Fine anno, tempo di bilanci. E un’ottima occasione per lasciarsi sorprendere da quello che è successo nei dodici mesi precedenti. Tra grandi conferme e risultati inaspettati, è quello che succede a riguardare l’elenco degli articoli pubblicati sul sito di Domus che a voi lettori (o come piace dire in contesto digital, “utenti”) – sono piaciuti di più qui (sempre di più gli accessi direttamente alle homepage) o sulle nostre piattaforme digital sempre in espansione, sui nostri social o in una delle nostre newsletter a cui potete iscrivervi qui.
Questa raccolta di articoli è dominata dalle “raccolte”, ovvero da articoli che mettono insieme più esempi di una stessa tipologia. E ne abbiamo per tutti i gusti, dalle infrastrutture (stazioni ferroviarie) al densissimo pezzo d’archivio sulle 50 case più importanti mai pubblicate su Domus nei suoi quasi 100 anni di storia, passando per la moda (sneaker), l’abbandono, quasi in uno slancio nostalgico verso gli anni ’90, e il weird (grattacieli più bizzarri), categoria che spadroneggia in ogni ambito dello scibile e dell’intrattenimento. C’è ovviamente il brutalismo, passato da fenomeno di nicchia a tendenza onnipresente e che fa sfracelli sui social.
Ma c’è anche spazio per i film, che su Domus vanno sempre fortissimo, a causa dell’affinità elettiva tra cinema, design e architettura, per il gossip, che va forte ovunque, e la nostra serie “a casa di”, qui con lo scrittore italiano Nicola Lagioia, il più letto di quest’anno.
Infine, un ponte sul futuro: abbiamo deciso di aggiungere tre contenuti nati per i social e non per il sito, ovvero tre reel che abbiamo pubblicato sul nostro Tiktok e su Instagram, proiettandoci già verso un anno in cui la nostra presenza digitale sarà ancora più pervasiva e sempre meno agganciata all’idea di essere una mera “conversione digitale” di una rivista cartacea in digitale.
Perché dicevano che il futuro sarebbe stato qui, ma quel futuro è già il presente.
01
50 architetture da conoscere: case nel mondo e nella storia
“Tutto è Architettura”, scriveva Hans Hollein nel 1968, nel pieno fermento dei movimenti progettuali, radicali e internazionali. In passato l’architettura era un’arte riservata agli edifici pubblici, ai monumenti e ai palazzi aristocratici, quindi la semplice casa di abitazione non era quasi mai coinvolta nei progetti che hanno fatto la storia dell’architettura, nonostante ben si sappia che esiste, soprattutto per questo archetipo, anche una “architettura senza architetti”, come hanno insegnato Giuseppe Pagano e Bernard Rudofsky. Continua a leggere
02
15 icone dell’architettura che non esistono più
Joseph Paxton, Crystal Palace, Londra, Gran Bretagna (1851-1936)
Costruito nell’ambito dell’Esposizione Universale di Londra del 1851 per esaltare le qualità delle tecnologie emergenti in vetro e acciaio, il Padiglione era originariamente installato ad Hyde Park, per poi essere trasferito in un’altra zona della città. Distrutto da un incendio nel 1936, ispirò molti altri edifici che facevano della leggerezza e della trasparenza un plusvalore a dispetto delle ingombranti architetture del passato.
Victor Horta, La Maison du Peuple, Bruxelles, Belgio (1896 -1965)
Il complesso in stile Art Nouveau, commissionato dal Partito dei lavoratori belgi, era distribuito su quattro piani in un lotto irregolare e si caratterizzava per la massima funzionalità e sobrietà a livello ornamentale (differentemente da altre realizzazioni di Horta). L'edificio fu demolito nel 1965 e rimpiazzato da un grattacielo, non senza polemiche di fronte a ciò che venne considerato un vero e proprio crimine architettonico.
Ernest Flag, Singer Building, New York, USA (1899-1969)
L’edificio che ospitava la sede della Singer Manufacturing Company, famosa casa produttrice di macchine per cucire, con i suoi 187m e 47 piani è stato negli anni successivi alla sua costruzione il più alto del mondo e un landmark fortemente riconosciuto a Manhattan. A nulla sono valsi gli sforzi della comunità per farlo riconoscere “historical landmark”: è stato demolito alla fine degli anni ‘60 e rimpiazzato dall’attuale One Liberty Plaza.
McKim, Mead & White, Pensylvania Station, New York, USA (1910-1963)
L’edificio in stile Beaux Arts, originariamente un nodo nevralgico nella New York del primo Novecento e punto di riferimento per la comunità, fu demolito nel 1963 a causa del calo dei flussi di transito ferroviario. Al suo posto, Madison Square Garden e l'attuale versione della Penn Station.
Frank Lloyd Wright, Imperial Hotel, Tokyo, Giappone (1923-1967)
Il complesso fu progettato dal maestro dell’architettura organica, qui ancora influenzato dal revivalismo Maya sperimentato negli stessi anni anche in Ennis House a Los Angeles. Sopravvissuto a terremoti, l’edificio provato dal tempo è stato demolito nel 1963 per fare posto alla terza versione dell’hotel.
Le Corbusier, Padiglione dell’Esprit Nouveau, Parigi, Francia 1925
Il Padiglione, ideato per l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi del 1925, era il prototipo a scala reale di un alloggio standardizzato composto da elementi prodotti in serie, che mirava a promuovere i benefici di tecnologie efficienti ed economiche per fare fronte al fabbisogno di alloggi e all’esigenza di qualità abitativa nelle città. Fu ampiamente osteggiato dagli organizzatori della manifestazione che tentarono di occultarlo per il messaggio dirompente, rivoluzionario e in esplicito contrasto con l’Art Déco che l’Expo rappresentava. Decenni dopo lo smantellamento, nel 1977 è stata ricostruita una copia fedele a Bologna, che oggi ospita una sede espositiva.
Minoru Yamasaki, Pruitt-Igoe, Saint Louis, USA (1955-1974)
Il grande progetto urbanistico di edilizia popolare fu concepito per soddisfare la pressante esigenza abitativa della città negli anni del dopo-guerra. Nel periodo immediatamente successivo alla costruzione, le condizioni di vita nel complesso cominciarono lentamente a decadere in un profondo degrado socio-economico e ambientale. La demolizione dei 33 mastodontici edifici avvenne tra il 1972 e il 1974 e fu accompagnata da un dibattito intenso sulle politiche pubbliche di edilizia sociale che vedevano nel complesso abitativo un evidente simbolo di fallimento nazionale. Quella del Pruitt-Igoe è stata una delle prime demolizioni di edifici di architettura moderna ed è stata definita dal teorico e storico dell'architettura Charles Jencks come “il giorno in cui l'architettura moderna è morta”.
Richard Neutra, Gettysburg Cyclorama, Gettysburg, Pensylvania, USA (1958-2013)
Progettato da uno dei padri del modernismo californiano, il centro visitatori nel sito della battaglia di Pickett's Charge durante la Guerra Civile Americana del 1863 ospitava un ciclorama del 1883 di Paul Philippoteaux e un ponte di osservazione. A causa degli elevati oneri per la manutenzione e il restauro, l’edificio è stato i demolito, nonostante le pubbliche proteste e il fatto che fosse considerato un luogo di eccezionale importanza storica ed architettonica.
Angelo Bianchetti, Autogrill Pavesi, Montepulciano, Siena, Italia (1967-2021)
Nell’epoca del boom economico in cui l’Italia guardava al futuro con ottimismo e la libertà sfrecciava su quattro ruote sulle orme dell’ American way of life, l’autogrill a ponte Pavesi tra i caselli Bettolle-Valdichiana e Chiusi-ChiancianoTerme era un punto di riferimento per turisti, vacanzieri e pendolari che qui assaporavano un momento di relax. Autostrade per l’Italia lo sostituisce con due torrette, più funzionali, meno poetiche. Memoria di un passato un po' ingenuo e felicemente sognante che difficilmente tornerà.
Miguel Fisac, Laboratorios Jorba, Madrid, Spagna (1970-1999)
L’edificio alle porte di Madrid era un esempio di equilibrio tra leggerezza e matericità: l’articolazione dei piani, sfalsati tra loro di 45 gradi, suggeriva l’immagine di un tempio asiatico (l’edificio era comunemente denominato “la Pagoda”) mentre l’impiego virtuosistico del cemento grezzo con tracce delle cassaforme in legno strizzava l’occhio al Brutalismo. Non riconosciuto come bene storico da tutelare, fu demolito nel 1999 per lasciare spazio a nuovo fabbricato terziario.
Kisho Kurokawa, Nakagin Capsule Tower Building, Tokyo, Giappone (1972-2022)
L’opera ad uso misto (residenziale e terziario) era uno degli esempi più rappresentativi del movimento Metabolista giapponese che vedeva nella città e nella società organismi viventi in continua crescita e trasformazione, alle cui necessità solo la tecnologia poteva dare risposte concrete. Il complesso era composto due torri collegate fra loro che contenevano 140 capsule prefabbricate e autonome, ciascuna sostituibile ogni 25 anni. Fortemente degradato nel corso degli anni, è stato demolito a causa degli elevati oneri di recupero.
Alison & Peter Smithson, Robin Hood Gardens, Londra 1972, Regno Unito (1972-2017)
Il mastodontico complesso in cemento prefabbricato era composto da due edifici di 10 e 7 piani, per complessivi 213 appartamenti. Concepito come manifesto di edilizia sociale progressista in opposizione alle rigidità del Movimento Moderno, il progetto degli Smithson sviluppava il tema della residenza collettiva in stretto collegamento con quello dello spazio pubblico (dal vasto spazio aperto centrale ai percorsi distributivi in quota) inteso come fulcro essenziale di vita comunitaria e socialità. Nonostante voci autorevoli si siano alzate per scongiurarne lo smantellamento dovuto all’avanzato stato di degrado, l’opera è stata demolita: in occasione della 16. Mostra internazionale di architettura, il Victoria and Albert Museum di Londra ha esposto presso il Padiglione delle Arti Applicate un frammento di una facciata del complesso.
Bertrand Goldberg, Prentice Women's Hospital and Maternity Center, Chicago, USA (1973-2013)
Il complesso brutalista era caratterizzato da una torre a quadrifoglio in cemento armato di 9 piani con finestre ovali, collocata a sbalzo su un corpo rettangolare di 5 piani. Utilizzata come centro di maternità, con le postazioni mediche nel nucleo centrale e i reparti per i pazienti nei quattro lobi, la complessa struttura curvilinea è entrata nella storia dell'edilizia grazie all'uso delle prime tecniche di progettazione assistita dal computer. L'edificio è stato raso al suolo nel 2013 quando i proprietari, la Northwestern University, hanno avuto necessità di insediare nell’area nuove strutture di ricerca medica.
Minoru Yamasaki, World Trade Center, New York, USA (1973-2001)
Con 417m e 415m di altezza, le torri gemelle erano gli edifici più alti del mondo quando furono inaugurate. Il complesso, costruito con l'obiettivo di rivitalizzare Lower Manhattan, ispirava all'esposizione della Fiera Mondiale di New York del 1939, chiamata World Trade Center, sulla base di un’idea di pace globale perseguibile attraverso il commercio (visione difficilmente concretizzabile e drasticamente disattesa dalla storia). La vicenda della loro distruzione, a causa dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, è tristemente nota.
Oma, Netherlands Dance Theater, The Hague, Paesi Bassi (1987-2015)
Il complesso nel centro dell’Aia, in un’area in forte trasformazione, ospitava oltre al teatro di danza progettato da Oma, anche una sala concerti e un hotel disegnati da altri progettisti. Il teatro era suddiviso in tre zone programmatiche parallele: lo spazio del palcoscenico e dell'auditorium da 1.001 posti; l’area centrale con gli studi di prova; la zona degli uffici, camerini e sale comuni dei ballerini. Il teatro aveva una struttura di travi e putrelle d'acciaio, con rivestimento metallico in lamiera ricoperta di stucco, marmo e lamine d'oro. Il tetto aveva una struttura autoportante costituita da un doppio strato di lamiera d'acciaio.
Joseph Paxton, Crystal Palace, Londra, Gran Bretagna (1851-1936)
Costruito nell’ambito dell’Esposizione Universale di Londra del 1851 per esaltare le qualità delle tecnologie emergenti in vetro e acciaio, il Padiglione era originariamente installato ad Hyde Park, per poi essere trasferito in un’altra zona della città. Distrutto da un incendio nel 1936, ispirò molti altri edifici che facevano della leggerezza e della trasparenza un plusvalore a dispetto delle ingombranti architetture del passato.
Victor Horta, La Maison du Peuple, Bruxelles, Belgio (1896 -1965)
Il complesso in stile Art Nouveau, commissionato dal Partito dei lavoratori belgi, era distribuito su quattro piani in un lotto irregolare e si caratterizzava per la massima funzionalità e sobrietà a livello ornamentale (differentemente da altre realizzazioni di Horta). L'edificio fu demolito nel 1965 e rimpiazzato da un grattacielo, non senza polemiche di fronte a ciò che venne considerato un vero e proprio crimine architettonico.
Ernest Flag, Singer Building, New York, USA (1899-1969)
L’edificio che ospitava la sede della Singer Manufacturing Company, famosa casa produttrice di macchine per cucire, con i suoi 187m e 47 piani è stato negli anni successivi alla sua costruzione il più alto del mondo e un landmark fortemente riconosciuto a Manhattan. A nulla sono valsi gli sforzi della comunità per farlo riconoscere “historical landmark”: è stato demolito alla fine degli anni ‘60 e rimpiazzato dall’attuale One Liberty Plaza.
McKim, Mead & White, Pensylvania Station, New York, USA (1910-1963)
L’edificio in stile Beaux Arts, originariamente un nodo nevralgico nella New York del primo Novecento e punto di riferimento per la comunità, fu demolito nel 1963 a causa del calo dei flussi di transito ferroviario. Al suo posto, Madison Square Garden e l'attuale versione della Penn Station.
Frank Lloyd Wright, Imperial Hotel, Tokyo, Giappone (1923-1967)
Il complesso fu progettato dal maestro dell’architettura organica, qui ancora influenzato dal revivalismo Maya sperimentato negli stessi anni anche in Ennis House a Los Angeles. Sopravvissuto a terremoti, l’edificio provato dal tempo è stato demolito nel 1963 per fare posto alla terza versione dell’hotel.
Le Corbusier, Padiglione dell’Esprit Nouveau, Parigi, Francia 1925
Il Padiglione, ideato per l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi del 1925, era il prototipo a scala reale di un alloggio standardizzato composto da elementi prodotti in serie, che mirava a promuovere i benefici di tecnologie efficienti ed economiche per fare fronte al fabbisogno di alloggi e all’esigenza di qualità abitativa nelle città. Fu ampiamente osteggiato dagli organizzatori della manifestazione che tentarono di occultarlo per il messaggio dirompente, rivoluzionario e in esplicito contrasto con l’Art Déco che l’Expo rappresentava. Decenni dopo lo smantellamento, nel 1977 è stata ricostruita una copia fedele a Bologna, che oggi ospita una sede espositiva.
Minoru Yamasaki, Pruitt-Igoe, Saint Louis, USA (1955-1974)
Il grande progetto urbanistico di edilizia popolare fu concepito per soddisfare la pressante esigenza abitativa della città negli anni del dopo-guerra. Nel periodo immediatamente successivo alla costruzione, le condizioni di vita nel complesso cominciarono lentamente a decadere in un profondo degrado socio-economico e ambientale. La demolizione dei 33 mastodontici edifici avvenne tra il 1972 e il 1974 e fu accompagnata da un dibattito intenso sulle politiche pubbliche di edilizia sociale che vedevano nel complesso abitativo un evidente simbolo di fallimento nazionale. Quella del Pruitt-Igoe è stata una delle prime demolizioni di edifici di architettura moderna ed è stata definita dal teorico e storico dell'architettura Charles Jencks come “il giorno in cui l'architettura moderna è morta”.
Richard Neutra, Gettysburg Cyclorama, Gettysburg, Pensylvania, USA (1958-2013)
Progettato da uno dei padri del modernismo californiano, il centro visitatori nel sito della battaglia di Pickett's Charge durante la Guerra Civile Americana del 1863 ospitava un ciclorama del 1883 di Paul Philippoteaux e un ponte di osservazione. A causa degli elevati oneri per la manutenzione e il restauro, l’edificio è stato i demolito, nonostante le pubbliche proteste e il fatto che fosse considerato un luogo di eccezionale importanza storica ed architettonica.
Angelo Bianchetti, Autogrill Pavesi, Montepulciano, Siena, Italia (1967-2021)
Nell’epoca del boom economico in cui l’Italia guardava al futuro con ottimismo e la libertà sfrecciava su quattro ruote sulle orme dell’ American way of life, l’autogrill a ponte Pavesi tra i caselli Bettolle-Valdichiana e Chiusi-ChiancianoTerme era un punto di riferimento per turisti, vacanzieri e pendolari che qui assaporavano un momento di relax. Autostrade per l’Italia lo sostituisce con due torrette, più funzionali, meno poetiche. Memoria di un passato un po' ingenuo e felicemente sognante che difficilmente tornerà.
Miguel Fisac, Laboratorios Jorba, Madrid, Spagna (1970-1999)
L’edificio alle porte di Madrid era un esempio di equilibrio tra leggerezza e matericità: l’articolazione dei piani, sfalsati tra loro di 45 gradi, suggeriva l’immagine di un tempio asiatico (l’edificio era comunemente denominato “la Pagoda”) mentre l’impiego virtuosistico del cemento grezzo con tracce delle cassaforme in legno strizzava l’occhio al Brutalismo. Non riconosciuto come bene storico da tutelare, fu demolito nel 1999 per lasciare spazio a nuovo fabbricato terziario.
Kisho Kurokawa, Nakagin Capsule Tower Building, Tokyo, Giappone (1972-2022)
L’opera ad uso misto (residenziale e terziario) era uno degli esempi più rappresentativi del movimento Metabolista giapponese che vedeva nella città e nella società organismi viventi in continua crescita e trasformazione, alle cui necessità solo la tecnologia poteva dare risposte concrete. Il complesso era composto due torri collegate fra loro che contenevano 140 capsule prefabbricate e autonome, ciascuna sostituibile ogni 25 anni. Fortemente degradato nel corso degli anni, è stato demolito a causa degli elevati oneri di recupero.
Alison & Peter Smithson, Robin Hood Gardens, Londra 1972, Regno Unito (1972-2017)
Il mastodontico complesso in cemento prefabbricato era composto da due edifici di 10 e 7 piani, per complessivi 213 appartamenti. Concepito come manifesto di edilizia sociale progressista in opposizione alle rigidità del Movimento Moderno, il progetto degli Smithson sviluppava il tema della residenza collettiva in stretto collegamento con quello dello spazio pubblico (dal vasto spazio aperto centrale ai percorsi distributivi in quota) inteso come fulcro essenziale di vita comunitaria e socialità. Nonostante voci autorevoli si siano alzate per scongiurarne lo smantellamento dovuto all’avanzato stato di degrado, l’opera è stata demolita: in occasione della 16. Mostra internazionale di architettura, il Victoria and Albert Museum di Londra ha esposto presso il Padiglione delle Arti Applicate un frammento di una facciata del complesso.
Bertrand Goldberg, Prentice Women's Hospital and Maternity Center, Chicago, USA (1973-2013)
Il complesso brutalista era caratterizzato da una torre a quadrifoglio in cemento armato di 9 piani con finestre ovali, collocata a sbalzo su un corpo rettangolare di 5 piani. Utilizzata come centro di maternità, con le postazioni mediche nel nucleo centrale e i reparti per i pazienti nei quattro lobi, la complessa struttura curvilinea è entrata nella storia dell'edilizia grazie all'uso delle prime tecniche di progettazione assistita dal computer. L'edificio è stato raso al suolo nel 2013 quando i proprietari, la Northwestern University, hanno avuto necessità di insediare nell’area nuove strutture di ricerca medica.
