C’è una profonda novità dentro la serie tv M, il figlio del secolo e non è certo il fatto che il protagonista, Benito Mussolini, parli con il pubblico. È semmai legata alla trovata che il fascismo, con la sua ascesa e affermazione in parlamento, venga raccontato con questo stile giocoso, spesso ironico, molto divertito e di grande intrattenimento. La novità sta proprio nel dettaglio che, benché non ci sia nulla di inventato e benché sia costantemente sottolineata la brutalità dell’ideologia e l’aberrazione morale degli ideali, il fascismo è spettacolarizzato. È quello che in molti odiano del cinema e della tv, la possibilità di prendere delle tragedie e farne uno spettacolo volto a intrattenere il pubblico. Eppure, stavolta la scelta è perfetta, perché M, il figlio del secolo racconta la storia dell’ascesa al potere di Mussolini, ma soprattutto racconta il rapporto di Mussolini con gli italiani. Quelli dell’epoca, ovviamente, ma sempre di più nel rivolgersi direttamente agli spettatori, anche quelli di oggi.
M. il figlio del secolo è forse il primo vero tentativo, per l’Italia, di elaborare il fascismo. Il cinema italiano lo ha raccontato quasi sempre di rimbalzo.
Il fascismo non gode della sovrarappresentazione del suo cugino, il nazismo. Il cinema americano, negli ultimi 30 anni, ha trasformato Hitler in un cattivo da fumetto. Ne esistono tantissime versioni, tutte cariche, esagerate e spettacolari. E insieme a lui il nazismo è diventato il massimo del male concepibile, qualcosa buono per film fantastici. I nazisti sono stati mostri, vampiri, zombie che tornano dalla morte, ladri di arche perdute e cospiratori da fumetto. Alla tragedia reale il cinema ha aggiunto uno strato in più e il nazismo ha scavallato il confine della storia, diventando un archetipo narrativo. Tutto questo non è mai accaduto con il fascismo: è sempre stato qualcosa di molto realistico al cinema, di molto ancorato ai fatti. Adesso, per la prima volta, si libera di quei lacci e può presentare ciò che è davvero successo in una maniera totalmente inventata. Perché, ben più del realismo, solo la finzione può giungere alla verità ultima; solo l’applicazione di uno strato di falso può far fare alla realtà un passo in più verso la verità.
M, il figlio del secolo è forse il primo vero tentativo, per l’Italia, di elaborare il fascismo. Il cinema italiano lo ha raccontato quasi sempre di rimbalzo, in storie che erano centrate su personaggi che vivevano gli anni del fascismo e ne subivano le conseguenze. E questo a partire dai film della liberazione, girati e ambientati in un periodo in cui il fascismo era finito ma le conseguenze erano ovunque. Ci sono poi stati film come Il conformista di Bernardo Bertolucci, in cui il protagonista finisce in una spirale di adesione al partito, e le commedie che prendevano in giro gli ufficiali, senza mostrare però le atrocità. Ci sono stati i film come Una giornata particolare, in cui Marcello Mastroianni e Sophia Loren rimangono soli nel loro palazzo durante un’adunata fascista, e scopriamo che sono due emarginati dal sistema dittatoriale. E poi ancora molti altri in cui si raccontano le persone messe in difficoltà dal regime. Non il regime in sé. Solo Bellocchio in Vincere si era spinto a raccontare i primi anni di Mussolini.
Adesso qualcuno fa di Benito Mussolini un personaggio da cinema, uno che ha un suo conflitto e per il quale in certi momenti si può anche parteggiare (è lo strano effetto che fanno i film: si sta sempre dalla parte di chi è in difficoltà, anche se sono degli assassini), le cui paturnie diventano il centro dell’intreccio ma che, in ultima analisi, è un incapace, un cretino e un vanaglorioso, elevato dal contesto in cui si trova e dal suo rapporto con la folla. Le scene più belle sono quelle in cui doma le persone intorno a lui, in cui aizza gli animi, parla e esce vittorioso da situazioni che sembravano averlo sconfitto. Mussolini piace e, come dice all’inizio: “Il fascismo! Una creatura bellissima, che conquisterà milioni e milioni di cuori, son sicuro anche i vostri. Seguitemi. Anche voi mi amerete, anche voi diventerete fascisti”. Il pubblico è fin dall’inizio del primo episodio parte in causa, in una frase inventata che tuttavia è la perfetta descrizione di quello che è successo.
Questo approccio da fumetto, in cui tutto è deformato e tutto è stilizzato per esprimere delle valutazioni anche al di là dei fatti raccontati, è quello che crea anche forse la miglior rappresentazione di Milano nel primo dopoguerra. Non la più bella, non la più reale, ma la più significativa, quella cioè che riesce a produrre significato. Per tutte le puntate iniziali la città in cui si muove Mussolini mentre fonda un partito che raduna gli insoddisfatti e gli sconfitti della Prima guerra mondiale, le persone che il conflitto ha reso storpie, che non si sono più reintegrate nella società e che danno la colpa alla nazione della loro situazione, è un relitto. È inquadrata quasi sempre di sera, al buio, nella sua decadenza, ha i colori e i toni gotici della Londra vittoriana di Peaky Blinders, è infestata da barboni e sporcizia. Ancora di più, le pareti delle case e dei palazzi sono piene di crepe e tutto cade a pezzi. Sembra che i personaggi si muovano nei ruderi.
Milano rappresenta la società di quel momento, un’Italia sconfitta a tanti livelli diversi dalla guerra. “La vittoria mutilata” era in realtà una sconfitta mascherata, e quel mondo che sembra sempre stia per crollare è lo scenario perfetto per l’emergere di un dittatore. Invece di farci vedere delle persone disilluse che dialogano tra loro con frasi che ci fanno capire che sentono il bisogno di un uomo forte, M, il figlio del secolo ce lo racconta con gli ambienti. Tutto ciò che nelle inquadrature è dietro ai personaggi mostra lo stato del mondo intorno a loro. Una delle scenografie più belle in assoluto è una cella circolare, un luogo umido e lercio, malsano e putrido in cui le persone vagano disperate. È così che la serie spiega l’emergere di quella ideologia ributtante, attraverso un mondo che era stato condotto nel fango. È così che spiega l’amore di molti per Mussolini, mostrando come non esistessero alternative in quella società che più in basso non poteva andare e desiderava soltanto cambiamento.
Poi, con il procedere degli episodi, lentamente, gli ambienti cambiano. La fotografia scurissima, fatta di un’illuminazione sempre fioca, sempre notturna, diventa solare. Più il fascismo emerge, più la serie è ambientata di giorno. Più Mussolini si accredita, entra in parlamento, diventa un attore della scena politica, più gli ambienti che frequenta cambiano. Sempre meno la squallida casetta in cui c’è la moglie e sempre di più i palazzi opulenti della sua amante e mentore Margherita Sarfatti, fino alle stanze ampie dei palazzi di potere, in cui ogni cosa è illuminata. E, a testimonianza della maniera in cui questa serie scritta da Davide Serino e Stefano Bises e poi messa in scena da Joe Wright parli con gli oggetti, gli arredi e gli ambienti, quando Mussolini scavalla e, da capopopolo e poi parlamentare, diventa un uomo che intuisce di poter conquistare un potere più grande di quanto nessuno abbia mai avuto nella storia della repubblica italiana, compare l’oggetto d’arredamento simbolo del fascismo: la testa nera del duce. Gigante, però, una sua rappresentazione magniloquente, ingombrante. E nera.
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