Un telefono fisso e un vecchio cellulare Nokia; teste d’aglio su un tavolo, un uccello che ci si posa sopra. Cracker Ritz. Insetti. Memorie in cui si infiltra l’irrazionale, ridipinte a olio: sono le immagini di “Balcony, Backyard” di Annalise Kamegawa, una “installazione sculturale” che racconta una famiglia americana post crisi del 2008. “A perfect house” di Alberto Allegretti racconta invece altre famiglie, quelle ricreate nelle immagini dalle intelligenze artificiali generative di massa, in cui vecchi pregiudizi vengono rimasticati dalle AI, che non riescono a immaginare una persona che lava i piatti che non sia donna e magari scura di pelle.
Poco lontano, all’aperto, “Closed set” di Aindriú Ó'Deasún sovrappone alle sagome dei daini, rappresentati con sculture in cui “appaiono immobili, quasi congelati”, un sonoro di frammenti tratti da porno gay. Si passa di qui per arrivare alla coloratissima casa-capanno di Davide Balda, la cui ricerca “Telare la materia” presenta un suolo per coltivare ottenuto con gli scarti della linea Green B di Benetton.
Arte, musica, cinema e racconti hanno riverberato per le sale e i corridoi e i giardini di una creatura architettonica creata in Veneto da Tadao Ando sul finire degli anni Novanta “per stimolare l’incontro tra persone, storia e natura”: l’occasione, i suoi trent’anni.
Quelli di Fabrica, che è un luogo fuori dal normale, un’eccellenza italiana della creatività, un punto di riferimento internazionale e “quella che vuole essere tutto tranne una scuola”, come la definisce Carlos Casas, program director ed ex-fabricante lui stesso – la sua frequentazione risale alla fine del secolo scorso, come quella di un nome celebre dell’arte contemporanea, Nico Vascellari, anche lui presente a questo festival di celebrazione, mentre Kamegawa, Allegretti e Ó'Deasún sono la new wave, tutti allievi con meno di 25 anni alla fine del loro semestre; Balda invece ha avuto la possibilità di continuare qui la sua ricerca, complice l’affinità elettiva con la moda e la filiera del gruppo Benetton.
Tadao Ando era volato in Veneto per dire di no a Luciano Benetton, o almeno così si dice. Tornò in Giappone con la commissione di progettare Fabrica.
Fabrica nasce negli anni ‘90, sull’onda dell’incredibile successo delle campagne di Toscani per Benetton. Oliviero il creativo convince Luciano l’imprenditore a fare una scommessa all-in, creando da zero qualcosa di unico, un contesto capace di cambiare la traiettoria della vita di centinaia di persone. In una nazione come l’Italia dove si è ossificato il pregiudizio che l’anzianità e l’esperienza siano i valori da privilegiare, e dove nelle aziende a trazioni familiari il cognome è sempre un privilegio, Fabrica è stato quel contesto dove le carte sono state sparigliate, dando a giovani semisconosciuti fiducia e responsabilità.
Casas ricorda quando aveva neanche 24 anni ed era stato coinvolto nel progetto di un ristorante ibrido a Venezia, che avrebbe dovuto aprire nel 2001. Il progetto voleva riempire i tempi vuoti d’uso di un ristorante trasformandolo in un luogo sempre vivo e al tempo stesso suscitare delle riflessioni sul turismo di massa. Una occasione irripetibile per un ragazzo di quell’età, e cosa vuoi fare?, “Ti metti a lavorare come un matto”, sorride lui. Il Colors Restaurant – ristorante, cinema, teatro, museo e anche altro – non è stato mai costruito, ma ben rappresenta l’approccio proprio di Fabrica di “mettere le idee al potere”, come racconta Loredana Mascheroni su Domus 815, supportata dalle foto di Ramak Fazel.
In quell’articolo di fine Novanta si racconta la Fabrica dei primi anni, l’ambizione di “imparare facendo” e quel momento di creatività che la generosità di Benetton permetteva di mettere al riparo dai compromessi che il denaro porta quasi sempre con sé. “Lavoriamo soltanto facendo le cose che vanno bene a noi”, affermava perentorio come solo lui sa essere Oliviero Toscani. In maniera ancora più spiazzante, Toscani aveva detto che avrebbe voluto Fidel Castro, “Maestro della Rivoluzione”, a dirigere Fabrica.
I “pillari” attorno a cui si è sviluppata Fabrica, come li definisce Casas nel suo italiano-pidgin che restituisce molto dell’aria di continuo melting pot che si respira, sono la multidisciplinarità, una di quelle parole oggi magiche dell’istruzione in campo creativo che però qui si è sviluppata in modo naturale e un po’ anarchico; un empowerment personale, attraverso l’esposizione a stimoli e maestri del gotha della creatività. E poi, un continuo riferimento all’oggi, un attacco frontale alla società. Che è stata la chiave di volta delle campagne di Toscani per Benetton.