Minoru Yamasaki, World Trade Center, New York, USA (1973-2001)
Con 417m e 415m di altezza, le torri gemelle erano gli edifici più alti del mondo quando furono inaugurate. Il complesso, costruito con l'obiettivo di rivitalizzare Lower Manhattan, ispirava all'esposizione della Fiera Mondiale di New York del 1939, chiamata World Trade Center, sulla base di un’idea di pace globale perseguibile attraverso il commercio (visione difficilmente concretizzabile e drasticamente disattesa dalla storia). La vicenda della loro distruzione, a causa dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, è tristemente nota.
Oma, Netherlands Dance Theater, The Hague, Paesi Bassi (1987-2015)
Il complesso nel centro dell’Aia, in un’area in forte trasformazione, ospitava oltre al teatro di danza progettato da Oma, anche una sala concerti e un hotel disegnati da altri progettisti. Il teatro era suddiviso in tre zone programmatiche parallele: lo spazio del palcoscenico e dell'auditorium da 1.001 posti; l’area centrale con gli studi di prova; la zona degli uffici, camerini e sale comuni dei ballerini. Il teatro aveva una struttura di travi e putrelle d'acciaio, con rivestimento metallico in lamiera ricoperta di stucco, marmo e lamine d'oro. Il tetto aveva una struttura autoportante costituita da un doppio strato di lamiera d'acciaio.
Se talvolta palle da demolitore e mine esplosive sono accolte con sollievo da parte di chi coglie in una specifica opera costruita uno sfregio al decoro urbano o alla dignità umana (basti pensare alle vituperate Vele di Scampia), capita anche che la distruzione di un’architettura avvenga con profondo rammarico al di là del giudizio estetico kantiano del “bello” o di altri parametri valutativi soggettivistici. Continua leggere
03
15 opere di arte pubblica che sono il simbolo di una città
Frédéric Auguste Bartholdi, Statua della Libertà, New York, USA 1886
Donata dai francesi per celebrare l’indipendenza americana, con i suoi 93 m di altezza la Statua della Libertà domina l’intera baia di Manhattan dal 1886: fino dai tempi in cui appariva, per molti migranti, come il primo “volto” degli Stati Uniti d’America, l’iconico monumento è diventato non solo il simbolo della città ma anche della possibilità di realizzare i propri sogni.
Paul Landowski, Heitor da Silva Costa, Gheorghe Leonida, Albert Irenée Caquot, Cristo Redentore, Rio de Janeiro, Brasile 1931
La statua in pietra saponaria alta 38 m che si erge dalla cima del Corcovado è per antonomasia “il” simbolo di Rio de Janeiro e dell’intero paese: raffigura Gesù Cristo a braccia aperte e tese che abbraccia in un gesto ideale l’intera città, redimendo l’umanità.
Paul Landowski, Heitor da Silva Costa, Gheorghe Leonida, Albert Irenée Caquot, Cristo Redentore, Rio de Janeiro, Brasile 1931
Lim Nang Seng, Merlion, Singapore, 1972
Situata nel vivace Merlion Park, la scultura alta 8,6 m che sputa acqua rappresenta il Merlion, una creatura mitica con la testa di leone e il corpo di pesce considerata come la mascotte e il simbolo nazionale di Singapore. Poco più lontano, si colloca una seconda statua alta 2m, che raffigura un cucciolo (sempre di Merlion, ovviamente).
Luis Barragán, Mathias Goeritz, Torres de Satélite, Naucalpan de Juárez, Messico 1958
Le cinque torri prismatiche in cemento, dalle altezze variabili (fino a 52 m) e dai colori sgargianti sono una efficace sintesi di architettura e scultura: originariamente ideati come una fontana alle porte del comparto urbano di Ciudad Satélite, alle porte di Città del Messico, ancora oggi questi “aghi” conficcati nel cielo sono un potente landmark territoriale.
Robert Indiana, LOVE, Philadelphia, USA 1976
Nel parco dedicato a John Fitzgerald Kennedy nel cuore di Philadelphia, la scultura in rosso acceso e di forma ammiccante è stata ideata per celebrare, nel luogo della loro fondazione, la nascita degli Stati Uniti d’America e lo spirito della “città dell’amore fraterno”.
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, San Sebastián, Spagna 1977
Alla punta estrema ovest della Bahia de la Concha si situa una delle composizioni più note di Chillida e fortemente rappresentativa della città: El Peine del Viento, un insieme scultoreo composto da terrazze di granito rosa e da tre elementi di ferro arrugginito incastonate sugli scogli, intesi come un tutt’uno con il vento, l’acqua e le onde. Nelle giornate molto ventose, l’aria passa attraverso un sistema di tubi emettendo un suono magico e surreale.
Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle, Fontaine des Automates, Parigi, Francia 1983
Collocata nella piazza Igor Stravinsky nei pressi del Centre Georges Pompidou, la gioiosa fontana composta da un bacino di 580 mq e da 16 colorate sculture in alluminio che si muovono grazie ai getti d’acqua è una piacevole attrattiva per adulti e bambini.
Jeff Koons, Puppy, Bilbao, Spagna 1997
In piena linea con il linguaggio espressivo di Koons, il monumentale cucciolo di West Highland terrier situato di fronte al museo Guggenheim e ricoperto di petunie, calendule e begonie su una struttura di acciaio inossidabile fa del kitsch un efficace strumento di marketing. Oltre che di Bilbao è simbolo, secondo l’artista - di “amore, calore e felicità”.
Alvar Gullichsen, Posanka, Turku, Finlandia 1999
La statua, collocata vicino all'area del campus dell'Università di Turku e del Turku Student Village,è un ibrido tra un maiale di marzapane ("possu") e una papera di gomma ("ankka"): ogni inverno, la tradizione vuole che le venga messo un cappello di Babbo Natale e nella Notte di Valpurga un berretto da studente, per celebrare giocosamente il ritorno della primavera e lo spirito (goliardico?) del luogo.
Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen, Ago, filo e nodo, Milano 2000
Nell’ambito del progetto di riqualificazione della Stazione Cadorna e della piazza circostante su progetto di Gae Aulenti del 1997, la scultura è intesa come un monumento celebrativo di Milano: dall’allusione ai colori delle linee della metropolitana, alle forme dello stemma della città, agli strumenti “sartoriali” e creativi da cui origina la “capitale della moda”.
Anish Kapoor, Cloud Gate, Chicago, USA 2006
Situata al centro della AT&T Plaza nel Millennium Park, la scultura a forma di fagiolo rivestito da 168 lastre di acciaio inossidabile, senza saldature esternamente visibili,si ispira alla consistenza fluida del mercurio: la superficie riflettente distorce lo skyline della città e moltiplica i giochi di riflessi, captando l’attenzione e la curiosità di chi vi passa sotto e intorno.
Maurizio Cattelan, L.O.V.E., Milano, Italia 2010
La dissacrante opera in marmo di Carrara alta 11 m che campeggia di fronte alla sede della Borsa, con la grande mano a dita mozzate tranne il medio, è un gesto irriverente rivolto al potere finanziario. L’acronimo che la intitola significa non “amore”, come si potrebbe pensare, ma “Libertà, Odio, Vendetta, Eternità”.
Edoardo Tresoldi, Opera, Reggio Calabria, Italia 2020
L'installazione permanente sul lungomare di Reggio Calabria, attraversabile e completamente fruibile da cittadini e visitatori, è caratterizzata da una macroscopica struttura in rete metallica ed è un omaggio al rapporto contemplativo tra l’individuo e il paesaggio, qui evocato attraverso un linguaggio architettonico classico e trasparenze materiche.
Anish Kapoor, Scultura nella metro Monte S. Angelo, Napoli, Italia 2022
La gigantesca scultura a forma di imbuto rovesciato in acciaio situata all’uscita della stazione di Monte Sant’Angelo completa l’installazione ideata circa vent’anni fa da Kapoor e composta da un’altra opera posizionata all’ingresso principale. L’intento dell’artista è creare un’opera d’arte che non sia solo contemplativa ma di cui fare esperienza attiva, passandoci attraverso e vivendola.
Sculture urbane, Jeddah, Arabia Saudita
Grazie alla visione lungimirante dei suoi amministratori, tra gli anni ‘70 e ‘80 Jeddah ha attivato un processo di sviluppo urbano con, al centro, l’arte contemporanea: oltre 600 sculture, commissionate ai più grandi artisti di fama internazionale – tra cui Arnaldo Pomodoro, Henry Moore, Alexander Calder,… - sono state posizionate in piazze, strade e rotatorie con l’obiettivo di evocare un senso di meraviglia e porre i riflettori sulla città come luogo di cultura e innovazione artistica.
Peeing statues, Bruxelles, Belgio
Le tre “statue che fanno pipì” - Manneken Pis (1619), la sua sorellina Jeanneke Pis (1985) e il cagnolino Het Zinneke (1998) - formano un monumento iconico della città. Le opere, collocate ai vertici di un immaginario triangolo nel centro storico, si rifanno ad un immaginario espressivo - quello della figura che urina - che evoca i concetti di fantasia, innocenza e spavalderia e, in questo caso, anche i valori di accoglienza della città e la sua capacità di interscambio e di integrazione.
Frédéric Auguste Bartholdi, Statua della Libertà, New York, USA 1886
Donata dai francesi per celebrare l’indipendenza americana, con i suoi 93 m di altezza la Statua della Libertà domina l’intera baia di Manhattan dal 1886: fino dai tempi in cui appariva, per molti migranti, come il primo “volto” degli Stati Uniti d’America, l’iconico monumento è diventato non solo il simbolo della città ma anche della possibilità di realizzare i propri sogni.
Paul Landowski, Heitor da Silva Costa, Gheorghe Leonida, Albert Irenée Caquot, Cristo Redentore, Rio de Janeiro, Brasile 1931
La statua in pietra saponaria alta 38 m che si erge dalla cima del Corcovado è per antonomasia “il” simbolo di Rio de Janeiro e dell’intero paese: raffigura Gesù Cristo a braccia aperte e tese che abbraccia in un gesto ideale l’intera città, redimendo l’umanità.
Paul Landowski, Heitor da Silva Costa, Gheorghe Leonida, Albert Irenée Caquot, Cristo Redentore, Rio de Janeiro, Brasile 1931
Lim Nang Seng, Merlion, Singapore, 1972
Situata nel vivace Merlion Park, la scultura alta 8,6 m che sputa acqua rappresenta il Merlion, una creatura mitica con la testa di leone e il corpo di pesce considerata come la mascotte e il simbolo nazionale di Singapore. Poco più lontano, si colloca una seconda statua alta 2m, che raffigura un cucciolo (sempre di Merlion, ovviamente).
Luis Barragán, Mathias Goeritz, Torres de Satélite, Naucalpan de Juárez, Messico 1958
Le cinque torri prismatiche in cemento, dalle altezze variabili (fino a 52 m) e dai colori sgargianti sono una efficace sintesi di architettura e scultura: originariamente ideati come una fontana alle porte del comparto urbano di Ciudad Satélite, alle porte di Città del Messico, ancora oggi questi “aghi” conficcati nel cielo sono un potente landmark territoriale.
Robert Indiana, LOVE, Philadelphia, USA 1976
Nel parco dedicato a John Fitzgerald Kennedy nel cuore di Philadelphia, la scultura in rosso acceso e di forma ammiccante è stata ideata per celebrare, nel luogo della loro fondazione, la nascita degli Stati Uniti d’America e lo spirito della “città dell’amore fraterno”.
Eduardo Chillida, El Peine del Viento, San Sebastián, Spagna 1977
Alla punta estrema ovest della Bahia de la Concha si situa una delle composizioni più note di Chillida e fortemente rappresentativa della città: El Peine del Viento, un insieme scultoreo composto da terrazze di granito rosa e da tre elementi di ferro arrugginito incastonate sugli scogli, intesi come un tutt’uno con il vento, l’acqua e le onde. Nelle giornate molto ventose, l’aria passa attraverso un sistema di tubi emettendo un suono magico e surreale.
Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle, Fontaine des Automates, Parigi, Francia 1983
Collocata nella piazza Igor Stravinsky nei pressi del Centre Georges Pompidou, la gioiosa fontana composta da un bacino di 580 mq e da 16 colorate sculture in alluminio che si muovono grazie ai getti d’acqua è una piacevole attrattiva per adulti e bambini.
Jeff Koons, Puppy, Bilbao, Spagna 1997
In piena linea con il linguaggio espressivo di Koons, il monumentale cucciolo di West Highland terrier situato di fronte al museo Guggenheim e ricoperto di petunie, calendule e begonie su una struttura di acciaio inossidabile fa del kitsch un efficace strumento di marketing. Oltre che di Bilbao è simbolo, secondo l’artista - di “amore, calore e felicità”.
Alvar Gullichsen, Posanka, Turku, Finlandia 1999
La statua, collocata vicino all'area del campus dell'Università di Turku e del Turku Student Village,è un ibrido tra un maiale di marzapane ("possu") e una papera di gomma ("ankka"): ogni inverno, la tradizione vuole che le venga messo un cappello di Babbo Natale e nella Notte di Valpurga un berretto da studente, per celebrare giocosamente il ritorno della primavera e lo spirito (goliardico?) del luogo.
Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen, Ago, filo e nodo, Milano 2000
Nell’ambito del progetto di riqualificazione della Stazione Cadorna e della piazza circostante su progetto di Gae Aulenti del 1997, la scultura è intesa come un monumento celebrativo di Milano: dall’allusione ai colori delle linee della metropolitana, alle forme dello stemma della città, agli strumenti “sartoriali” e creativi da cui origina la “capitale della moda”.
Anish Kapoor, Cloud Gate, Chicago, USA 2006
Situata al centro della AT&T Plaza nel Millennium Park, la scultura a forma di fagiolo rivestito da 168 lastre di acciaio inossidabile, senza saldature esternamente visibili,si ispira alla consistenza fluida del mercurio: la superficie riflettente distorce lo skyline della città e moltiplica i giochi di riflessi, captando l’attenzione e la curiosità di chi vi passa sotto e intorno.
Maurizio Cattelan, L.O.V.E., Milano, Italia 2010
La dissacrante opera in marmo di Carrara alta 11 m che campeggia di fronte alla sede della Borsa, con la grande mano a dita mozzate tranne il medio, è un gesto irriverente rivolto al potere finanziario. L’acronimo che la intitola significa non “amore”, come si potrebbe pensare, ma “Libertà, Odio, Vendetta, Eternità”.
Edoardo Tresoldi, Opera, Reggio Calabria, Italia 2020
L'installazione permanente sul lungomare di Reggio Calabria, attraversabile e completamente fruibile da cittadini e visitatori, è caratterizzata da una macroscopica struttura in rete metallica ed è un omaggio al rapporto contemplativo tra l’individuo e il paesaggio, qui evocato attraverso un linguaggio architettonico classico e trasparenze materiche.
Anish Kapoor, Scultura nella metro Monte S. Angelo, Napoli, Italia 2022
La gigantesca scultura a forma di imbuto rovesciato in acciaio situata all’uscita della stazione di Monte Sant’Angelo completa l’installazione ideata circa vent’anni fa da Kapoor e composta da un’altra opera posizionata all’ingresso principale. L’intento dell’artista è creare un’opera d’arte che non sia solo contemplativa ma di cui fare esperienza attiva, passandoci attraverso e vivendola.
Sculture urbane, Jeddah, Arabia Saudita
Grazie alla visione lungimirante dei suoi amministratori, tra gli anni ‘70 e ‘80 Jeddah ha attivato un processo di sviluppo urbano con, al centro, l’arte contemporanea: oltre 600 sculture, commissionate ai più grandi artisti di fama internazionale – tra cui Arnaldo Pomodoro, Henry Moore, Alexander Calder,… - sono state posizionate in piazze, strade e rotatorie con l’obiettivo di evocare un senso di meraviglia e porre i riflettori sulla città come luogo di cultura e innovazione artistica.
Peeing statues, Bruxelles, Belgio
Le tre “statue che fanno pipì” - Manneken Pis (1619), la sua sorellina Jeanneke Pis (1985) e il cagnolino Het Zinneke (1998) - formano un monumento iconico della città. Le opere, collocate ai vertici di un immaginario triangolo nel centro storico, si rifanno ad un immaginario espressivo - quello della figura che urina - che evoca i concetti di fantasia, innocenza e spavalderia e, in questo caso, anche i valori di accoglienza della città e la sua capacità di interscambio e di integrazione.
Se nei secoli l’arte pubblica si è prevalentemente identificata con il “monumento” inteso come strumento agiografico, a partire dal XX secolo ha cominciato ad abbandonare le velleità celebrative per perseguire obiettivi più generalmente comunicativi e correlati al contesto di riferimento. Insediandosi nel tessuto urbano, le opere d’arte pubblica site specific – progettate in relazione ad una precisa realtà ambientale e socio-culturale – hanno determinato un risultato bivalente: da un lato, hanno consentito alla cultura di scivolare via dalle teche dei musei e penetrare, a beneficio di pubblico più ampio (anche se a volte inconsapevole o sospettoso), nelle piazze e nelle strade; dall’altro, sono state in grado di impattare considerevolmente sul processo di costruzione o rafforzamento dell’identità di un luogo e della sua riconoscibilità, tanto da diventare “simboli” di quella città. Continua a leggere
04
Brutalismo in Italia, 20 architetture che devi conoscere
Vittoriano Viganò, Istituto Marchiondi, Baggio, Milano 1957
Il complesso, considerato un capolavoro dell'architettura brutalista a livello internazionale e oggi in stato di degrado, è composto da quattro nuclei edilizi principali orientati secondo un asse est-ovest e immersi in un parco, che ospitano le diverse aree funzionali: uffici e direzione, convitto per gli studenti, il corpo per i docenti e un centro scolastico. L’impianto planivolumetrico è caratterizzato da una rigorosa scansione modulare, enfatizzata dalla struttura in cemento a vista a passo costante. Particolarmente rilevante risulta la scelta compiuta dall’architetto, d’accordo con gli educatori dell'Istituto, di di articolare su due livelli i quartieri abitativi..
Antonio Guacci, Santuario mariano di Monte Grisa, Trieste 1965
Situato a una quota di 330 m sul monte Grisa, il santuario è soprannominato dai triestini il "formaggino" per la sua forma triangolare. Il complesso, da cui si coglie una vista spettacolare della città, è caratterizzato dall'imponenza della struttura in cemento armato a vista e dal diverso spirito delle due chiese sovrapposte che lo compongono: la chiesa superiore luminosa e trasparente, scandita dai moduli triangolari della facciata, e quella inferiore definita da lame di luce in sequenza.
Enrico Castiglioni e Carlo Fontana, Istituto statale di istruzione superiore Cipriano Facchinetti, Castellanza, Varese 1965
“Questo edificio ha introdotto nell'edilizia scolastica – forse per la prima volta in Italia – l'identificazione dell'architettura con la struttura, in questo caso molto complessa nel sistema delle volte”: così Castiglioni descriveva la sua opera, ritenuta da Nikolaus Pevsner uno dei migliori esempi di architettura brutalista e, secondo la critica, non priva di riferimenti all’espressionismo di Poelzig e Mendelsohn (dalla drammatizzazione delle forme, al disegno delle aperture). Il complesso è composto da due volumi in linea – uno dei quali arcuato in pianta e in facciata – di tre piani fuori terra, disposti su una piastra scandita da una sequenza di shed curvilinei prefabbricati in cemento armato, che contiene le funzioni comuni. Il fronte è scandito da setti sagomati e vetrate in ferro-finestra che si incurvano plasticamente verso la sommità.
