono le sikkak del centro (the Heart of Sharjah) e la floreale Corniche.
"To Carry” è il titolo della manifestazione che affronta il tema della precarietà e del movimento (e del disorientamento) come cifra costitutiva del contemporaneo. Transnazionalismo e immigrazione, imperialismo coloniale e sfruttamento economico, disastri ambientali, prevaricazione e discriminazione sociale comportano rotture, spostamenti e ricollocazioni (non solo geografiche), inducendo ad un quesito: cosa portare con sé quando si parte, si fugge o si cerca di sopravvivere? Quali sono gli strumenti per ricomporre un’identità condivisa come forma di esistenza e di “resistenza”? Attraverso una curatela collettiva (Alia Swastika, Amal Khalaf, Megan Tamati-Quennel, Natasha Ginwala, Zeynep Öz), la mostra propone una polifonia di contributi (oltre 190 partecipanti, 300 opere e più di 200 nuove commissioni), ospitati in diciassette luoghi in tutto il territorio dell’Emirato, recuperati e convertiti in sedi espositive.
Epicentro è Al Mureijah Square, corrispondente al nucleo urbano originario, dove SpaceContinuum Design Studio nel 2013 ha recuperato cinque fabbricati fatiscenti preservandone le caratteristiche plani-volumetriche per realizzare un’area espositiva di circa 2.000 mq: murature storiche in corallo dialogano con immacolati volumi contemporanei che introiettano la luce da lucernari e ampie facciate in vetro, connessi da aeree passerelle e articolati in una sequenza di cortili, vicoli, piazze. Qui, una sequenza di opere tra sculture, fotografie, allestimenti, installazioni audiovisuali propone una riflessione sulla genesi di nuove identità scaturite dalla stratificazione e dall’ibridazione culturale: tra le tante, il lama peruviano “contaminato” da scatolette e rotoli di carta igienica come simboli del consumismo (Claudia Martínez Garay, “Chunka Tawayuq Pacha”) e il pianoforte a coda rosso, funzionante, intagliato con sagome della cultura Maori (Michael Parekōwhai).

A poca distanza, la storica casa di un mercante (Bait Al Serkal) ospita opere che riflettono sulla scomparsa e sul ricordo, tra cui il patchwork di stoffa che ricostruisce la mappa di un villaggio indiano cancellato da un genocidio (T. Vinoja, “Enduring Traces: The Power of Lineage in Collective Memory”). In Calligraphy Square, il tema delle nuove geografie fisiche e culturali dettate dall’imperialismo emerge, tra l’altro, dalle immagini del paesaggio angolano, permeato da suggestioni cosmologiche bantu, e punteggiato dai resti del dominio portoghese (Mónica de Miranda, “As If The World Has No West”). Nel Calligraphy Museum, sconcertanti forme di contrasto alla solitudine sociale (acutizzata dal Covid) sono espresse da micro-oggetti artificiali, composti da tessuti simil-epidermici, ciglia finte e unghie di plastica, che si animano con sensori al tocco avviando una forma surreale di interazione (Chun Shao, Future touch - Still) e ricordando il tri-sillabico interlocutore-portachiavi del film “I Love You” (Marco Ferreri, 1986).

Nelle vicinanze del centro, un paesaggio urbano di stampo modernista diventa scenario delle esposizioni lungo l’asse che, estendendosi dalla Corniche al Rolla Square Park, taglia in due il centro storico: 17 fabbricati progettati dallo studio spagnolo Typsa (1977) per ospitare alloggi di expats, uffici e banche, tra i quali spunta timidamente al centro il Forte Al Hisn (1820) parzialmente demolito e ricostruito. Fulcro è il Bank Street Building, edificio “simbolo” dell’avvento del mercato globale a Sharjah negli anni ’70, acquisito da Sharjah Art Foundation e oggi incluso in un imponente processo di rigenerazione urbana.

Spostandosi dal centro, la Biennale approda in luoghi per anni protagonisti dei ritmi vitali della città e trasformati in luoghi di cultura.
Sul lungomare, il vecchio Al Jubail Vegetable Market (Halcrow Group, anni ’80) è un “gioiello” architettonico con le sue arcate curve, le piastrelle in terrazzo, le finestre ad arco e le insegne vintage. Gli spazi un tempo vibranti di commercio di beni alimentari e relazioni sociali risuonano di riflessioni ecosistemiche e agroalimentari unite a riletture ironiche delle politiche imperialistiche, tra cui una macroscopica scultura lignea che raffigura il Campidoglio statunitense come un pollaio (Sakiya, “Capital Coup”).

Nel distretto di Al Manakh, l’ex scuola elementare maschile di Al-Qasimiyah (1971), dal 2018 sede principale della Triennale, è l’archetipo di una tipologia edilizia scolastica consolidata in tutto l’Emirato, caratterizzata da volumi in toni terrosi con schermi traforati e dalla ripetizione modulare di una struttura intelaiata in cemento armato che compone unità didattiche alternate a percorsi coperti e cortili all’aperto.

Qui, il tema della cura collettiva dal dolore e della necessità di superare i confini dell’informazione mainstream si coglie nei tessili dell’artista turca Güneş Terkol, realizzati in collaborazione con migranti e vittime di abusi domestici.

Verso la periferia il Flying Saucer, aperto nel 1978 come ristorante francese e poi supermercato, è un volume brutalista ristrutturato da SpaceContinuum Design Studio, che si staglia nel paesaggio urbano come un’insolita navicella spaziale. Il corpo in cemento armato e vetro è caratterizzato da un impianto circolare, coperto da un tetto piano bordato da 32 punte, sormontato da una cupola e sostenuto da colonne triangolari intersecantisi. Al di sotto del “disco volante”, uno spazio ipogeo ospita un bar, una biblioteca e sale riunioni, illuminate dal cortile interrato e da lucernari. L’edificio ospita tra l’altro l’installazione del collettivo thailandese Womanifesto (WeMend) che propone rifugi autocostruiti replicabili e implementabili tramite manifatture sartoriali.

Fuori dalla città, nella Central Region, lo scenario naturale prende il sopravvento sullo spazio antropizzato. Nel paesaggio "lunare" del Buhais Geology Park, l’installazione di pali di legno e gusci di ostriche rimanda agli ecosistemi marini e alle architetture della regione australiana del Quandamooka, distrutti da dissennate politiche estrattive (Megan Cope, Kinyingarra Guwinyanba).

Il villaggio sommerso di Al Madam, costruito negli anni ’70 come distretto abitativo per lavoratori e poi abbandonato per le estreme condizioni climatiche, si confronta con la transitorietà dei segni antropici nel paesaggio, in questo caso leggibile nei resti delle abitazioni progressivamente (e catarticamente?) inghiottite dalla sabbia del deserto.


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