C’è di più: quello che si respira qui dentro è ancora un benessere che si fa fatica a non ricollegare a un tempo mitico, una generosità nei confronti del talento che oggi appare straordinaria e forse negli anni Novanta lo era un po’ di meno. C’è tanto spazio qui a Fabrica: l’astronave di Tadao Ando accoglie le generazioni di fabricanti in percorsi talvolta lunghissimi – si cammina tanto qui a Fabrica, ribadirà sornione Casas – e spesso solitari.
D’altro canto tutto questo vuoto non può che risuonare anche per quel che effettivamente è: ovvero, vuoto. E i giorni in cui si festeggia Fabrica sono anche quelli in cui Benetton annuncia la sua più grande debacle forse di sempre, con un buco da 100 milioni. Niente che non si possa rimettere in bolla. Ma una crepa si è aperta in quella sensazione di stare bene per sempre.
Fabrica è stato quel contesto dove le carte sono state sparigliate, dando a giovani semisconosciuti fiducia e responsabilità.
“La mia vita è cominciata quando sono venuta qui”, racconta Sasha Huber, che a Fabrica ha trovato anche il compagno di vita e di lavoro Petri Saarikko e con cui sono tornati per portare il loro workshop sulla memoria orale, parte del più ampio progetto Kinship che ha coinvolto i fabricanti di questo semestre. Ricordano l’assegnazione per un lavoro futuristico sugli store Benetton che doveva connetterli come un social network anni prima che esistesse Facebook, e di quando erano volati a New York per incontrare il maestro della grafica Massimo Vignelli, che all’epoca si occupava dell’identità visuale del marchio, per discuterne.
“Un luogo che crede in te”, come lo definisce Casas. Dando fiducia, anche di sbagliare. “È meraviglioso fare un errore”, si unisce il designer, curatore, artista brasiliano ed ex fabricante Batman Zavarese, che sottolinea l’importanza dell’“imparare facendo” e rievoca momenti di fuoco e fiamme con Oliviero Toscani, la cui presenza aleggia ancora forte nei corridoi e nelle sale: lo accompagnano memorie di scontri accesissimi e cosmiche turbolenze, insieme a un diffuso sentimento di riconoscenza. Con la sensibilità dell’oggi, modalità simili sarebbero stigmatizzate. Chi è uscito da quelle tempeste negli anni del proprio bildungsroman, tuttavia, sembra averne tratto la lezione che gli ha svoltato la vita, invece che fare dei video di denuncia in lacrime su Tiktok come ti aspetteresti oggi da un Gen Z.
Tadao Ando era volato in Veneto per dire di no a Luciano Benetton, o almeno così si dice. Tornò in Giappone con la commissione di progettare Fabrica. C’era questa villa veneta atipica non lontana da Treviso, con il corpo principale piccolo se confrontato alle barchese. Era stata distrutta da un incendio e Ando la ristrutturò trattando con delicatezza le preesistenze e plasmando un’arca spaziale che si adagia nella natura circostante, una scultura di cemento con un respiro zen che pervade le ampie sale come i corridoi e dove il tema dell’ovale è ricorrente, nella biblioteca a spirale come nella spaziosa agorà all’aperto. Un luogo “magico e suggestivo”, lo definiva Domus nel ’99.
Quello che si respira qui dentro è ancora un benessere che si fa fatica a non ricollegare a un tempo mitico, una generosità nei confronti del talento che oggi appare straordinaria e forse negli anni Novanta lo era un po’ di meno.
Oggi questi spazi ospitano, oltre a Fabrica, alcuni reparti di Benetton e la collezione Imago Mundi, un progetto artistico iniziato da Luciano Benetton e basato su piccole immagini quadrate realizzate da artisti di tutto il mondo. Si era mosso qui il gruppo di lavoro di Colors, la rivista di Benetton “sul resto del mondo” creata da Toscani con il grafico americano Tibor Kalman e considerata nei suoi anni d’oro tra le migliori pubblicazioni al mondo.
Ed era qui Fabrica Cinema, che nel corso della sua esistenza ha prodotto documentari, cortometraggi e lungometraggi, tra cui No Man’s Land, premio Oscar nel 2002. Nell’ufficio di Casas sfogliamo vecchie riviste e cataloghi parlando del passato, del presente e del futuro. “Mi spiace che tutto questo non sia stato contagioso”, che altre grandi aziende, dai marchi big tech alla moda, non abbiano creato posti simili, dice lui.
Nata in una congiuntura economica e sociale incredibile, spinta dall’energia degli anni Novanta, Fabrica è un patrimonio culturale di un’Italia che parla con il resto del mondo, al tempo stesso è legata con le sorti economiche di Benetton (e dei Benetton). Un legame a doppio filo: riusciresti mai a immaginare l’azienda senza tutto questo? Ma quel che sarà di questo posto è ovviamente una domanda aperta. Fabrica resterà probabilmente l’espressione di un momento unico di un’azienda altrettanto unica. Intanto, un nuovo ciclo sta per cominciare e si aspetta l’ingresso del fabricante numero 800, che ha già un nome e cognome. Buon compleanno, Fabrica.