Arrigo Arrighetti, Chiesa S. Giovanni Bono, Milano 1968
La chiesa si inserisce nel contesto distaccandosi apertamente dall’edilizia residenziale circostante, grazie al suo marcato andamento ascensionale. Il fronte, raddoppiato nell’immagine riflessa dalla vasca antistante, è formato da un unico triangolo allungato in cemento a vista traforato da finestre colorate, ricorda da un lato le guglie gotiche e dall’altro suggerisce l’idea di una tenda piantata nel quartiere. La struttura è composta da muri in cemento armato con travi in acciaio che sorreggono la copertura, oggi in lamiera di alluminio porcellanato dopo che un incendio ha distrutto quella originaria in materiale plastico. A fianco della chiesa si situano gli edifici parrocchiali e le residenze del clero, distribuiti a semicerchio attorno a un giardino.
Giuseppe Perugini, Uga De Plaisant e Raynaldo Perugini, Casa Sperimentale, Fregene, Roma 1969
Ridurre la cosiddetta Casa Albero a semplice residenza estiva sarebbe riduttivo, perché l’opera progettata da una famiglia di architetti (padre, madre e figlio) per se stessi non è soltanto una casa al mare ma un esempio di sperimentazione di un nuovo linguaggio architettonico in ambito abitativo. L’opera è stata concepita come work in progress continuamente trasformabile, fermo restando il dialogo costante con la natura. Il complesso è formato da tre edifici di tipologia diversa: la casa, con struttura modulare ripetibile, in calcestruzzo grezzo, vetro e acciaio tinto di rosso; la palla, una sfera di 5 metri di diametro concepita come appendice esterna alla casa; i tre cubetti, moduli spaziali cubici intervallati da semi-moduli contenenti i servizi, camera da letto, soggiorno e cucina, in meno di 40 metri quadrati.
Francesco Berarducci, villino in via Colli della Farnesina 144, Roma 1969
Il villino affacciato su una collina del parco urbano di Monte Mario è caratterizzato da una maglia strutturale in cemento armato a vista composta da pilastri a C e travi che scandiscono l’impianto plani-volumetrico e ritmano i prospetti, dove tamponamenti compatti e chiusi dialogano con le vetrate dei fronti principali. L’opera è stata sfondo per alcune scene del film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri.
Vinicio Vecchi, Complesso R-Nord, Modena 1970
Situato nella fascia a nord della ferrovia in una zona che dal dopoguerra è diventata l’area di espansione delle attività industriali e commerciali della città, il complesso polifunzionale nasce per ospitare, oltre ai servizi e alle attività commerciali, miniappartamenti destinati ai lavoratori del Mercato Bestiame. Il monolitico fabbricato, caratterizzato da una marcata orizzontalità accentuata dall’alternanza di piani in cemento armato con quelli ad intonaco di colore mattone scuro, è presto diventato un epicentro di degrado e criminalità. A partire dagli inizi del 2000, il complesso è stato oggetto di un intervento di rigenerazione finalizzato non solo a sanare il degrado fisico ma anche a far fronte alla radicata conflittualità sociale della zona: il progetto ha previsto la revisione dimensionale degli alloggi per garantirne una migliore fruibilità, l’insediamento di associazioni culturali, formative e di servizi, la riqualificazione degli spazi pubblici esterni.
Banca d’Italia, Catania 1970
L’edificio è caratterizzato da un volume di forte impatto monumentale, a simboleggiare il carattere istituzionale della costruzione. Il fronte interamente in calcestruzzo si anima ai vari livelli in un drammatico gioco di luci ed ombre, attraverso la ritmica serrata della struttura a vista di pilastri e travi in calcestruzzo: dilatata ai primi due livelli, dove pilastri ciclopici scandiscono il porticato; serrata ai due piani successivi; marcata da aggetti e rientranze a quelli superiori.
Carlo Graffi, Sergio Musmeci, Villa Gontero, Piemonte, 1971
La casa per un imprenditore piemontese nel settore dei cementi è un omaggio appassionato al calcestruzzo, gettato in opera in cassaforme lignee per travi e solette e impiegato in blocchi di cemento Vibramac per gli involucri. L’andamento a gradoni del volume, sorretto nella parte centrale da una struttura circolare in cemento armato che racchiude una scala a chiocciola in ferro, crea un giocoso contrasto tra la gravità delle masse ed il loro distaccarsi disinvoltamente dal suolo. I serramenti dai toni accesi gettano vivaci pennellate sui prospetti ruvidi e grigi.
Sir Basil Spence, Sede dell’Ambasciata Britannica, Roma 1971
L’edificio concilia il brutalismo di matrice anglosassone del progettista con il contesto storico della Porta Pia michelangiolesca: il complesso è caratterizzato da volumi in cemento armato rivestiti da pannelli in travertino che cercano un dialogo con la cromia delle mura Aureliane e che si alternano a superfici vetrate con infissi di alluminio di colore bronzo scuro.
Piero Sartogo, Sede dell'Ordine dei Medici in via Giovanni Battista de Rossi, Roma 1972
L’ edificio si staglia con il suo carattere provocatorio e dirompente nel Quartiere Nomentano, in contrasto con la composta uniformità dei villini e delle palazzine novecentesche circostanti. La costruzione, connotata da una sequenza di volumi sovrapposti e aggettanti, evoca l’immagine di un albero che espande i suoi rami nel cielo. La struttura rivela all’esterno la ripartizione funzionale interna: il basamento cubico a due livelli interrati, leggibili dalla strada, con l’auditorium e la biblioteca, il garage, l’archivio e la tipografia; il piano terra con l’atrio di accesso e la grande sala dell’albo, riconoscibile dalle vetrate a tutta altezza su due piani; il piano primo con la sala riunioni, a sbalzo rispetto all’ingresso; i due piani superiori, che ospitano uffici, segnalati da una fascia marcapiano in lastra continua che rimarca il cambio di funzione.
Saverio Busiri Vici, villa Ronconi, Roma 1973
La costruzione è un manifesto brutalista, riconoscibile come tale nell’utilizzo virtuosistico e plastico del calcestruzzo, nella forza espressiva delle superfici ruvide segnate dalle cassaforme lignee e nell’articolazione drammatica e vibrante delle masse strutturali, in una serrata dialettica tra chiari e scuri. Oggi prepotentemente trasfigurata nello spirito, resta il ricordo dell’architettura originaria, e con essa di una visione progettuale che sapeva guardare all’essenza senza tradire qualità e raffinatezza di composizione.
Marco Zanuso e Pietro Crescini, Residence Porta Nuova (Gioiaotto), Milano 1973
Il complesso polifunzionale originariamente denominato Residence Porta Nuova è un segno rappresentativo dell’attività architettonica degli anni settanta a Milano, fortemente consolidato nella memoria storica della città. La struttura in cemento armato è connotata da una forte scansione orizzontale dove le fasce marcapiano in cemento prefabbricato delimitano i curtain walls continui in acciaio e vetro. Lo studio Park associati ha realizzato recentemente un intervento di retrofitting che ha saputo interpretare con correttezza filologica il linguaggio originario, senza rinunciare ad un cura meticolosa del dettaglio contemporaneo. Gioiaotto è stato il primo edificio certificato LEED Platinum a Milano.
Amedeo Albertini, Centro Congressi Regione Piemonte, Corso Stati Uniti, Torino 1973
Il Palazzo dei Congressi della Regione Piemonte, in origine Federagrario e centro incontri CRT, in Corso Stati Uniti era un imponente edificio di 8 piani con destinazione uffici e sala congressi, composto da due blocchi simmetrici tripartiti in facciata: un basamento trasparente leggermente arretrato rispetto alla facciata, uno sviluppo verticale del fronte disegnato dal contrasto tra il calcestruzzo dei marcapiani e le finestre a fascia; la sommità vetrata e arretrata. La vistosa struttura portante in cemento armato con travi giganti sostenute da pilastri cilindrici evoca le mega-strutture di Kenzo Tange. Nel 2021 è stato venduto a un gruppo di investitori privati ed oggi è stato demolito, per lasciare posto ad una nuova costruzione.
Giancarlo De Carlo, Quartiere Matteotti, Terni 1969 - 1975
Il quartiere, commissionato dalla società Terni Acciaierie in sostituzione del precedente villaggio operaio allo scopo di aumentare la densità abitativa del comparto, e solo in parte realizzato, è composto da quattro corpi di fabbrica in calcestruzzo a tre piani, con volumetrie articolate a gradoni che ospitano 240 alloggi, terrazze comuni e giardini pensili. L’intervento è stato oggetto di un percorso partecipativo di portata storica che ha visto coinvolti i progettisti, i committenti, gli abitanti chiamati ad esplicitare la propria voce, tra cui l’esigenza di spazi verdi pubblici e privati, di luoghi per la vita sociale e di separazione tra flussi di veicoli e pedoni.
Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Monte Amiata, Milano, 1967-1974
Il “dinosauro rosso”, così definito per la struttura ciclopica, la forma insolita e il colore delle facciate, è un complesso residenziale nel quartiere Gallaratese concepito come una micro-città utopica ispirata in dialogo con l’ Unité d'Habitation di Le Corbusier a Marsiglia. L’opera comprende cinque edifici di altezze differenti raggruppati attorno a spazi centrali comuni di aggregazione (un anfiteatro e due piazze più piccole) e numerosi percorsi pedonali che evidenziano la ricerca di un rapporto dialettico tra spazio abitativo e spazio pubblico.
Mario Forentino (capogruppo), Corviale, Roma, 1975 - 1984
Il complesso, dalle dimensioni ciclopiche e di scala territoriale (è detto "il Serpentone"), accoglie circa 4500 abitanti ed è composto da tre edifici: la monumentale “stecca” principale, un unico corpo di 986 metri di lunghezza su nove piani; un secondo corpo più basso, parallelo al primo ed un terzo orientato di 45° rispetto ai primi due. Franco Purini diceva che “Fiorentino aveva una concezione dell’abitare come movimento eroico e che voleva che la sua mastodontica macchina abitativa fosse una specie di comunità che si sarebbe autoregolata facendo prevalere gli interessi collettivi su quelli individuali”. Purtroppo questa visione idealistica non è stata sostenuta dai fatti ma il Corviale – nonostante tutte le problematiche ancora in essere – resta ancora un luogo di vita e un interessante caso studio a livello non solo architettonico ma anche socio-economico.
Studio Celli-Tognon, complesso residenziale di case popolari nel quartiere di Rozzol Melara (Il Quadrilatero), Trieste 1982
Con le sue dimensioni ciclopiche, il complesso a Rozzol Melara caratterizza fortemente il paesaggio urbano della città. Concepito come un sistema insediativo semi-indipendente dotato di tutti i servizi e le infrastrutture secondarie di base, piuttosto che come un semplice edificio residenziale, l‘opera è composta da due corpi con impianto ad L, uno di doppia altezza rispetto all’altro, raggruppati attorno ad una corte centrale e collegati da un sistema di passaggi coperti e servizi collettivi. L’edificio realizzato completamente in cemento armato faccia a vista appare compatto e unitario, all’insegna di una certa monumentalità, enfatizzata dalla ritmica dei macroscopici pilastri con passo di 15 metri che definiscono grandi porticati.
Michel Andrault, Pierre Parat, Basilica e Santuario della Madonna delle Lacrime, Siracusa 1994
La Basilica e Santuario della Madonna delle Lacrime, considerata la più grande chiesa di pellegrinaggio della Sicilia, è il frutto di un concorso di progettazione bandito nel 1957, per rappresentare l’importanza per i devoti di un evento miracoloso avvenuto quattro anni prima. Il complesso scultoreo a impianto circolare è suddiviso in due livelli – la basilica in alto e la cripta in basso – ed è coronato da una copertura conica in cemento armato, alta 103 m, sormontata da una statua in bronzo della Madonna.
Aldo D'Amore, Fabio Basile, Palazzo della cultura, Messina 1977-2009
Il complesso è caratterizzato da un corpo in cemento di colore rosa salmone, in forma di piramide a base rettangolare, tronca e rovesciata, che ospita gli uffici comunali, disposto su un volume vetrato che comprende sale espositive ed un teatro.
Vittoriano Viganò, Istituto Marchiondi, Baggio, Milano 1957
Il complesso, considerato un capolavoro dell'architettura brutalista a livello internazionale e oggi in stato di degrado, è composto da quattro nuclei edilizi principali orientati secondo un asse est-ovest e immersi in un parco, che ospitano le diverse aree funzionali: uffici e direzione, convitto per gli studenti, il corpo per i docenti e un centro scolastico. L’impianto planivolumetrico è caratterizzato da una rigorosa scansione modulare, enfatizzata dalla struttura in cemento a vista a passo costante. Particolarmente rilevante risulta la scelta compiuta dall’architetto, d’accordo con gli educatori dell'Istituto, di di articolare su due livelli i quartieri abitativi..
Antonio Guacci, Santuario mariano di Monte Grisa, Trieste 1965
Situato a una quota di 330 m sul monte Grisa, il santuario è soprannominato dai triestini il "formaggino" per la sua forma triangolare. Il complesso, da cui si coglie una vista spettacolare della città, è caratterizzato dall'imponenza della struttura in cemento armato a vista e dal diverso spirito delle due chiese sovrapposte che lo compongono: la chiesa superiore luminosa e trasparente, scandita dai moduli triangolari della facciata, e quella inferiore definita da lame di luce in sequenza.
Enrico Castiglioni e Carlo Fontana, Istituto statale di istruzione superiore Cipriano Facchinetti, Castellanza, Varese 1965
“Questo edificio ha introdotto nell'edilizia scolastica – forse per la prima volta in Italia – l'identificazione dell'architettura con la struttura, in questo caso molto complessa nel sistema delle volte”: così Castiglioni descriveva la sua opera, ritenuta da Nikolaus Pevsner uno dei migliori esempi di architettura brutalista e, secondo la critica, non priva di riferimenti all’espressionismo di Poelzig e Mendelsohn (dalla drammatizzazione delle forme, al disegno delle aperture). Il complesso è composto da due volumi in linea – uno dei quali arcuato in pianta e in facciata – di tre piani fuori terra, disposti su una piastra scandita da una sequenza di shed curvilinei prefabbricati in cemento armato, che contiene le funzioni comuni. Il fronte è scandito da setti sagomati e vetrate in ferro-finestra che si incurvano plasticamente verso la sommità.
Arrigo Arrighetti, Chiesa S. Giovanni Bono, Milano 1968
La chiesa si inserisce nel contesto distaccandosi apertamente dall’edilizia residenziale circostante, grazie al suo marcato andamento ascensionale. Il fronte, raddoppiato nell’immagine riflessa dalla vasca antistante, è formato da un unico triangolo allungato in cemento a vista traforato da finestre colorate, ricorda da un lato le guglie gotiche e dall’altro suggerisce l’idea di una tenda piantata nel quartiere. La struttura è composta da muri in cemento armato con travi in acciaio che sorreggono la copertura, oggi in lamiera di alluminio porcellanato dopo che un incendio ha distrutto quella originaria in materiale plastico. A fianco della chiesa si situano gli edifici parrocchiali e le residenze del clero, distribuiti a semicerchio attorno a un giardino.
Giuseppe Perugini, Uga De Plaisant e Raynaldo Perugini, Casa Sperimentale, Fregene, Roma 1969
Ridurre la cosiddetta Casa Albero a semplice residenza estiva sarebbe riduttivo, perché l’opera progettata da una famiglia di architetti (padre, madre e figlio) per se stessi non è soltanto una casa al mare ma un esempio di sperimentazione di un nuovo linguaggio architettonico in ambito abitativo. L’opera è stata concepita come work in progress continuamente trasformabile, fermo restando il dialogo costante con la natura. Il complesso è formato da tre edifici di tipologia diversa: la casa, con struttura modulare ripetibile, in calcestruzzo grezzo, vetro e acciaio tinto di rosso; la palla, una sfera di 5 metri di diametro concepita come appendice esterna alla casa; i tre cubetti, moduli spaziali cubici intervallati da semi-moduli contenenti i servizi, camera da letto, soggiorno e cucina, in meno di 40 metri quadrati.
Francesco Berarducci, villino in via Colli della Farnesina 144, Roma 1969
Il villino affacciato su una collina del parco urbano di Monte Mario è caratterizzato da una maglia strutturale in cemento armato a vista composta da pilastri a C e travi che scandiscono l’impianto plani-volumetrico e ritmano i prospetti, dove tamponamenti compatti e chiusi dialogano con le vetrate dei fronti principali. L’opera è stata sfondo per alcune scene del film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri.
Vinicio Vecchi, Complesso R-Nord, Modena 1970
Situato nella fascia a nord della ferrovia in una zona che dal dopoguerra è diventata l’area di espansione delle attività industriali e commerciali della città, il complesso polifunzionale nasce per ospitare, oltre ai servizi e alle attività commerciali, miniappartamenti destinati ai lavoratori del Mercato Bestiame. Il monolitico fabbricato, caratterizzato da una marcata orizzontalità accentuata dall’alternanza di piani in cemento armato con quelli ad intonaco di colore mattone scuro, è presto diventato un epicentro di degrado e criminalità. A partire dagli inizi del 2000, il complesso è stato oggetto di un intervento di rigenerazione finalizzato non solo a sanare il degrado fisico ma anche a far fronte alla radicata conflittualità sociale della zona: il progetto ha previsto la revisione dimensionale degli alloggi per garantirne una migliore fruibilità, l’insediamento di associazioni culturali, formative e di servizi, la riqualificazione degli spazi pubblici esterni.
Banca d’Italia, Catania 1970
L’edificio è caratterizzato da un volume di forte impatto monumentale, a simboleggiare il carattere istituzionale della costruzione. Il fronte interamente in calcestruzzo si anima ai vari livelli in un drammatico gioco di luci ed ombre, attraverso la ritmica serrata della struttura a vista di pilastri e travi in calcestruzzo: dilatata ai primi due livelli, dove pilastri ciclopici scandiscono il porticato; serrata ai due piani successivi; marcata da aggetti e rientranze a quelli superiori.
Carlo Graffi, Sergio Musmeci, Villa Gontero, Piemonte, 1971
La casa per un imprenditore piemontese nel settore dei cementi è un omaggio appassionato al calcestruzzo, gettato in opera in cassaforme lignee per travi e solette e impiegato in blocchi di cemento Vibramac per gli involucri. L’andamento a gradoni del volume, sorretto nella parte centrale da una struttura circolare in cemento armato che racchiude una scala a chiocciola in ferro, crea un giocoso contrasto tra la gravità delle masse ed il loro distaccarsi disinvoltamente dal suolo. I serramenti dai toni accesi gettano vivaci pennellate sui prospetti ruvidi e grigi.
Sir Basil Spence, Sede dell’Ambasciata Britannica, Roma 1971
L’edificio concilia il brutalismo di matrice anglosassone del progettista con il contesto storico della Porta Pia michelangiolesca: il complesso è caratterizzato da volumi in cemento armato rivestiti da pannelli in travertino che cercano un dialogo con la cromia delle mura Aureliane e che si alternano a superfici vetrate con infissi di alluminio di colore bronzo scuro.
Piero Sartogo, Sede dell'Ordine dei Medici in via Giovanni Battista de Rossi, Roma 1972
L’ edificio si staglia con il suo carattere provocatorio e dirompente nel Quartiere Nomentano, in contrasto con la composta uniformità dei villini e delle palazzine novecentesche circostanti. La costruzione, connotata da una sequenza di volumi sovrapposti e aggettanti, evoca l’immagine di un albero che espande i suoi rami nel cielo. La struttura rivela all’esterno la ripartizione funzionale interna: il basamento cubico a due livelli interrati, leggibili dalla strada, con l’auditorium e la biblioteca, il garage, l’archivio e la tipografia; il piano terra con l’atrio di accesso e la grande sala dell’albo, riconoscibile dalle vetrate a tutta altezza su due piani; il piano primo con la sala riunioni, a sbalzo rispetto all’ingresso; i due piani superiori, che ospitano uffici, segnalati da una fascia marcapiano in lastra continua che rimarca il cambio di funzione.
Saverio Busiri Vici, villa Ronconi, Roma 1973
La costruzione è un manifesto brutalista, riconoscibile come tale nell’utilizzo virtuosistico e plastico del calcestruzzo, nella forza espressiva delle superfici ruvide segnate dalle cassaforme lignee e nell’articolazione drammatica e vibrante delle masse strutturali, in una serrata dialettica tra chiari e scuri. Oggi prepotentemente trasfigurata nello spirito, resta il ricordo dell’architettura originaria, e con essa di una visione progettuale che sapeva guardare all’essenza senza tradire qualità e raffinatezza di composizione.
Marco Zanuso e Pietro Crescini, Residence Porta Nuova (Gioiaotto), Milano 1973
Il complesso polifunzionale originariamente denominato Residence Porta Nuova è un segno rappresentativo dell’attività architettonica degli anni settanta a Milano, fortemente consolidato nella memoria storica della città. La struttura in cemento armato è connotata da una forte scansione orizzontale dove le fasce marcapiano in cemento prefabbricato delimitano i curtain walls continui in acciaio e vetro. Lo studio Park associati ha realizzato recentemente un intervento di retrofitting che ha saputo interpretare con correttezza filologica il linguaggio originario, senza rinunciare ad un cura meticolosa del dettaglio contemporaneo. Gioiaotto è stato il primo edificio certificato LEED Platinum a Milano.
Amedeo Albertini, Centro Congressi Regione Piemonte, Corso Stati Uniti, Torino 1973
Il Palazzo dei Congressi della Regione Piemonte, in origine Federagrario e centro incontri CRT, in Corso Stati Uniti era un imponente edificio di 8 piani con destinazione uffici e sala congressi, composto da due blocchi simmetrici tripartiti in facciata: un basamento trasparente leggermente arretrato rispetto alla facciata, uno sviluppo verticale del fronte disegnato dal contrasto tra il calcestruzzo dei marcapiani e le finestre a fascia; la sommità vetrata e arretrata. La vistosa struttura portante in cemento armato con travi giganti sostenute da pilastri cilindrici evoca le mega-strutture di Kenzo Tange. Nel 2021 è stato venduto a un gruppo di investitori privati ed oggi è stato demolito, per lasciare posto ad una nuova costruzione.
Giancarlo De Carlo, Quartiere Matteotti, Terni 1969 - 1975
Il quartiere, commissionato dalla società Terni Acciaierie in sostituzione del precedente villaggio operaio allo scopo di aumentare la densità abitativa del comparto, e solo in parte realizzato, è composto da quattro corpi di fabbrica in calcestruzzo a tre piani, con volumetrie articolate a gradoni che ospitano 240 alloggi, terrazze comuni e giardini pensili. L’intervento è stato oggetto di un percorso partecipativo di portata storica che ha visto coinvolti i progettisti, i committenti, gli abitanti chiamati ad esplicitare la propria voce, tra cui l’esigenza di spazi verdi pubblici e privati, di luoghi per la vita sociale e di separazione tra flussi di veicoli e pedoni.
Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Monte Amiata, Milano, 1967-1974
Il “dinosauro rosso”, così definito per la struttura ciclopica, la forma insolita e il colore delle facciate, è un complesso residenziale nel quartiere Gallaratese concepito come una micro-città utopica ispirata in dialogo con l’ Unité d'Habitation di Le Corbusier a Marsiglia. L’opera comprende cinque edifici di altezze differenti raggruppati attorno a spazi centrali comuni di aggregazione (un anfiteatro e due piazze più piccole) e numerosi percorsi pedonali che evidenziano la ricerca di un rapporto dialettico tra spazio abitativo e spazio pubblico.
Mario Forentino (capogruppo), Corviale, Roma, 1975 - 1984
Il complesso, dalle dimensioni ciclopiche e di scala territoriale (è detto "il Serpentone"), accoglie circa 4500 abitanti ed è composto da tre edifici: la monumentale “stecca” principale, un unico corpo di 986 metri di lunghezza su nove piani; un secondo corpo più basso, parallelo al primo ed un terzo orientato di 45° rispetto ai primi due. Franco Purini diceva che “Fiorentino aveva una concezione dell’abitare come movimento eroico e che voleva che la sua mastodontica macchina abitativa fosse una specie di comunità che si sarebbe autoregolata facendo prevalere gli interessi collettivi su quelli individuali”. Purtroppo questa visione idealistica non è stata sostenuta dai fatti ma il Corviale – nonostante tutte le problematiche ancora in essere – resta ancora un luogo di vita e un interessante caso studio a livello non solo architettonico ma anche socio-economico.
Studio Celli-Tognon, complesso residenziale di case popolari nel quartiere di Rozzol Melara (Il Quadrilatero), Trieste 1982
Con le sue dimensioni ciclopiche, il complesso a Rozzol Melara caratterizza fortemente il paesaggio urbano della città. Concepito come un sistema insediativo semi-indipendente dotato di tutti i servizi e le infrastrutture secondarie di base, piuttosto che come un semplice edificio residenziale, l‘opera è composta da due corpi con impianto ad L, uno di doppia altezza rispetto all’altro, raggruppati attorno ad una corte centrale e collegati da un sistema di passaggi coperti e servizi collettivi. L’edificio realizzato completamente in cemento armato faccia a vista appare compatto e unitario, all’insegna di una certa monumentalità, enfatizzata dalla ritmica dei macroscopici pilastri con passo di 15 metri che definiscono grandi porticati.
Michel Andrault, Pierre Parat, Basilica e Santuario della Madonna delle Lacrime, Siracusa 1994
La Basilica e Santuario della Madonna delle Lacrime, considerata la più grande chiesa di pellegrinaggio della Sicilia, è il frutto di un concorso di progettazione bandito nel 1957, per rappresentare l’importanza per i devoti di un evento miracoloso avvenuto quattro anni prima. Il complesso scultoreo a impianto circolare è suddiviso in due livelli – la basilica in alto e la cripta in basso – ed è coronato da una copertura conica in cemento armato, alta 103 m, sormontata da una statua in bronzo della Madonna.
Aldo D'Amore, Fabio Basile, Palazzo della cultura, Messina 1977-2009
Il complesso è caratterizzato da un corpo in cemento di colore rosa salmone, in forma di piramide a base rettangolare, tronca e rovesciata, che ospita gli uffici comunali, disposto su un volume vetrato che comprende sale espositive ed un teatro.
Come Domus ha già avuto modo di raccontare, il Brutalismo si è sviluppato a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, un tempo in cui il pensiero architettonico riformulava il lessico del costruire per fare fronte alle esigenze della società ferita dalla guerra e pronta a ripartire. Il risultato è un’architettura che cerca di liberarsi dalle rigidità del Movimento Moderno, scarnificata e disinvoltamente anti-edonistica, che privilegia l’etica all’estetica e si caratterizza per il funzionalismo schietto, l’impostazione gerarchica della struttura e la plasticità dei volumi. Continua a leggere
05
L’Italia delle architetture in abbandono: 10 edifici dismessi che dovresti conoscere
Luigi Cosenza, Mercato ittico, Napoli, Italia 1935
Il mercato ittico di Napoli è una delle maggiori testimonianze dell’opera di Luigi Cosenza, figura di spicco nel panorama architettonico napoletano nella prima metà del 1900. Aderente ai principi del razionalismo – ne è il primo esempio a Napoli – il mercato coperto è costituito da un’ampia sala per la contrattazione e da una serie di spazi accessori alla vendita organizzati lungo il perimetro. La notevole volta a tutto sesto poggia su archi reticolari in ferro mentre le testate verticali e le larghe feritoie sono realizzate in vetro-cemento Saint-Gobain, in una delle prime applicazioni nel mezzogiorno. Sebbene il mercato risulti vincolato e oggetto di progetti di recupero, con operazioni di bonifica in corso, le cronache recenti riportano atti di occupazione illegali.
Luigi Cosenza, Mercato ittico, Napoli, Italia 1935
Archivio Luigi Cosenza_Archivio di Stato di Napoli, Pizzofalcone
Luigi Cosenza, Mercato ittico, Napoli, Italia 1935.
Archivio Luigi Cosenza_Archivio di Stato di Napoli, Pizzofalcone
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Questa opera di Renzo Zavanella è un raffinato esempio di razionalismo nautico, esplicitato tanto nella composizione volumetrica quanto nella definizione dei dettagli costruttivi. Viene progettata tra il 1931 e il 1932 come residenza per i direttori del relativo complesso industriale e si caratterizza per alcune soluzioni all’avanguardia rispetto alla tipologia degli spazi interni, come il salone a doppia altezza e le nicchie in cui alloggiare gli armadi a incasso, e alla tecnologia impiegata, come l’inserimento di un ‘intercapedine tra le due pareti in calcestruzzo armato che formano le chiusure. Sono tuttora in corso studi per il recupero di questa preziosa testimonianza architettonica.
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Foto di Davide Galli Atelier
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Foto di Davide Galli Atelier
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Foto di Davide Galli Atelier
Mario Loreti, Colonia Varese, Cervia (Ravenna), Italia 1939
Inaugurata con il nome del gerarca Costanzo Ciano, questa colonia poteva ospitare fino a 800 bambini. Il complesso si inserisce all’interno di un’area verde di circa 60.000 metri quadrati con uno schema planimetrico basato su una forte simmetria. Il corpo centrale era adibito alla distribuzione mentre i padiglioni laterali a camerate e spazi di servizio. Durante la guerra, l’edificio venne occupato dai tedeschi per cadere in seguito in uno stato di sottoutilizzo fino al definitivo abbandono. Tra gli anni '70 ed '80 Marcello Aliprandi e Pupi Avati usarono la colonia Varese come set rispettivamente dei film La ragazza di latta e Zeder.
Alberto Galardi, Istituto Marxer, Loranzè (Torino), Italia 1962
L’istituto Marxer è un raro esempio di architettura brutalista in Italia, commissionato da Adriano Olivetti per ospitare la produzione e la ricerca in campo farmacologico per l’omonima società. Il complesso è articolato in due volumi principali, che ospitavano uffici, laboratori di ricerca e lo stabilimento produttivo, e un volume già esistente con la mensa e altre funzioni. A partire dalla fine degli anni '70, le mutate condizioni socioeconomiche hanno portato a diversi cambi di proprietà e un progressivo abbandono, contestualmente a un processo di degrado alimentato dall’azione del tempo e da atti di vandalismo.
Alberto Galardi, Istituto Marxer, Loranzè (Torino), Italia 1962
Domus 394, settembre 1962
Giuseppe Davanzo, Foro Boario, Padova, Italia 1968
Il Foro Boario nasce per ospitare attività di trattativa, scambio ed esposizione di bestiame. La concezione strutturale basata sull’iterazione di un modulo geometrico in orizzontale e verticale dà origine ad un ampio, luminoso e arioso spazio coperto, la cui qualità architettonica è valsa svariati riconoscimenti come il Premio In/Arch nel 1969, l’interesse del MoMA di New York e un relativamente prematuro vincolo monumentale in quanto elemento di qualificazione attiva ed episodio di altissima emergenza panoramica nell’ambiente urbano circostante definito in modo totalmente inedito. Tramontato il progetto cittadino di istituire un punto di riferimento internazionale, questa cattedrale, come viene definita da molti, è caduta in disuso ed è oggi al centro dell’interesse della multinazionale di Lille Leroy Merlin.
Giovanni Giannattasio Ufo Bar, Salerno, Italia, anni '70
Sulla litoranea in uscita da Salerno, poco dopo lo stadio Arechi e in prossimità di una stazione di servizio, si trova il fu Ufo Bar, un piccolo locale notturno oggi abbandonato. L’edificio disegnato da Giovanni Giannattasio ha la forma di calotta sferica forata da piccoli oblò. L’ingresso è segnato da due muri obliqui e, una volta varcata la soglia, sembra di entrare in una taverna di Tatooine, in Guerre Stellari. Teatro della movida salernitana fino alla fine degli anni Novanta, l’Ufo Bar ha cessato l’attività da quando le autorità hanno apposto i sigilli in seguito all’accertamento di alcune attività illegali.
Dante Bini, La Cupola, Sassari, Italia 1970
Il sogno di una casa al mare sulle sponde di una costa selvaggia e l’incontro con un architetto visionario portano all’ideazione e costruzione di un edificio avveniristico: una sfera in calcestruzzo armato indissolubilmente integrata al paesaggio marino circostante. È il brevetto Binishell che convince una coppia, il regista Michelangelo Antonioni e l'attrice Monica Vitti, ad affidarsi a Dante Bini per la realizzazione della loro dimora in Sardegna. La casa è realizzata in un’unica colata di cemento sfruttando la pressione dell’aria. Con la rottura del rapporto tra Antonioni e Vitti si determinano le condizioni per un graduale abbandono della struttura e l’inevitabile degrado.
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
L’ampliamento della stazione di San Cristoforo fu commissionato per ospitare un terminal per il trasporto di automobili private lungo la tratta Milano-Parigi. La costruzione non venne mai completata a causa dei continui ripensamenti del committente, fino al definitivo abbandono dei lavori nel 1991. Dello scheletro in rovina, oggi possiamo leggere virtualmente le masse e immaginare il transito dei veicoli nell’area antistante. Il dibattito sul futuro di questo incompiuto è destinato a protrarsi anche negli anni a venire in vista del programma di trasformazione che sta interessando gli scali milanesi.
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
Foto di Gerardo Semprebon
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
Foto di Gerardo Semprebon
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
Foto di Gerardo Semprebon
Consonno (Lecco), Italia 1960s
Sono i primi anni Sessanta quando l’imprenditore Mario Bagno acquista i terreni della contrada di Consonno e rade al suolo le poche case abbandonate in seguito alla crisi del settore agricolo per costruire una nuova città dei balocchi. Incentrata sull’industria del turismo, Consonno ospitava negozi, ristoranti, campi sportivi, una balera, un hotel di lusso, un luna park, un giardino zoologico, un castello medievale come porta di ingresso e il celeberrimo minareto. Nel 1966, la prima di due frane che nel giro di dieci anni avrebbero segnato il futuro di questo luogo, isola il paese, mettendo a nudo le conseguenze dell’eccessiva cementificazione. È l’inizio di un graduale abbandono che varrà al villaggio a tema il titolo di città fantasma.
Vico Magistretti, Complesso residenziale Marina Grande, Arenzano (Genova), Italia 1965
Il complesso è il risultato di un’operazione immobiliare commissionata dalla Cemadis S.p.A. acronimo di Centri Marittimi di Soggiorno, nel quadro del piano di urbanizzazione della pineta di Arenzano. I 300 metri di negozi, strade, spazi pubblici, servizi, parcheggi, e residenze sono organizzati su corpi basamentali che raccordano le diverse quote del litorale e blocchi fuori terra che si organizzano attorno a corti e patii disegnati per mantenere rapporti di scala contenuti. Negli anni la struttura è stata progressivamente abbandonata dai residenti, lasciando gli spazi pubblici all’uso di bagnanti e passanti. La presenza di diversi proprietari con interessi eterogenei ha contribuito a rallentare le iniziative per un recupero funzionale.
Vico Magistretti, Complesso residenziale Marina Grande, Arenzano (Genova), Italia, 1965
Courtesy Archivio Magistretti – Fondazione Vico Magistretti
Luigi Cosenza, Mercato ittico, Napoli, Italia 1935
Il mercato ittico di Napoli è una delle maggiori testimonianze dell’opera di Luigi Cosenza, figura di spicco nel panorama architettonico napoletano nella prima metà del 1900. Aderente ai principi del razionalismo – ne è il primo esempio a Napoli – il mercato coperto è costituito da un’ampia sala per la contrattazione e da una serie di spazi accessori alla vendita organizzati lungo il perimetro. La notevole volta a tutto sesto poggia su archi reticolari in ferro mentre le testate verticali e le larghe feritoie sono realizzate in vetro-cemento Saint-Gobain, in una delle prime applicazioni nel mezzogiorno. Sebbene il mercato risulti vincolato e oggetto di progetti di recupero, con operazioni di bonifica in corso, le cronache recenti riportano atti di occupazione illegali.
Luigi Cosenza, Mercato ittico, Napoli, Italia 1935
Archivio Luigi Cosenza_Archivio di Stato di Napoli, Pizzofalcone
Luigi Cosenza, Mercato ittico, Napoli, Italia 1935.
Archivio Luigi Cosenza_Archivio di Stato di Napoli, Pizzofalcone
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Questa opera di Renzo Zavanella è un raffinato esempio di razionalismo nautico, esplicitato tanto nella composizione volumetrica quanto nella definizione dei dettagli costruttivi. Viene progettata tra il 1931 e il 1932 come residenza per i direttori del relativo complesso industriale e si caratterizza per alcune soluzioni all’avanguardia rispetto alla tipologia degli spazi interni, come il salone a doppia altezza e le nicchie in cui alloggiare gli armadi a incasso, e alla tecnologia impiegata, come l’inserimento di un ‘intercapedine tra le due pareti in calcestruzzo armato che formano le chiusure. Sono tuttora in corso studi per il recupero di questa preziosa testimonianza architettonica.
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Foto di Davide Galli Atelier
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Foto di Davide Galli Atelier
Renzo Zavanella, Villa dei direttori dello zuccherificio, Sermide (Mantova), Italia 1939
Foto di Davide Galli Atelier
Mario Loreti, Colonia Varese, Cervia (Ravenna), Italia 1939
Inaugurata con il nome del gerarca Costanzo Ciano, questa colonia poteva ospitare fino a 800 bambini. Il complesso si inserisce all’interno di un’area verde di circa 60.000 metri quadrati con uno schema planimetrico basato su una forte simmetria. Il corpo centrale era adibito alla distribuzione mentre i padiglioni laterali a camerate e spazi di servizio. Durante la guerra, l’edificio venne occupato dai tedeschi per cadere in seguito in uno stato di sottoutilizzo fino al definitivo abbandono. Tra gli anni '70 ed '80 Marcello Aliprandi e Pupi Avati usarono la colonia Varese come set rispettivamente dei film La ragazza di latta e Zeder.
Alberto Galardi, Istituto Marxer, Loranzè (Torino), Italia 1962
L’istituto Marxer è un raro esempio di architettura brutalista in Italia, commissionato da Adriano Olivetti per ospitare la produzione e la ricerca in campo farmacologico per l’omonima società. Il complesso è articolato in due volumi principali, che ospitavano uffici, laboratori di ricerca e lo stabilimento produttivo, e un volume già esistente con la mensa e altre funzioni. A partire dalla fine degli anni '70, le mutate condizioni socioeconomiche hanno portato a diversi cambi di proprietà e un progressivo abbandono, contestualmente a un processo di degrado alimentato dall’azione del tempo e da atti di vandalismo.
Alberto Galardi, Istituto Marxer, Loranzè (Torino), Italia 1962
Domus 394, settembre 1962
Giuseppe Davanzo, Foro Boario, Padova, Italia 1968
Il Foro Boario nasce per ospitare attività di trattativa, scambio ed esposizione di bestiame. La concezione strutturale basata sull’iterazione di un modulo geometrico in orizzontale e verticale dà origine ad un ampio, luminoso e arioso spazio coperto, la cui qualità architettonica è valsa svariati riconoscimenti come il Premio In/Arch nel 1969, l’interesse del MoMA di New York e un relativamente prematuro vincolo monumentale in quanto elemento di qualificazione attiva ed episodio di altissima emergenza panoramica nell’ambiente urbano circostante definito in modo totalmente inedito. Tramontato il progetto cittadino di istituire un punto di riferimento internazionale, questa cattedrale, come viene definita da molti, è caduta in disuso ed è oggi al centro dell’interesse della multinazionale di Lille Leroy Merlin.
Giovanni Giannattasio Ufo Bar, Salerno, Italia, anni '70
Sulla litoranea in uscita da Salerno, poco dopo lo stadio Arechi e in prossimità di una stazione di servizio, si trova il fu Ufo Bar, un piccolo locale notturno oggi abbandonato. L’edificio disegnato da Giovanni Giannattasio ha la forma di calotta sferica forata da piccoli oblò. L’ingresso è segnato da due muri obliqui e, una volta varcata la soglia, sembra di entrare in una taverna di Tatooine, in Guerre Stellari. Teatro della movida salernitana fino alla fine degli anni Novanta, l’Ufo Bar ha cessato l’attività da quando le autorità hanno apposto i sigilli in seguito all’accertamento di alcune attività illegali.
Dante Bini, La Cupola, Sassari, Italia 1970
Il sogno di una casa al mare sulle sponde di una costa selvaggia e l’incontro con un architetto visionario portano all’ideazione e costruzione di un edificio avveniristico: una sfera in calcestruzzo armato indissolubilmente integrata al paesaggio marino circostante. È il brevetto Binishell che convince una coppia, il regista Michelangelo Antonioni e l'attrice Monica Vitti, ad affidarsi a Dante Bini per la realizzazione della loro dimora in Sardegna. La casa è realizzata in un’unica colata di cemento sfruttando la pressione dell’aria. Con la rottura del rapporto tra Antonioni e Vitti si determinano le condizioni per un graduale abbandono della struttura e l’inevitabile degrado.
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
L’ampliamento della stazione di San Cristoforo fu commissionato per ospitare un terminal per il trasporto di automobili private lungo la tratta Milano-Parigi. La costruzione non venne mai completata a causa dei continui ripensamenti del committente, fino al definitivo abbandono dei lavori nel 1991. Dello scheletro in rovina, oggi possiamo leggere virtualmente le masse e immaginare il transito dei veicoli nell’area antistante. Il dibattito sul futuro di questo incompiuto è destinato a protrarsi anche negli anni a venire in vista del programma di trasformazione che sta interessando gli scali milanesi.
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
Foto di Gerardo Semprebon
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
Foto di Gerardo Semprebon
Aldo Rossi e Gianni Braghieri, Stazione di Milano San Cristoforo, Milano, Italia 1983.
Foto di Gerardo Semprebon
Consonno (Lecco), Italia 1960s
Sono i primi anni Sessanta quando l’imprenditore Mario Bagno acquista i terreni della contrada di Consonno e rade al suolo le poche case abbandonate in seguito alla crisi del settore agricolo per costruire una nuova città dei balocchi. Incentrata sull’industria del turismo, Consonno ospitava negozi, ristoranti, campi sportivi, una balera, un hotel di lusso, un luna park, un giardino zoologico, un castello medievale come porta di ingresso e il celeberrimo minareto. Nel 1966, la prima di due frane che nel giro di dieci anni avrebbero segnato il futuro di questo luogo, isola il paese, mettendo a nudo le conseguenze dell’eccessiva cementificazione. È l’inizio di un graduale abbandono che varrà al villaggio a tema il titolo di città fantasma.
Vico Magistretti, Complesso residenziale Marina Grande, Arenzano (Genova), Italia 1965
Il complesso è il risultato di un’operazione immobiliare commissionata dalla Cemadis S.p.A. acronimo di Centri Marittimi di Soggiorno, nel quadro del piano di urbanizzazione della pineta di Arenzano. I 300 metri di negozi, strade, spazi pubblici, servizi, parcheggi, e residenze sono organizzati su corpi basamentali che raccordano le diverse quote del litorale e blocchi fuori terra che si organizzano attorno a corti e patii disegnati per mantenere rapporti di scala contenuti. Negli anni la struttura è stata progressivamente abbandonata dai residenti, lasciando gli spazi pubblici all’uso di bagnanti e passanti. La presenza di diversi proprietari con interessi eterogenei ha contribuito a rallentare le iniziative per un recupero funzionale.
Vico Magistretti, Complesso residenziale Marina Grande, Arenzano (Genova), Italia, 1965
Courtesy Archivio Magistretti – Fondazione Vico Magistretti
Nell’editoriale di Domus 1066, Jean Nouvel scriveva che le architetture, come gli esseri viventi, sono troppo spesso irresponsabilmente abbandonate, dimenticate o sfruttate. Perché un’architettura duri negli anni, bisogna poterla conservare viva, per permetterle di adattarsi alle situazioni del momento. Orfane di gestioni lungimiranti, talvolta distratte o dormienti, queste architetture hanno dato volti civici a istituzioni e poteri, ospitato eventi simbolici e accolto le popolazioni locali, segnando epoche e immaginari collettivi. Continua a leggere
@domus 3 architetture scomparse in giro per il mondo! Le conoscevi? #imparacontiktok #architecture ♬ suono originale - Domus Magazine
06
Quando gli arredi IKEA diventano da collezione: i 15 pezzi vintage più ricercati
Niels Gammelgaard, divano Moment, 1983
Il divano Moment è una delle tante idee uscite dalla matita di Niels Gammelgaard per Ikea. La struttura in acciaio è ispirata da una visita a una fabbrica di carrelli per la spesa. Per montarlo servono solamente 11 bulloni e dadi
Niels Gammelgaard, divano Moment, 1983
Il portale web di arredi vintage VNTG valuta il divano Moment tra i 400 e i 500 euro
Niels Gammelgaard, tavolo Moment, anni Ottanta
Il designer danese ha progettato anche un tavolo da pranzo (o scrivania) che ha una struttura dello stesso tipo. Lo si trova in vendita su Pamono a circa 700 euro
Specchio Ulk, 1996
Commercializzato nel 1996, Ulk è un pezzo ormai rarissimo che si ispira al design postmoderno del gruppo Memphis. È stato recente venduto su Chairish per 540 dollari
Monika Mulder, sedia Hasslo, anni Novanta
Monika Mulder iniziò la sua carriera nel dipartimento di design (PS Design) di Ikea in Svezia. I suoi lavori uniscono funzionalità ad un’estetica sorprendente. Mulder è oggi una designer riconosciuta internazionalmente, che ha vinto numerosi premi ed esposto nei maggiori musei di design
Monika Mulder, sedia Hasslo, anni Novanta
La sedia Hasslo presenta una struttura metallica arancione dalle forme dinamiche, mentre seduta e schienale sono in plastica trasparente, uniti al telaio da 4 viti quasi invisibili. Un set di 4 sedie Hasslo è venduto su Design Addict per 950 euro
Gillis Lundgren, poltrona Impala, 1972
Il divano e la poltrona Impala sono tra i classici di maggiore successo sul mercato vintage. Progettati da Gillis Lundgren (il padre della celeberrima libreria Billy), gli arredi si distinguono per la struttura di tubolare metallico e l’imbottitura unica dai colori accesi: rosso o dorato
Gillis Lundgren, poltrona Impala, 1972
Attualmente in vendita sul sito Tarquin Bilden per quasi 6.000 euro
Tavolo Bergslagen, 1993
Bergslagen fa parte di una collezione dedicata al XVIII secolo, pensata in collaborazione con Lars Sjöberg, allora curatore del National Museum in Svezia. Lanciata sul mercato nel 1993, la collezione fu un flop clamoroso, e dopo sei anni venne interrotta la produzioni. Oggi il tavolo Bergslagen è uno degli articoli più ambito sul mercato del vintage. Prezzo 500 euro
Verner Panton, sedia Vilbert, 1994
Nei primi anni Novanta, il celebre designer fu incaricato da IKEA di progettare una sedia in edizione limitata (solo 3.000 pezzi). Il prodotto, in stile fai dai te, è composto da tavole di MDF coperte di resina colorata laminata opaca (viola, blu, verde, rosso)
Verner Panton, sedia Vilbert, 1994
La sedia Vilbert è considerata ormai un classico del design ed è venduta ad almeno 4.000 euro (Pamono)
Karin Mobring, poltroncina Admiral, 1971
Negli anni Settanta, la designer svedese Karin Mobring è la protagonista di numerosi arredi di successo. Il suo pezzo più famoso è senza dubbio la poltrona Admiral, in metallo e pelle, sul mercato dal 1971. Costo: 5.000 euro (su room58.dk)
Karin Mobring, sedia Diana Safari, 1972
Struttura in legno, seduta e schienale in tessuto, legacci di pelle: la sedia Diana Safari è ispirata alle sedie degli ufficiali inglese. Su Pamono è in vendita a 350 euro
Arne Wahl Iversen, consolle Spectum, 1959
Il designer e architetto danese Arne Wahl Iversen è tra i designer che ha contribuito a definire lo stile scandinavo Mid-Century. Nonostante la scarsità di informazioni che abbiamo sulla sua vita, il suo lavoro è molto ricercato sul mercato del collezionismo vintage. Prodotta tra il 1959 e il 1968, la consolle Spectum è realizzata in quercia, con impiallacciatura di Teak. In vendita su Pamono a 600 euro
Arne Wahl Iversen, sedia Prim, anni Sessanta
Altro pezzo introvabile di Arne Wahl Iversen è la poltroncina Prim, attualmente in vendita su VNTG a 1350 euro
Mats Theselius, poltrona della serie PS, anni Duemila
Prodotta nei primi anni 2000, la poltrona progettata da Mats Theselius presenta un’inusuale combinazione di rattan e acciaio spazzolato
Mats Theselius, poltrona della serie PS, anni Duemila
A causa della difficoltà nella realizzazione, la poltrona è stata prodotta in pochissime copie, ed è diventata molto rara e ricercata. 1stDibs valuta la coppia di sedie 5.500 euro
Ole Gjerløv-Knudsen e Torben Lind, poltrona Skopan, anni Settanta
Questa poltrona non sfigurerebbe nella Plastic Collection del Design Museum Brussels, magari tra la Pastilli ou Gyro di Eero Aarnio e la Play di Alberto Rosselli. Prezzo originale di questa lounge era di 11 €. Oggi è venduta a oltre 1000€ (Pamono)
Erik Wörtz, scrivania Exklusiv, anni Sessanta
Scrivania impiallacciata di jacaranda, presenta da un lato un piano estendibile e dall’altra dei cassetti. Oggi è venduta a 400 euro
Gillis Lundgen, poltrona Tajt, anni Settanta
L’arredo di Gillis Lundgen nasce dall’ampia disponibilità di tessuto denim. Il fondatore di IKEA Ingvar Kamprad, infatti, ne comprò un rotolo di 5km per dare l’opportunità ai designer di sperimentare con il materiale
Niels Gammelgaard, divano Moment, 1983
Il divano Moment è una delle tante idee uscite dalla matita di Niels Gammelgaard per Ikea. La struttura in acciaio è ispirata da una visita a una fabbrica di carrelli per la spesa. Per montarlo servono solamente 11 bulloni e dadi
Niels Gammelgaard, divano Moment, 1983
Il portale web di arredi vintage VNTG valuta il divano Moment tra i 400 e i 500 euro
Niels Gammelgaard, tavolo Moment, anni Ottanta
Il designer danese ha progettato anche un tavolo da pranzo (o scrivania) che ha una struttura dello stesso tipo. Lo si trova in vendita su Pamono a circa 700 euro
Specchio Ulk, 1996
Commercializzato nel 1996, Ulk è un pezzo ormai rarissimo che si ispira al design postmoderno del gruppo Memphis. È stato recente venduto su Chairish per 540 dollari
Monika Mulder, sedia Hasslo, anni Novanta
Monika Mulder iniziò la sua carriera nel dipartimento di design (PS Design) di Ikea in Svezia. I suoi lavori uniscono funzionalità ad un’estetica sorprendente. Mulder è oggi una designer riconosciuta internazionalmente, che ha vinto numerosi premi ed esposto nei maggiori musei di design
Monika Mulder, sedia Hasslo, anni Novanta
La sedia Hasslo presenta una struttura metallica arancione dalle forme dinamiche, mentre seduta e schienale sono in plastica trasparente, uniti al telaio da 4 viti quasi invisibili. Un set di 4 sedie Hasslo è venduto su Design Addict per 950 euro
Gillis Lundgren, poltrona Impala, 1972
Il divano e la poltrona Impala sono tra i classici di maggiore successo sul mercato vintage. Progettati da Gillis Lundgren (il padre della celeberrima libreria Billy), gli arredi si distinguono per la struttura di tubolare metallico e l’imbottitura unica dai colori accesi: rosso o dorato
Gillis Lundgren, poltrona Impala, 1972
Attualmente in vendita sul sito Tarquin Bilden per quasi 6.000 euro
Tavolo Bergslagen, 1993
Bergslagen fa parte di una collezione dedicata al XVIII secolo, pensata in collaborazione con Lars Sjöberg, allora curatore del National Museum in Svezia. Lanciata sul mercato nel 1993, la collezione fu un flop clamoroso, e dopo sei anni venne interrotta la produzioni. Oggi il tavolo Bergslagen è uno degli articoli più ambito sul mercato del vintage. Prezzo 500 euro
Verner Panton, sedia Vilbert, 1994
Nei primi anni Novanta, il celebre designer fu incaricato da IKEA di progettare una sedia in edizione limitata (solo 3.000 pezzi). Il prodotto, in stile fai dai te, è composto da tavole di MDF coperte di resina colorata laminata opaca (viola, blu, verde, rosso)
Verner Panton, sedia Vilbert, 1994
La sedia Vilbert è considerata ormai un classico del design ed è venduta ad almeno 4.000 euro (Pamono)
Karin Mobring, poltroncina Admiral, 1971
Negli anni Settanta, la designer svedese Karin Mobring è la protagonista di numerosi arredi di successo. Il suo pezzo più famoso è senza dubbio la poltrona Admiral, in metallo e pelle, sul mercato dal 1971. Costo: 5.000 euro (su room58.dk)
Karin Mobring, sedia Diana Safari, 1972
Struttura in legno, seduta e schienale in tessuto, legacci di pelle: la sedia Diana Safari è ispirata alle sedie degli ufficiali inglese. Su Pamono è in vendita a 350 euro
Arne Wahl Iversen, consolle Spectum, 1959
Il designer e architetto danese Arne Wahl Iversen è tra i designer che ha contribuito a definire lo stile scandinavo Mid-Century. Nonostante la scarsità di informazioni che abbiamo sulla sua vita, il suo lavoro è molto ricercato sul mercato del collezionismo vintage. Prodotta tra il 1959 e il 1968, la consolle Spectum è realizzata in quercia, con impiallacciatura di Teak. In vendita su Pamono a 600 euro
Arne Wahl Iversen, sedia Prim, anni Sessanta
Altro pezzo introvabile di Arne Wahl Iversen è la poltroncina Prim, attualmente in vendita su VNTG a 1350 euro
Mats Theselius, poltrona della serie PS, anni Duemila
Prodotta nei primi anni 2000, la poltrona progettata da Mats Theselius presenta un’inusuale combinazione di rattan e acciaio spazzolato
Mats Theselius, poltrona della serie PS, anni Duemila
A causa della difficoltà nella realizzazione, la poltrona è stata prodotta in pochissime copie, ed è diventata molto rara e ricercata. 1stDibs valuta la coppia di sedie 5.500 euro
Ole Gjerløv-Knudsen e Torben Lind, poltrona Skopan, anni Settanta
Questa poltrona non sfigurerebbe nella Plastic Collection del Design Museum Brussels, magari tra la Pastilli ou Gyro di Eero Aarnio e la Play di Alberto Rosselli. Prezzo originale di questa lounge era di 11 €. Oggi è venduta a oltre 1000€ (Pamono)
Erik Wörtz, scrivania Exklusiv, anni Sessanta
Scrivania impiallacciata di jacaranda, presenta da un lato un piano estendibile e dall’altra dei cassetti. Oggi è venduta a 400 euro
Gillis Lundgen, poltrona Tajt, anni Settanta
L’arredo di Gillis Lundgen nasce dall’ampia disponibilità di tessuto denim. Il fondatore di IKEA Ingvar Kamprad, infatti, ne comprò un rotolo di 5km per dare l’opportunità ai designer di sperimentare con il materiale
Tutti sappiamo che l’obiettivo principale di Ikea è quello di realizzare arredi accessibili a tutti. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le collezioni d’autore che permettono a un ampio pubblico di possedere pezzi firmati, ad esempio, da Virgil Abloh o da Sabine Marcelis: è la democratizzazione de lusso, di cui abbiamo parlato in un recente articolo, indagando il difficile connubio tra produzione di massa e art-design (o design da collezione). Continua a leggere
07
14 spettacolari cantine in Europa, firmate da grandi architetti
Santiago Calatrava architects & engineers, Bodegas Ysios, LaGuardia, Paesi Baschi, Spagna 2001
Concepita da un lato per rispondere alle esigenze del committente di spazi idonei per la produzione, lo stoccaggio e la vendita del vino e dall’altro come manifesto iconico per il prestigioso marchio “Rioja Alavesa", la cantina si situa in un contesto dall’orografia irregolare punteggiato da vigneti. Il chiaro e semplice impianto longitudinale si sviluppa in alzato con fronti poderosi rivestiti a nord da pannelli prefabbricati in cemento, a est e a ovest da lastre di alluminio, a sud da doghe di legno di cedro che ricordano le botti di vino. Una copertura sinusoidale in travi di legno lamellare e alluminio conferisce un carattere dinamico e scultoreo all’architettura.
Santiago Calatrava architects & engineers, Bodegas Ysios, LaGuardia, Paesi Baschi, Spagna 2001
Mario Botta, Cantina Petra, Suvereto (Livorno), Italia 2003
Il complesso si adagia in una tenuta di quasi 300 ettari di terreno tra colline e vigneti. L’opera è caratterizzata da un volume cilindrico centrale sezionato da un piano inclinato parallelo alla collina, attraversato da un’imponente scalinata e piantumato a verde in copertura, e da due fabbricati laterali porticati. Il piano terra ospita la barricaia, le zone per l’invecchiamento, la vinificazione, l’imbottigliamento e l’imballaggio e gli spazi di degustazione; il piano primo gli spazi per la pigiatura e i locali tecnologici. Con il suo rivestimento in pietra di Prun, l’opera evoca l’immagine di un fiore che sboccia nel cuore della Maremma.
Zaha Hadid architects, R. Lopez de Heredia Viña Tondonia, Haro, Paesi Baschi, Spagna 2006
Una “bottiglia nuova per un vino storico”: così è stato concepito l’intervento commissionato a Zaha Hadid da una delle più antiche e rinomate famiglie di viticultori della regione per proteggere e valorizzare un vecchio padiglione espositivo in legno originariamente trasportato alla Mostra Internazionale di Bruxelles del 1910 e da allora in disuso. L’architetto irachena ha così ideato un involucro dalle forme sinuose e avvolgenti che sembrano evocare un decanter, o una navicella spaziale atterrata nella Rioja.
Zaha Hadid architects, R. Lopez de Heredia Viña Tondonia, Haro, Paesi Baschi, Spagna 2006
Renzo Piano Building Workshop, Rocca di Frassinello, Gavorrano (Grosseto), Italia 2007
Un edificio schiettamente funzionale concepito per ottimizzare il processo produttivo viti-vinicolo dell’azienda ma anche per ospitare convegni, concerti ed eventi: questa la visione di Renzo Piano per la cantina nel cuore della Maremma che rivisita le tradizionali forme dell’architettura toscana in chiave contemporanea e con un linguaggio industriale. Il complesso è composto da una piazza aperta, un padiglione di vetro che ospita spazi amministrativi e commerciali, una torre che sovrasta la costruzione e da cui filtra la luce negli spazi ipogei, una cantina caratterizzata da una grande sala sotterranea, disposta ad anfiteatro, con una capacità di 2.500 botti di rovere. Vetro e terracotta incarnano la contaminazione tra processi industriali e tradizionali della vinificazione odierna.
Sartogo Architetti Associati, Tenuta Ammiraglia - Frescobaldi, Magliano in Toscana (Grosseto), Italia 2008
"Un lembo di terra sollevato per aprire una sottile e longilinea fessura nel declivio naturale del terreno (…): non una cantina ma una grande ala di gabbiano affacciata a sud che può godere di un microclima molto particolare per la vicinanza del mare”. Così gli architetti descrivono la loro opera, incastonata nel paesaggio della Maremma come un’ala di gabbiano, appunto, o come la prua di una nave che punta verso il mare. L’edificio industriale, perfettamente integrato tra le colline e ricoperto di verde e piante arboree, con le sue forme sinuose sembra volere abbracciare il paesaggio, in una sintesi perfetta tra artificio e natura.
Sartogo Architetti Associati, Tenuta Ammiraglia - Frescobaldi, Magliano in Toscana (Grosseto), Italia 2008
Foster + Partners, Bodegas Portia, Ribera del Duero, Spagna 2010
Il complesso situato in una delle più vivaci località di produzione vinicola della Spagna è caratterizzato da una geometria trilobata funzionale alle diverse fasi del processo produttivo: lavorazione, conservazione e mescita che si svolgono in ciascuno dei corpi di fabbrica. La struttura in cemento rivestita in scandole di acciaio cortén dal colore rossastro ricorda le accese e corpose cromie del vino.
Álvaro Siza, Quinta do Portal, Sabrosa, Portogallo 2010
La “Boutique Winery” dedicata alla produzione di vini DOC (dal Douro, al Porto al Moscatel), suddivisa in quattro piani, ospita al primo livello, quasi completamente interrato, un’area di stoccaggio e i servizi per il personale e i magazzini; al piano terra la seconda area di stoccaggio, gli spogliatoi e i servizi; al piano rialzato la reception e una sala di degustazione; a quello superiore, un auditorium. Il complesso rivestito esternamente in ardesia, pietra e sughero conserva un carattere “artificialmente naturale” che ben si inserisce tra i vigneti.
Christian de Portzamparc, Château Cheval Blanc, Bordeaux, Francia 2011
Per connotare l’immagine di una delle maggiori cantine del Bordeaux l’architetto ha pensato ad un volume sinuoso e avvolgente in cemento a vista. L’opera si configura come un maestoso “atelier del vino” di 5.500 mq sviluppato su due livelli: al primo piano sono collocate 52 vasche in cemento grezzo per la maturazione del vino ed una sala degustazioni; al piano interrato gli ambienti destinati alla produzione. L’edificio è stato progettato secondo criteri di sostenibilità, grazie alla presenza di una terrazza verde in copertura, allo studiato sistema di ventilazione e al meccanismo di filtraggio e reinserimento dell’acqua piovana.
Arnaldo Pomodoro, Tenuta Castelbuono – Tenute Lunelli, Bevagna (Perugia), Italia 2012
Nella campagna umbra, il “Carapace” di Arnaldo Pomodoro è un’opera a metà strada tra arte e architettura: una scultura “abitata” in cui artificio e natura si fondono mirabilmente. La grande cupola rivestita di rame e incisa di crepe che evocano la terra da cui la costruzione scaturisce racchiude un interno dall’atmosfera crepuscolare come all’interno del ventre di un animale primordiale, con una maestosa struttura di archi a tre cerniere in travi reticolari di legno lamellare e arredamenti di un rosso brillante che evocano le foglie della vite.
Archea Associati, Cantina Antinori, San Casciano Val di Pesa (Firenze), Italia 2012
Letteralmente immersa nel morbido paesaggio collinare del Chianti, la Cantina Antinori è prima di tutto un esperimento “geo-morfologico”: scavato fino a 15 metri nel fianco della collina, il complesso di quasi 45000 mq è per la maggior parte ipogeo e quasi invisibile dall’esterno, se non per le fenditure orizzontali che seguono i terrazzamenti a verde sotto ai quali si articolano gli ambienti di lavoro e ricreativi. Negli interni, materiali caldi e naturali come la terracotta, il calcestruzzo pigmentato di rosso e il cortén conferiscono agli spazi un’aura sacrale e senza tempo come in una cattedrale laica, dove i riti di un antico mondo contadino convivono con tecnologie industriali avanzate.
Baggio Piechaud, Cantina Ballande Meneret, Bordeaux, Francia 2013
L’intervento di rinnovamento di un preesistente magazzino acquistato dal committente nei boschi della penisola del Medoc rifugge in qualsiasi modo da un linguaggio mimetico e vernacolare: l’opera si configura come un monolitico blocco in cemento bianco costellato di punti luce a LED che brillano segnalando la presenza iconica e inusuale dell’architettura nel paesaggio agreste. Il calcestruzzo è miscelato con un agente autopulente che consente di preservare la luminosità delle facciate e riduce i costi di manutenzione. Uno specchio d'acqua poco profondo che circonda la struttura riflette l’immagine dell’edificio e sembra fare magicamente fluttuare la poderosa massa.
Ateliers Jean Nouvel, Château La Dominique, Saint Emilion, Francia 2014
Un’opera di land art: così appare questa cantina - ampliamento di un fienile in pietra esistente al centro del possedimento - che si inserisce tra le vigne con una geometria essenziale ed astratta: quattro pareti verticali a specchio e una terrazza/belvedere fluttuante sul paesaggio. Le facciate est e ovest sono in cemento rivestito da una serie di doghe orizzontali in acciaio inox lucidate e laccate di un rosso acceso, del colore del vino. La facciata nord è caratterizzata da un grande specchio che riflette le viti durante il giorno e rivela la sala della fermentazione nelle ore notturne. La copertura è una piastra orizzontale sottile, con la parte inferiore rivestita dello stesso materiale delle facciate.
Foster + Partners, Le Dôme winery, Bordeaux, Francia 2021
L’edificio immerso nelle dolci colline del Bordeaux si pone come una struttura all’avanguardia per promuovere un vino di fama internazionale. La costruzione, a impianto circolare, è connotata da combinazione di due rampe: una esterna per enfatizzare il rapporto percettivo con il paesaggio e l'altra interna per condurre il visitatore nelle diverse fasi del processo vinicolo. Una galleria al livello superiore, con tavoli di degustazione, wine bar e spazi di intrattenimento, offre una vista panoramica sui vigneti adiacenti. Un involucro esterno in calcestruzzo rivestito in legno avvolge gli spazi, mentre una copertura in legno di 40 metri di diametro, composta da travi inclinate e rivestimento in tegole di terracotta di riciclo, si apre in un oculo centrale di 6 metri di larghezza da cui filtra la luce naturale.
Studiopizzi, Cantina Vinicola Ceresé, Montevecchia, Lecco, Italia 2023
Situata nel mezzo del Parco Naturale di Montevecchia e della Valle del Curone, la struttura si colloca a ridosso di un pendio collinare, radicandosi nel terreno. Una geometria semplice definisce l’architettura, con rigoroso impianto rettangolare. Al livello inferiore si situano gli spazi destinati alla produzione e un ambiente culturale, al piano superiore una piazza per eventi affiancata da un volume vetrato. La copertura, traforata da una scala e sostenuta da sottili colonne – tutto di acciaio Corten – sembra fluttuare nell’aria e inquadrare i vigneti e i piccoli insediamenti rurali che punteggiano il paesaggio. L’opera ha vinto il Premio Italiano di Architettura 2024.
Santiago Calatrava architects & engineers, Bodegas Ysios, LaGuardia, Paesi Baschi, Spagna 2001
Concepita da un lato per rispondere alle esigenze del committente di spazi idonei per la produzione, lo stoccaggio e la vendita del vino e dall’altro come manifesto iconico per il prestigioso marchio “Rioja Alavesa", la cantina si situa in un contesto dall’orografia irregolare punteggiato da vigneti. Il chiaro e semplice impianto longitudinale si sviluppa in alzato con fronti poderosi rivestiti a nord da pannelli prefabbricati in cemento, a est e a ovest da lastre di alluminio, a sud da doghe di legno di cedro che ricordano le botti di vino. Una copertura sinusoidale in travi di legno lamellare e alluminio conferisce un carattere dinamico e scultoreo all’architettura.
Santiago Calatrava architects & engineers, Bodegas Ysios, LaGuardia, Paesi Baschi, Spagna 2001
Mario Botta, Cantina Petra, Suvereto (Livorno), Italia 2003
Il complesso si adagia in una tenuta di quasi 300 ettari di terreno tra colline e vigneti. L’opera è caratterizzata da un volume cilindrico centrale sezionato da un piano inclinato parallelo alla collina, attraversato da un’imponente scalinata e piantumato a verde in copertura, e da due fabbricati laterali porticati. Il piano terra ospita la barricaia, le zone per l’invecchiamento, la vinificazione, l’imbottigliamento e l’imballaggio e gli spazi di degustazione; il piano primo gli spazi per la pigiatura e i locali tecnologici. Con il suo rivestimento in pietra di Prun, l’opera evoca l’immagine di un fiore che sboccia nel cuore della Maremma.
Zaha Hadid architects, R. Lopez de Heredia Viña Tondonia, Haro, Paesi Baschi, Spagna 2006
Una “bottiglia nuova per un vino storico”: così è stato concepito l’intervento commissionato a Zaha Hadid da una delle più antiche e rinomate famiglie di viticultori della regione per proteggere e valorizzare un vecchio padiglione espositivo in legno originariamente trasportato alla Mostra Internazionale di Bruxelles del 1910 e da allora in disuso. L’architetto irachena ha così ideato un involucro dalle forme sinuose e avvolgenti che sembrano evocare un decanter, o una navicella spaziale atterrata nella Rioja.
Zaha Hadid architects, R. Lopez de Heredia Viña Tondonia, Haro, Paesi Baschi, Spagna 2006
Renzo Piano Building Workshop, Rocca di Frassinello, Gavorrano (Grosseto), Italia 2007
Un edificio schiettamente funzionale concepito per ottimizzare il processo produttivo viti-vinicolo dell’azienda ma anche per ospitare convegni, concerti ed eventi: questa la visione di Renzo Piano per la cantina nel cuore della Maremma che rivisita le tradizionali forme dell’architettura toscana in chiave contemporanea e con un linguaggio industriale. Il complesso è composto da una piazza aperta, un padiglione di vetro che ospita spazi amministrativi e commerciali, una torre che sovrasta la costruzione e da cui filtra la luce negli spazi ipogei, una cantina caratterizzata da una grande sala sotterranea, disposta ad anfiteatro, con una capacità di 2.500 botti di rovere. Vetro e terracotta incarnano la contaminazione tra processi industriali e tradizionali della vinificazione odierna.
Sartogo Architetti Associati, Tenuta Ammiraglia - Frescobaldi, Magliano in Toscana (Grosseto), Italia 2008
"Un lembo di terra sollevato per aprire una sottile e longilinea fessura nel declivio naturale del terreno (…): non una cantina ma una grande ala di gabbiano affacciata a sud che può godere di un microclima molto particolare per la vicinanza del mare”. Così gli architetti descrivono la loro opera, incastonata nel paesaggio della Maremma come un’ala di gabbiano, appunto, o come la prua di una nave che punta verso il mare. L’edificio industriale, perfettamente integrato tra le colline e ricoperto di verde e piante arboree, con le sue forme sinuose sembra volere abbracciare il paesaggio, in una sintesi perfetta tra artificio e natura.
Sartogo Architetti Associati, Tenuta Ammiraglia - Frescobaldi, Magliano in Toscana (Grosseto), Italia 2008
Foster + Partners, Bodegas Portia, Ribera del Duero, Spagna 2010
Il complesso situato in una delle più vivaci località di produzione vinicola della Spagna è caratterizzato da una geometria trilobata funzionale alle diverse fasi del processo produttivo: lavorazione, conservazione e mescita che si svolgono in ciascuno dei corpi di fabbrica. La struttura in cemento rivestita in scandole di acciaio cortén dal colore rossastro ricorda le accese e corpose cromie del vino.
Álvaro Siza, Quinta do Portal, Sabrosa, Portogallo 2010
La “Boutique Winery” dedicata alla produzione di vini DOC (dal Douro, al Porto al Moscatel), suddivisa in quattro piani, ospita al primo livello, quasi completamente interrato, un’area di stoccaggio e i servizi per il personale e i magazzini; al piano terra la seconda area di stoccaggio, gli spogliatoi e i servizi; al piano rialzato la reception e una sala di degustazione; a quello superiore, un auditorium. Il complesso rivestito esternamente in ardesia, pietra e sughero conserva un carattere “artificialmente naturale” che ben si inserisce tra i vigneti.
Christian de Portzamparc, Château Cheval Blanc, Bordeaux, Francia 2011
Per connotare l’immagine di una delle maggiori cantine del Bordeaux l’architetto ha pensato ad un volume sinuoso e avvolgente in cemento a vista. L’opera si configura come un maestoso “atelier del vino” di 5.500 mq sviluppato su due livelli: al primo piano sono collocate 52 vasche in cemento grezzo per la maturazione del vino ed una sala degustazioni; al piano interrato gli ambienti destinati alla produzione. L’edificio è stato progettato secondo criteri di sostenibilità, grazie alla presenza di una terrazza verde in copertura, allo studiato sistema di ventilazione e al meccanismo di filtraggio e reinserimento dell’acqua piovana.
Arnaldo Pomodoro, Tenuta Castelbuono – Tenute Lunelli, Bevagna (Perugia), Italia 2012
Nella campagna umbra, il “Carapace” di Arnaldo Pomodoro è un’opera a metà strada tra arte e architettura: una scultura “abitata” in cui artificio e natura si fondono mirabilmente. La grande cupola rivestita di rame e incisa di crepe che evocano la terra da cui la costruzione scaturisce racchiude un interno dall’atmosfera crepuscolare come all’interno del ventre di un animale primordiale, con una maestosa struttura di archi a tre cerniere in travi reticolari di legno lamellare e arredamenti di un rosso brillante che evocano le foglie della vite.
Archea Associati, Cantina Antinori, San Casciano Val di Pesa (Firenze), Italia 2012
Letteralmente immersa nel morbido paesaggio collinare del Chianti, la Cantina Antinori è prima di tutto un esperimento “geo-morfologico”: scavato fino a 15 metri nel fianco della collina, il complesso di quasi 45000 mq è per la maggior parte ipogeo e quasi invisibile dall’esterno, se non per le fenditure orizzontali che seguono i terrazzamenti a verde sotto ai quali si articolano gli ambienti di lavoro e ricreativi. Negli interni, materiali caldi e naturali come la terracotta, il calcestruzzo pigmentato di rosso e il cortén conferiscono agli spazi un’aura sacrale e senza tempo come in una cattedrale laica, dove i riti di un antico mondo contadino convivono con tecnologie industriali avanzate.
Baggio Piechaud, Cantina Ballande Meneret, Bordeaux, Francia 2013
L’intervento di rinnovamento di un preesistente magazzino acquistato dal committente nei boschi della penisola del Medoc rifugge in qualsiasi modo da un linguaggio mimetico e vernacolare: l’opera si configura come un monolitico blocco in cemento bianco costellato di punti luce a LED che brillano segnalando la presenza iconica e inusuale dell’architettura nel paesaggio agreste. Il calcestruzzo è miscelato con un agente autopulente che consente di preservare la luminosità delle facciate e riduce i costi di manutenzione. Uno specchio d'acqua poco profondo che circonda la struttura riflette l’immagine dell’edificio e sembra fare magicamente fluttuare la poderosa massa.
Ateliers Jean Nouvel, Château La Dominique, Saint Emilion, Francia 2014
Un’opera di land art: così appare questa cantina - ampliamento di un fienile in pietra esistente al centro del possedimento - che si inserisce tra le vigne con una geometria essenziale ed astratta: quattro pareti verticali a specchio e una terrazza/belvedere fluttuante sul paesaggio. Le facciate est e ovest sono in cemento rivestito da una serie di doghe orizzontali in acciaio inox lucidate e laccate di un rosso acceso, del colore del vino. La facciata nord è caratterizzata da un grande specchio che riflette le viti durante il giorno e rivela la sala della fermentazione nelle ore notturne. La copertura è una piastra orizzontale sottile, con la parte inferiore rivestita dello stesso materiale delle facciate.
Foster + Partners, Le Dôme winery, Bordeaux, Francia 2021
L’edificio immerso nelle dolci colline del Bordeaux si pone come una struttura all’avanguardia per promuovere un vino di fama internazionale. La costruzione, a impianto circolare, è connotata da combinazione di due rampe: una esterna per enfatizzare il rapporto percettivo con il paesaggio e l'altra interna per condurre il visitatore nelle diverse fasi del processo vinicolo. Una galleria al livello superiore, con tavoli di degustazione, wine bar e spazi di intrattenimento, offre una vista panoramica sui vigneti adiacenti. Un involucro esterno in calcestruzzo rivestito in legno avvolge gli spazi, mentre una copertura in legno di 40 metri di diametro, composta da travi inclinate e rivestimento in tegole di terracotta di riciclo, si apre in un oculo centrale di 6 metri di larghezza da cui filtra la luce naturale.
Studiopizzi, Cantina Vinicola Ceresé, Montevecchia, Lecco, Italia 2023
Situata nel mezzo del Parco Naturale di Montevecchia e della Valle del Curone, la struttura si colloca a ridosso di un pendio collinare, radicandosi nel terreno. Una geometria semplice definisce l’architettura, con rigoroso impianto rettangolare. Al livello inferiore si situano gli spazi destinati alla produzione e un ambiente culturale, al piano superiore una piazza per eventi affiancata da un volume vetrato. La copertura, traforata da una scala e sostenuta da sottili colonne – tutto di acciaio Corten – sembra fluttuare nell’aria e inquadrare i vigneti e i piccoli insediamenti rurali che punteggiano il paesaggio. L’opera ha vinto il Premio Italiano di Architettura 2024.
Da Foster a Nouvel, da Calatrava ad Hadid, una rassegna di progetti eccellenti che fanno da casa ad alcuni dei vini più celebri del pianeta. Continua a leggere
08
Un secolo di evoluzione della casa minima in 9 esempi d’autore
La casa minima non è un tema dell’architettura di tutti i tempi. Nel mondo occidentale la cultura del progetto associa una taglia specifica, minima appunto, a una funzione, l’abitazione, solo da un secolo o poco più. La casa minima è innanzitutto la prima casa per tutti. Dalla fine degli anni ‘10 del secolo scorso i maestri del Movimento Moderno, variamente socialisti e progressisti, progettano da un lato grandi ville-manifesto per una committenza benestante e colta, dall’altro alloggi ridottissimi ma finalmente “dignitosi” da riprodurre in centinaia, migliaia, milioni di esemplari. L’existenzminimum modernista, nelle sue tante varianti, è piccolo e senza fronzoli perché solo a queste condizioni può essere industrializzato e costruito in quantità realmente democratiche. Continua a leggere
09
A casa di Nicola Lagioia
“Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando” diceva Joseph Conrad, l’autore di Cuore di Tenebra. Non è certo il caso di Nicola Lagioia – o meglio – a sua moglie, la scrittrice Chiara Tagliaferri, non deve dare nessuna spiegazione perché oltre alla vita, in questa casa romana, condividono la stessa professione. Tra tutti i lavori, o vocazioni, l’essere scrittore è sicuramente una condizione dove la distinzione tra lavoro e vita privata è fisiologicamente impossibile. Continua a leggere
10
Brad Pitt ha comprato la Steel House a Los Angeles per 5 milioni e mezzo di dollari
Rimasto senza un punto d’appoggio a Los Angeles, Brad Pitt – da sempre grande appassionato d’architettura – ha acquistato una delle ville che hanno fatto la storia della città: la Steel House, un padiglione in vetro e acciaio costruito nel 1960 tra le colline di Los Feliz e progettato dal poco noto Neil M. Johnson. Continua a leggere
11
In vendita villa di Jean Nouvel nella “presqu’île des milliardaires”
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
Villa Grand Cap. Saint-Jean-Cap-Ferrat, France.
Image courtesy of Sotheby’s International Realty.
In Costa Azzurra, sulle colline di Saint-Jean-Cap-Ferrat, è stata messa in vendita la Villa Grand Cap, progettata dall’architetto e designer francese Jean Nouvel, per 46 milioni di euro. La casa, di 545 metri quadri, si sviluppa su cinque livelli, ed è caratterizzata da una struttura in acciaio che sorregge un grande tetto vetrato, capace dar vita a uno straordinario dialogo con la natura circostante e di inondare ogni ambiente di luce. Continua a leggere
12
7 stazioni ferroviarie, da Roma a Hong Kong, da Calatrava a Zaha Hadid
ABDR architetti associati, Stazione Alta Velocità Roma Tiburtina, Roma, Italia 2011
Situata in uno dei nodi cruciali dello sviluppo metropolitano della capitale, la Stazione è stata progettata - oltre che per assolvere alle esigenze di nodo strategico per il traffico internazionale e regionale - anche come “piazza urbana” in grado di ricucire la cesura tra i quartieri Nomentano e Pietralata da sempre separati dal tracciato ferroviario. L’edificio a “ponte”, ispirato alla tipologia dei passages ottocenteschi, è un imponente volume lungo circa 350 m e largo 60 m, sospeso sui binari ed appoggiato sui due atrii di ingresso da Nomentano e Pietralata. Una vasta copertura metallica costituita da una struttura reticolare estradossata funge da protezione e schermatura dei fronti interamente vetrati, a cui sono sospesi i blocchi che ospitano vip lounges, internet offices, uffici e ristoranti.
Team CS (Benthem Crouwel Architects, MVSA Meyer en van Schooten Architecten, West 8), Rotterdam Centraal Station, Rotterdam, Paesi Bassi 2013
Con oltre 110.000 passeggeri al giorno, Rotterdam Centraal Station è uno dei principali hub di trasporto dei Paesi Bassi. La realizzazione dell’imponente edificio è stata l’occasione per effettuare la ricucitura di un tessuto urbano eterogeneo: se sul lato sud, in adiacenza ad un quartiere residenziale di minore passaggio, il fronte è sobrio e trasparente, sul lato nord l’opera si connota come iconica “porta” di ingresso alla città, con un volume aerodinamico vetrato e interamente rivestito in acciaio. All’interno, un ambiente arioso e luminoso accoglie i viaggiatori: una trama di colonne in acciaio a “Y” sostiene la copertura trasparente della lunghezza di 250 m, composta da elementi vetrati integrati con celle solari.
Team CS (Benthem Crouwel Architects, MVSA Meyer en van Schooten Architecten, West 8), Rotterdam Centraal Station, Rotterdam, Paesi Bassi 2013
AREP, Silvio d'Ascia, Agostino Magnaghi, Torino Porta Susa, Torino, Italia 2013
Porta di accesso al capoluogo piemontese per chi viaggia sui treni AV, l’edificio lungo 386 m e largo 30 m reinterpreta in chiave contemporanea i passages del XIX, tipologia edilizia consolidata nel tessuto urbano torinese. L’opera, sostenuta da 106 arcate, è una vera e propria galleria urbana dove sostare tra ristoranti, bar e negozi e assomiglia a un lungo tubo di vetro e acciaio con un involucro dalla tecnologia “intelligente”: le celle fotovoltaiche monocristalline integrate nelle lastre di vetro creano uno schermo frangi-sole di densità variabile, producendo energia per 680.000 KWh/anno e contribuendo al comfort ambientale.
Santiago Calatrava architects & engineers, Stazione Mediopadana, Reggio Emilia, Italia 2013
La stazione Mediopadana, unica fermata della linea dell’Alta Velocità nella tratta Milano-Bologna, ha un ruolo di importanza strategica nel sistema della mobilità regionale, nazionale ed internazionale ed è una presenza iconica per chi viaggia sull’autostrada A1. Con il suo gigantesco volume a “onda”, composto da 19 moduli costituiti da una successione serrata di portali d’acciaio sfalsati e distanziati a creare un effetto di accentuato dinamismo, è un landmark che si staglia vigorosamente nel piatto skyline della Pianura Padana e, in coerenza con la sua vocazione funzionale e un po’ futurista, si percepisce al meglio da una prospettiva in movimento.
Santiago Calatrava architects & engineers, Stazione Mediopadana, Reggio Emilia, Italia 2013
Zaha Hadid Architects, Stazione di Napoli-Afragola, Napoli, Italia 2017
Una delle principali stazioni di interscambio dell'Italia meridionale, l’edificio con una lunghezza di circa 400 m e una larghezza di circa 44 m, con struttura in cemento armato e acciaio, rivestimento di Corian e pannelli vetrati, è un “ponte” progettato con l’intento di superare la barriera della linea ferroviaria esistente: le forme fluide e avvolgenti, vagamente zoomorfe tanto da ricordare lo scheletro di un dinosauro dormiente sui binari, accolgono i visitatori in un ambiente luminoso e avveniristico. Pannelli solari integrati nella copertura delle pensiline, ventilazione combinata e sistemi integrati di raffreddamento e riscaldamento permettono di ridurre al minimo il fabbisogno energetico annuale.
Andrew Bromberg Architects, Hong Kong West Kowloon Terminus, Hong Kong, Cina 2018
A Hong Kong, una delle metropoli più sovraffollate e congestionate del pianeta, la stazione KWT non è solo un importante nodo di collegamento ferroviario a scala nazionale e internazionale ma anche un parco urbano che ha incrementato del 15% la dotazione di verde della città. Il complesso, una struttura di 180 metri di lunghezza, con una larghezza media di 65 metri e 15 binari, è la più grande stazione ferroviaria sotterranea al mondo e include oltre 3 ettari di parco, per un totale di 6 ettari di spazi aperti. Se all’esterno i visitatori passeggiano sulle coperture dalle morbide forme curvilinee punteggiate di verde, esplorando lo skyline urbano da diverse prospettive, all’interno un’esplosione di vetro e acciaio incornicia uno spazio maestoso e brulicante ma per nulla intimidatorio, grazie all’atmosfera gradevolmente inondata di luce e ai toni rarefatti.
Silvio d'Ascia architecture con Omar Kobbité Architectes, stazione di Kénitra, Marocco 2018
La stazione di Kénitra, una delle quattro della linea ferroviaria AV che collega Tangeri a Casablanca passando per Kénitra e per Rabat, rientra in un ambizioso progetto di sviluppo socio-economico e tecnologico del territorio marocchino. Concepita come trait-d'union tra città nuova e tessuto storico grazie alle passerelle che scavalcano i binari e riconnettono le due parti di città, il complesso su tre livelli e uno interrato è articolato attorno ad una hall a tripla altezza che è l’epicentro rappresentativo e funzionale del luogo, da cui direzionarsi ai binari o dove sostare per un tè. In omaggio all’architettura dei paesi islamici ed in particolare all’elemento della mashrabiyya, tradizionale griglia che filtra luce, ventilazione e sguardi indiscreti, l’involucro è concepito come un grande schermo ad elementi triangolari in cemento fibro-rinforzato ad alte prestazioni, che regola il comfort termico dell’edificio tra suggestivi giochi chiaroscurali.
ABDR architetti associati, Stazione Alta Velocità Roma Tiburtina, Roma, Italia 2011
Situata in uno dei nodi cruciali dello sviluppo metropolitano della capitale, la Stazione è stata progettata - oltre che per assolvere alle esigenze di nodo strategico per il traffico internazionale e regionale - anche come “piazza urbana” in grado di ricucire la cesura tra i quartieri Nomentano e Pietralata da sempre separati dal tracciato ferroviario. L’edificio a “ponte”, ispirato alla tipologia dei passages ottocenteschi, è un imponente volume lungo circa 350 m e largo 60 m, sospeso sui binari ed appoggiato sui due atrii di ingresso da Nomentano e Pietralata. Una vasta copertura metallica costituita da una struttura reticolare estradossata funge da protezione e schermatura dei fronti interamente vetrati, a cui sono sospesi i blocchi che ospitano vip lounges, internet offices, uffici e ristoranti.
Team CS (Benthem Crouwel Architects, MVSA Meyer en van Schooten Architecten, West 8), Rotterdam Centraal Station, Rotterdam, Paesi Bassi 2013
Con oltre 110.000 passeggeri al giorno, Rotterdam Centraal Station è uno dei principali hub di trasporto dei Paesi Bassi. La realizzazione dell’imponente edificio è stata l’occasione per effettuare la ricucitura di un tessuto urbano eterogeneo: se sul lato sud, in adiacenza ad un quartiere residenziale di minore passaggio, il fronte è sobrio e trasparente, sul lato nord l’opera si connota come iconica “porta” di ingresso alla città, con un volume aerodinamico vetrato e interamente rivestito in acciaio. All’interno, un ambiente arioso e luminoso accoglie i viaggiatori: una trama di colonne in acciaio a “Y” sostiene la copertura trasparente della lunghezza di 250 m, composta da elementi vetrati integrati con celle solari.
Team CS (Benthem Crouwel Architects, MVSA Meyer en van Schooten Architecten, West 8), Rotterdam Centraal Station, Rotterdam, Paesi Bassi 2013
AREP, Silvio d'Ascia, Agostino Magnaghi, Torino Porta Susa, Torino, Italia 2013
Porta di accesso al capoluogo piemontese per chi viaggia sui treni AV, l’edificio lungo 386 m e largo 30 m reinterpreta in chiave contemporanea i passages del XIX, tipologia edilizia consolidata nel tessuto urbano torinese. L’opera, sostenuta da 106 arcate, è una vera e propria galleria urbana dove sostare tra ristoranti, bar e negozi e assomiglia a un lungo tubo di vetro e acciaio con un involucro dalla tecnologia “intelligente”: le celle fotovoltaiche monocristalline integrate nelle lastre di vetro creano uno schermo frangi-sole di densità variabile, producendo energia per 680.000 KWh/anno e contribuendo al comfort ambientale.
Santiago Calatrava architects & engineers, Stazione Mediopadana, Reggio Emilia, Italia 2013
La stazione Mediopadana, unica fermata della linea dell’Alta Velocità nella tratta Milano-Bologna, ha un ruolo di importanza strategica nel sistema della mobilità regionale, nazionale ed internazionale ed è una presenza iconica per chi viaggia sull’autostrada A1. Con il suo gigantesco volume a “onda”, composto da 19 moduli costituiti da una successione serrata di portali d’acciaio sfalsati e distanziati a creare un effetto di accentuato dinamismo, è un landmark che si staglia vigorosamente nel piatto skyline della Pianura Padana e, in coerenza con la sua vocazione funzionale e un po’ futurista, si percepisce al meglio da una prospettiva in movimento.
Santiago Calatrava architects & engineers, Stazione Mediopadana, Reggio Emilia, Italia 2013
Zaha Hadid Architects, Stazione di Napoli-Afragola, Napoli, Italia 2017
Una delle principali stazioni di interscambio dell'Italia meridionale, l’edificio con una lunghezza di circa 400 m e una larghezza di circa 44 m, con struttura in cemento armato e acciaio, rivestimento di Corian e pannelli vetrati, è un “ponte” progettato con l’intento di superare la barriera della linea ferroviaria esistente: le forme fluide e avvolgenti, vagamente zoomorfe tanto da ricordare lo scheletro di un dinosauro dormiente sui binari, accolgono i visitatori in un ambiente luminoso e avveniristico. Pannelli solari integrati nella copertura delle pensiline, ventilazione combinata e sistemi integrati di raffreddamento e riscaldamento permettono di ridurre al minimo il fabbisogno energetico annuale.
Andrew Bromberg Architects, Hong Kong West Kowloon Terminus, Hong Kong, Cina 2018
A Hong Kong, una delle metropoli più sovraffollate e congestionate del pianeta, la stazione KWT non è solo un importante nodo di collegamento ferroviario a scala nazionale e internazionale ma anche un parco urbano che ha incrementato del 15% la dotazione di verde della città. Il complesso, una struttura di 180 metri di lunghezza, con una larghezza media di 65 metri e 15 binari, è la più grande stazione ferroviaria sotterranea al mondo e include oltre 3 ettari di parco, per un totale di 6 ettari di spazi aperti. Se all’esterno i visitatori passeggiano sulle coperture dalle morbide forme curvilinee punteggiate di verde, esplorando lo skyline urbano da diverse prospettive, all’interno un’esplosione di vetro e acciaio incornicia uno spazio maestoso e brulicante ma per nulla intimidatorio, grazie all’atmosfera gradevolmente inondata di luce e ai toni rarefatti.
Silvio d'Ascia architecture con Omar Kobbité Architectes, stazione di Kénitra, Marocco 2018
La stazione di Kénitra, una delle quattro della linea ferroviaria AV che collega Tangeri a Casablanca passando per Kénitra e per Rabat, rientra in un ambizioso progetto di sviluppo socio-economico e tecnologico del territorio marocchino. Concepita come trait-d'union tra città nuova e tessuto storico grazie alle passerelle che scavalcano i binari e riconnettono le due parti di città, il complesso su tre livelli e uno interrato è articolato attorno ad una hall a tripla altezza che è l’epicentro rappresentativo e funzionale del luogo, da cui direzionarsi ai binari o dove sostare per un tè. In omaggio all’architettura dei paesi islamici ed in particolare all’elemento della mashrabiyya, tradizionale griglia che filtra luce, ventilazione e sguardi indiscreti, l’involucro è concepito come un grande schermo ad elementi triangolari in cemento fibro-rinforzato ad alte prestazioni, che regola il comfort termico dell’edificio tra suggestivi giochi chiaroscurali.
“Fondere tutte le campane per farne altrettante rotaie di nuovi treni ultra-veloci”: se fosse ancora tra noi, a Filippo Tommaso Marinetti brillerebbero gli occhi nel vedere i treni e le stazioni dell’Alta Velocità, manifesto dello spettacolare progresso della tecnologia meccanica e infrastrutturale da lui tanto auspicato. Continua a leggere
13
La guida di Domus a CityLife
Già negli anni ’60 Gio Ponti spiegava in una celebre intervista televisiva che uno skyline riuscito non comprende grattacieli isolati, ma gruppi di edifici alti che si osservano a distanza al di sopra del tessuto urbano. Se all’epoca erano in costruzione a Milano le poche torri del Centro Direzionale previsto dal Piano Regolatore del 1953, solo tra gli anni 2000 e 2010 si realizzano nel capoluogo lombardo un paio dei “grappoli” immaginati da Ponti, corrispondenti ad altrettante operazioni urbanistiche di grande scala: Porta Nuova e CityLife. Continua a leggere
14
“Acchiappare il desiderio per la coda”: il Palladium di New York
Sono bastati meno di tre anni, dal 1977 al 1980, per capovolgere non solo l'immaginario mondiale del clubbing ma per liberare un’intera rivoluzione, estetica e sociale. Sono i disco years, i tre anni di riferimento sono quelli dello Studio 54 di New York (ma non sarà solo, tra Paradise Garage e altri club icona). Finiti questi anni lo Studio chiude, i fondatori Steve Rubell e Ian Schrager attraversano un discreto mare di guai con la legge, e per la metà degli anni ‘80 sono pronti a scrivere un altro capitolo di storia della cultura: ma è cambiato tutto, è cambiata New York, è cambiat la società coi suoi desideri. Continua a leggere
15
Questo sarà il primo grattacielo greco, progettato da Foster + Partners
Lamda Development ha presentato il progetto dell’Athens Riviera Tower, il primo grattacielo che verrà costruito in Grecia, progettato da Foster + Partners a Hellinikon, il più grande progetto di rigenerazione urbana europeo, sul sito dell’ex aeroporto a sud di Atene, con un parco da 400 ettari, residenze di lusso, hotel, un casinò, un porto turistico, spazi commerciali e per uffici. Continua a leggere
16
10 grandi installazioni da non perdere alla Milano Design Week 2023
1. Franco Mazzucchelli: Aria, terra, acqua
Torna a Milano l’artista Franco Mazzucchelli, noto dagli anni sessanta per la creazione di sculture gonfiabili in PVC, spesso esposte in spazi urbani e naturali o su specchi d’acqua. L’artista torna a Milano con “Aria, terra, acqua”, a cura di Marina Pugliese e Alessandro Oldani con la collaborazione di Gianmarco Cugusi. Il progetto espositivo prevede l’allestimento di due opere. Nel giardino di Triennale Milano, Mazzucchelli interviene con un’installazione dal titolo “Aperta parentesi”, dove due grandi archi fissati al terreno alludono a una parentesi tonda, una pausa spaziale che delimita una selezione degli iconici gonfiabili dell’artista. La seconda installazione è “Elica”, una scultura gonfiabile collocata sulla Darsena dei Navigli.
2. Italo Rota e Carlo Ratti: Walk the Talk – Moving Energy, Giardino Botanico Brera
Gli architetti italiani Italo Rota e Carlo Ratti creeranno per l’edizione di quest’anno un’installazione per l’azienda energetica Eni dal titolo Walk the Talk - Moving Energy. La mostra riflette il tema del fuorisalone Future Laboratory ed esplora lo sviluppo della mobilità. L’installazione è composta da centinaia di piastrelle che creano un percorso interattivo tra i viali dell’Orto Botanico di Brera, utilizzando la luce e il suono per trasformare il giardino a seconda dell’ora del giorno. Sviluppato in collaborazione con il collettivo di game designer Blob Factory Gaming Studio, Walk the Talk affronta temi come la trasformazione della mobilità in senso sostenibile.
3. Michele de Lucchi e AMDL Circle: The Sea Deck, Darsena
Michele de Lucchi e il suo studio AMDL Circle propongono per Azimut Yachts una passeggiata galleggiante sulla Darsena di Milano. Chiamata The Sea Deck, l’architettura galleggiante è stata pensata per accogliere i visitatori durante la settimana, ed è stata disegnata per “riportare l'esperienza delle antiche vie d'acqua navigabili nella città di Milano”. Il ponte è realizzato con tappi di bottiglia riciclati e macinati ed è stato creato per celebrare la serie di yacht a motore ibridi Seadeck di Azimut Yachts.
4. Gaetano Pesce,:Vieni a Vedere, Bottega Veneta
Il designer italiano Gaetano Pesce torna con la collaborazione con la casa di moda Bottega Veneta, dopo i primi due incontri durante la Settimana della Moda di Milano 2022 e l'ultimo evento Design Miami/. Per questo Fuorisalone, Pesce crea un’installazione immersiva per lo showroom di Milano: realizzata in resina e tessuto, è stata progettata per assomigliare a una stretta grotta. Farà da cornice a una collezione di borse realizzate da Bottega Veneta sulla base dei disegni dello stesso Pesce, che raffigurano montagne con alle spalle l’alba o il tramonto.
5. SolidNature: Beyond the Surface, Spazio Cernaia
Il marchio olandese di materiali SolidNature presenta presso lo Spazio Cernaia nel Brera Design District – nel suo giardino e piano sotterraneo – un’installazione progettata da Ellen Van Loon e Giulio Margheri dello studio di architettura Office for Metropolitan Architecture (OMA) di Rotterdam. All’interno di una mostra collettiva insieme alle opere della designer olandese Sabine Marcelis e dell’artista iraniana Bita Fayyazi, “Beyond the Surface” è paesaggio onirico e immersivo, disegnato come un parallelo tra la nascita e l’estrazione della pietra naturale e la realizzazione dei sogni. All’interno della mostra, i visitatori possono scoprire la storia della formazione geologica della pietra, dalla metamorfosi della terra ai macchinari high-tech per la finitura della pietra utilizzati oggi.
6. Panter & Tourron, Softscope, Spazio Maiocchi
Nel cortile di Spazio Maiocchi, lo studio di design Panter & Tourron di Losanna presenta per Xl Extralight un’installazione architettonica urbana. Progetto partito dalla reinterpretazione creativa del nuovo materiale Organix 3.0 dell’azienda, i designer, noti per il loro lavoro all’intersezione tra tecnologia e società, hanno concepito un interno pseudo-domestico: in parte pozzo di conversazione, in parte palcoscenico pubblico. Il monolite piramidale invita gli utenti a sedersi e rilassarsi sulla panca bassa che delimita il perimetro o nella sezione centrale scavata, completa di sedute integrate.
7. Grohe: Health Through Water, Pinacoteca di Brera
Nella corte della celebre pinacoteca Grohe costruisce un’esperienza immersiva e multisensoriale. Dal nome “Health Through Water”, l’installazione rifletterà tramite specchi d’acqua la storica architettura, mentre quattro cubi immersivi rivelano i progetti del marchio per il bagno.
8. Ingo Maurer: Light-Floating Reflection, Porta Nuova
L'azienda fondata dal designer industriale Ingo Maurer, morto nel 2019, proporrà un’affascinante installazione luminosa all’aperto a Porta Nuova, presso i Caselli 11-12, mentre i nuovi prodotti vengono presentati negli edifici dell’antica porta della città. L’installazione crea un’impressionante simbiosi tra arte (della luce) e architettura, dimostrando la capacità di Ingo Maurer di passare con disinvoltura da concetti di illuminazione tradizionali a allestimenti sperimentali e innovativi.
9. Atelier Luma: Bioregional Design Practices, Alcova
Il laboratorio di biodesign Atelier Luma allestisce una mostra con cinque grandi installazioni e oggetti sperimentali presso lo spazio Alcova, ora ospitato quest’anno dall’ex mattatoio di Porta Vittoria in via Molise. Le installazioni sono realizzate con sottoprodotti agricoli, alghe, paglia di riso, sale e tessuti, mentre gli oggetti sono creati con materiali da costruzione, tessuti, guaine di palma e scarpe a base vegetale. La fiera del design Alcova torna a Milano per la sua quinta edizione quest'anno presentando inoltre oltre 70 progetti di marchi e studi internazionali.
10. Piero Lissoni: La macchina impossibile, Università degli Studi
Tra le tante installazioni che popoleranno la frequentatissima Università degli Studi di Milano durante questa Design Week, segnaliamo la “Macchina Impossibile”, progettata da Piero Lissoni. Progetto ideato per Sanlorenzo, racconta il futuro della propulsione degli yacht. L’installazione, concepita per raccontare la ricerca di sempre nuove soluzioni tecnologiche ai problemi legati all'impatto ambientale della nautica da diporto, è costituita da un'imponente struttura metallica, curata in ogni dettaglio. Con le sue grandi eliche e le ruote dentellate in movimento e grazie a un sistema di retroilluminazione, attira l'attenzione dello spettatore sul sistema a idrogeno con cui è alimentata.
1. Franco Mazzucchelli: Aria, terra, acqua
Torna a Milano l’artista Franco Mazzucchelli, noto dagli anni sessanta per la creazione di sculture gonfiabili in PVC, spesso esposte in spazi urbani e naturali o su specchi d’acqua. L’artista torna a Milano con “Aria, terra, acqua”, a cura di Marina Pugliese e Alessandro Oldani con la collaborazione di Gianmarco Cugusi. Il progetto espositivo prevede l’allestimento di due opere. Nel giardino di Triennale Milano, Mazzucchelli interviene con un’installazione dal titolo “Aperta parentesi”, dove due grandi archi fissati al terreno alludono a una parentesi tonda, una pausa spaziale che delimita una selezione degli iconici gonfiabili dell’artista. La seconda installazione è “Elica”, una scultura gonfiabile collocata sulla Darsena dei Navigli.
2. Italo Rota e Carlo Ratti: Walk the Talk – Moving Energy, Giardino Botanico Brera
Gli architetti italiani Italo Rota e Carlo Ratti creeranno per l’edizione di quest’anno un’installazione per l’azienda energetica Eni dal titolo Walk the Talk - Moving Energy. La mostra riflette il tema del fuorisalone Future Laboratory ed esplora lo sviluppo della mobilità. L’installazione è composta da centinaia di piastrelle che creano un percorso interattivo tra i viali dell’Orto Botanico di Brera, utilizzando la luce e il suono per trasformare il giardino a seconda dell’ora del giorno. Sviluppato in collaborazione con il collettivo di game designer Blob Factory Gaming Studio, Walk the Talk affronta temi come la trasformazione della mobilità in senso sostenibile.
3. Michele de Lucchi e AMDL Circle: The Sea Deck, Darsena
Michele de Lucchi e il suo studio AMDL Circle propongono per Azimut Yachts una passeggiata galleggiante sulla Darsena di Milano. Chiamata The Sea Deck, l’architettura galleggiante è stata pensata per accogliere i visitatori durante la settimana, ed è stata disegnata per “riportare l'esperienza delle antiche vie d'acqua navigabili nella città di Milano”. Il ponte è realizzato con tappi di bottiglia riciclati e macinati ed è stato creato per celebrare la serie di yacht a motore ibridi Seadeck di Azimut Yachts.
4. Gaetano Pesce,:Vieni a Vedere, Bottega Veneta
Il designer italiano Gaetano Pesce torna con la collaborazione con la casa di moda Bottega Veneta, dopo i primi due incontri durante la Settimana della Moda di Milano 2022 e l'ultimo evento Design Miami/. Per questo Fuorisalone, Pesce crea un’installazione immersiva per lo showroom di Milano: realizzata in resina e tessuto, è stata progettata per assomigliare a una stretta grotta. Farà da cornice a una collezione di borse realizzate da Bottega Veneta sulla base dei disegni dello stesso Pesce, che raffigurano montagne con alle spalle l’alba o il tramonto.
5. SolidNature: Beyond the Surface, Spazio Cernaia
Il marchio olandese di materiali SolidNature presenta presso lo Spazio Cernaia nel Brera Design District – nel suo giardino e piano sotterraneo – un’installazione progettata da Ellen Van Loon e Giulio Margheri dello studio di architettura Office for Metropolitan Architecture (OMA) di Rotterdam. All’interno di una mostra collettiva insieme alle opere della designer olandese Sabine Marcelis e dell’artista iraniana Bita Fayyazi, “Beyond the Surface” è paesaggio onirico e immersivo, disegnato come un parallelo tra la nascita e l’estrazione della pietra naturale e la realizzazione dei sogni. All’interno della mostra, i visitatori possono scoprire la storia della formazione geologica della pietra, dalla metamorfosi della terra ai macchinari high-tech per la finitura della pietra utilizzati oggi.
6. Panter & Tourron, Softscope, Spazio Maiocchi
Nel cortile di Spazio Maiocchi, lo studio di design Panter & Tourron di Losanna presenta per Xl Extralight un’installazione architettonica urbana. Progetto partito dalla reinterpretazione creativa del nuovo materiale Organix 3.0 dell’azienda, i designer, noti per il loro lavoro all’intersezione tra tecnologia e società, hanno concepito un interno pseudo-domestico: in parte pozzo di conversazione, in parte palcoscenico pubblico. Il monolite piramidale invita gli utenti a sedersi e rilassarsi sulla panca bassa che delimita il perimetro o nella sezione centrale scavata, completa di sedute integrate.
7. Grohe: Health Through Water, Pinacoteca di Brera
Nella corte della celebre pinacoteca Grohe costruisce un’esperienza immersiva e multisensoriale. Dal nome “Health Through Water”, l’installazione rifletterà tramite specchi d’acqua la storica architettura, mentre quattro cubi immersivi rivelano i progetti del marchio per il bagno.
8. Ingo Maurer: Light-Floating Reflection, Porta Nuova
L'azienda fondata dal designer industriale Ingo Maurer, morto nel 2019, proporrà un’affascinante installazione luminosa all’aperto a Porta Nuova, presso i Caselli 11-12, mentre i nuovi prodotti vengono presentati negli edifici dell’antica porta della città. L’installazione crea un’impressionante simbiosi tra arte (della luce) e architettura, dimostrando la capacità di Ingo Maurer di passare con disinvoltura da concetti di illuminazione tradizionali a allestimenti sperimentali e innovativi.
9. Atelier Luma: Bioregional Design Practices, Alcova
Il laboratorio di biodesign Atelier Luma allestisce una mostra con cinque grandi installazioni e oggetti sperimentali presso lo spazio Alcova, ora ospitato quest’anno dall’ex mattatoio di Porta Vittoria in via Molise. Le installazioni sono realizzate con sottoprodotti agricoli, alghe, paglia di riso, sale e tessuti, mentre gli oggetti sono creati con materiali da costruzione, tessuti, guaine di palma e scarpe a base vegetale. La fiera del design Alcova torna a Milano per la sua quinta edizione quest'anno presentando inoltre oltre 70 progetti di marchi e studi internazionali.
10. Piero Lissoni: La macchina impossibile, Università degli Studi
Tra le tante installazioni che popoleranno la frequentatissima Università degli Studi di Milano durante questa Design Week, segnaliamo la “Macchina Impossibile”, progettata da Piero Lissoni. Progetto ideato per Sanlorenzo, racconta il futuro della propulsione degli yacht. L’installazione, concepita per raccontare la ricerca di sempre nuove soluzioni tecnologiche ai problemi legati all'impatto ambientale della nautica da diporto, è costituita da un'imponente struttura metallica, curata in ogni dettaglio. Con le sue grandi eliche e le ruote dentellate in movimento e grazie a un sistema di retroilluminazione, attira l'attenzione dello spettatore sul sistema a idrogeno con cui è alimentata.
Le grandi installazioni alla Milano Design Week sono quei progetti che il pubblico, soprattutto quello dei non addetti ai lavori, ama, perché lo riavvicina al mondo del design. Colmano in qualche modo il vuoto tra le antiche aspirazioni democratiche del design e il fatto che alla fine oggi è diventato una nicchia. Il paradosso è che le grandi installazioni sono quelle che designer e professionisti di settore spesso odiano, perché distolgono l’attenzione dal loro lavoro con operazioni di una scala accessibile solo a pochi. Continua a leggere
17
8 serie tv che ogni architetto o designer dovrebbe vedere
We are who we are
Ideatori: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway, Italia/USA, 2020, HBO Sky Atlantic
We are who we are
Ideatori: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway, Italia/USA, 2020, HBO Sky Atlantic
We are who we are
Ideatori: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway, Italia/USA, 2020, HBO Sky Atlantic
We are who we are
Ideatori: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway, Italia/USA, 2020, HBO Sky Atlantic
La serialità televisiva è uno dei fenomeni più interessanti del nostro tempo. Attorno alla fruizione delle serie tv si formano immaginari e visioni del mondo in una dimensione transgenerazionale e ibrida. La ripetizione e la dilatazione dei contenuti sono sicuramente le caratteristiche strategiche che tengono un pubblico sempre più ampio incollato ai vari device (pc, tv, smartphone, tablet). Continua a leggere
18
10 case di celebrità disegnate da grandi architetti
Adolf Loos per Joséphine Baker, “Piccolo Varietà” (non realizzata), Parigi, Francia 1927
Quando il maestro del raumplan - il principio compositivo basato sull’incastro di volumi e piani di dimensioni e altezze diverse - incontrò Josephine Baker dopo avere assistito a una sua performance al Théâtre des Champs-Elysées, fu subito magia: un incontro tra opposti – l’istintuale e animalesca vitalità della danzatrice da un lato, il ferreo rigore intellettuale dell’architetto dall’altro. Il risultato è stato il progetto di un’ abitazione di quattro piani che avrebbe dovuto occupare un sito d'angolo tra Avenue Bugeaud e Rue du Général-Clergerie nel 16° arrondissement di Parigi: un edificio dalle geometrie pure (prisma e cilindro) racchiuse in un involucro rifinito a bande alternate di marmo bianco e nero che ricordano un mix tra una cattedrale toscana e uno stabilimento balneare moresco, in sintonia con la contaminazione culturale promossa dall’artista. Dietro all'epidermide a strisce, Loos ha ideato un’alternanza generosa di saloni e spazi di intrattenimento mentre il cuore della casa era una piscina - visto che alla Baker piaceva nuotare - a doppia altezza circondata da pareti di vetro e illuminata dall'alto.
Adolf Loos per Joséphine Baker, “Piccolo Varietà” (non realizzata), Parigi, Francia 1927
Barry Dierks per Maxine Elliott, Château de l’horizon (o Château de l’aurore), Vallauris, Francia 1932
Se uno pensa alla bella vita e al lusso dei facoltosi villeggianti nel Sud della Francia, a parte a Francis Scott Fitzerald il pensiero corre subito a questa sontuosa villa modernista abbarbicata sulle scogliere del golfo di San Juan. Qui, tra partite a carte e feste, si facevano politica e baldoria, si intrecciavano flirt e passioni; di qui sono passati personaggi illustri, da Winston Churchil a Coco Chanel, da Somerset Maugham a Cecil Beaton, da Liz Taylor a Gianni Agnelli, che si godevano il sole rivierasco ai bordi della sproporzionata piscina e sulla terrazza punteggiata da ombrelloni.
Barry Dierks per Maxine Elliott, Château de l’horizon (o Château de l’aurore), Vallauris, Francia 1932
Dante Bini per Monica Vitti e Michelangelo Antonioni, La Cupola, Costa Paradiso, Sardegna, Italia 1969
Nella Sardegna più selvaggia e autentica, la coppia Vitti-Anonioni ha voluto il suo buen ritiro dal set e dai riflettori: ua casa a forma di semisfera, avvolta dal profumo della Gallura e dal rumore del mare, realizzata secondo la tecnica del Binishell, un processo costruttivo che prevede di plasmare il getto in calcestruzzo attraverso la pressione dell’aria. L’edificio ospitava cinque stanze e quattro bagni collegati da una scala sinuosa accessibile dal soggiorno. Il rivestimento esterno, realizzato con un impasto di intonaco e cristalli di roccia locale dalle tonalità rosate, contribuiva a creare un intimo legame con la natura. Oggi abbandonata, la costruzione - che Rem Koolhaas ha definito “una delle architetture migliori degli ultimi cento anni” - è tutelata da un vincolo d’interesse storico-culturale ed in attesa di una rivitalizzazione.
Dante Bini per Monica Vitti e Michelangelo Antonioni, La Cupola, Costa Paradiso, Sardegna, Italia 1969
Horace Gifford per Calvin Klein, The Sloane, Fire Island, USA 1972
A circa un’ora e mezza da New Yourk, Fire Island è un luogo agli antipodi della congestionata metropoli: qui non ci sono automobili e i colori del paesaggio sono il blu dell’oceano, il verde degli alberi e il beige-marrone della spiaggia e delle case in legno. In particolare nella zona di The Pines l’ architetto Horace Gifford tra gli anni Sessanta e Settanta ha progettato molte case moderniste all’insegna dell’ integrazione con la natura e del minimo impatto ambientale. Realizzata per una coppia con quattro figli, la casa dalle forme morbide e rivestite interamente in legno era concepita per enfatizzare la continuità visiva tra esterno e interno grazie alle ampie aperture vetrate verso il mare prospiciente. Acquistata da Calvin klein nel 1977, il designer assunse l'architetto Horace Gifford per progettare una piscina, una palestra, un alloggio a servizio della piscina e il giardino. Dopo la devastazione dell’Uragano Gloria nel 1985 e il passaggio di proprietà, la villa guarda ancora il mare con il suo fascino composto e un pò ruvido.
John Lautner per Bob Hope, Los Angeles, USA 1979
A Palm Springs, dove durante la metà del XX esplose il gusto modernista nella progettazione delle case di facoltosi villeggianti, la villa progettata da John Lautner per il comico Bob Hope e la moglie è un trionfo di forme morbide e sinuose in stretto contatto con la natura. L’edificio in calcestruzzo è coperto da un poderoso tetto che sembra il cappello di un fungo, forato nella parte centrale per fornire viste zenitali sul cielo californiano e luce diretta al patio sottostante e ospita, oltre alle 10 camere da letto, un sontuoso salone per le feste. Nel lussereggiante parco esterno, un giardino roccioso, una piscina, uno stagno e un grande masso che penetra nel salone, a citazione di Fallingwater di Frank Lloyd Wright, ribadiscono un forte legame con l’architettura organica.
Ora ïto per AIR, The house of legend (non realizzato), 2001
Il designer francese Ora ïto ha iconcettualizzato, in occasione dell’uscita del secondo album del gruppo francese AIR dal titolo ”10000 Hz Legend”, una casa virtuale completamente dedicata alla esplorazione e produzione musicale, in uno spazio decisamente mistico sospeso tra cielo e terra e incastonato in uno scenario naturale che sembra quello delle montagne rocciose. Un’atmosfera minimale ed eterea che riflette l’anima ”cool” della band.
OMA/Rem Koolhaas per Vincent Gallo, Progetto per un appartamento (non realizzato), Los Angeles, USA 2005
Per il suo cliente poliedrico - modello, attore, regista, scrittore, musicista e pittore, appassionato di auto - OMA ha concepito un rifugio intimo con un affaccio mozzafiato sul paesaggio urbano circostante. L’appartamento è un duplex che ospita al piano inferiore gli spazi abitativi e a quello superiore gli spazi di lavoro, secondo il principio di lasciare la vista sull’esterno il più possibile libera da ostacoli. L’estro ingegneristico di OMA si è sbizzarrito nel congeniare la coesistenza, grazie all’ approccio progettuale flessibile, di una vasta gamma di usi: uno studio musicale, una sala da concerto, una stanza per gli ospiti e un garage officina. Una casa/”fucina” insomma che interpreta al meglio lo spirito del suo proprietario.
OMA/Rem Koolhaas per Vincent Gallo, Progetto per un appartamento (non realizzato), Los Angeles, USA 2005
Axel Vervoordt per Kim Kardashian, Los Angeles, USA 2020
Contrariamente alle aspettative, la casa di Kim Kardashian e Kanye West non è un un’apoteosi di ostentazione ed eccessi all’insegna del lusso più sfrenato e massiccio: al contrario, è un’opera di un’eleganza e sobrietà quasi monacale, frutto del lavoro del designer belga Axel Vervoordt, dell’architetto Claudio Silvestrin - che ha progettato il bagno principale - di Vincent Van Duysen che ha contribuito a arredare il soggiorno e le camere dei bambini - e di Peter Wirzt - che ha curato la progettazione dei giardini. La casa, di un bianco immacolato, è un trionfo di compostezza e minimalismo, sapientemente fusa con la natura circostante.
Ferris Rafauli per Drake, Toronto, Canada, 2020
Di fronte ad una casa come quella del rapper Drake progettata dal designer Ferris Rafauli, non è difficile farsi strappare un sonoro ed autentico ”wow”. L’edificio monumentale, dalle forme classiche e vagamente da mausoleo, è un’esplosione di lusso e decori, dai dettagli in bronzo alle pareti in marmo scanalato, dai mobili - progettati su misura da Rafauli - all'illuminazione, ai tendaggi e ai tappeti. Competenza artigianale e un evidente gusto per l’ostentazione caratterizzano i sontuosi interni che ospitano, oltre agli ambienti domestici, sale per la musica, un campo da basket coperto, enormi piscine interne ed esterne, un hammam e un centro massaggi. Perchè le esigenze di una vita super lussuosa non finiscono mai.
Tadao Ando per Kanye West, villa a Malibu, USA 2021
Kanye West ha una passione per il brutalismo: il designer e musicista ha infatti acquistato una villa progettata da Tadao Ando, in precedenza di proprietà di un manager dell’alta finanza. L’edificio è articolato su tre livelli: un piano inferiore con tre camere da letto per gli ospiti, un piano intermedio per gli ambienti comuni e un piano superiore solo per la suite principale e una terrazza panoramica. Non c’è un filo d’erba una scala interna consente un accesso diretto e privilegiato alla spiaggia. Se questo non è un lusso per pochi...
Adolf Loos per Joséphine Baker, “Piccolo Varietà” (non realizzata), Parigi, Francia 1927
Quando il maestro del raumplan - il principio compositivo basato sull’incastro di volumi e piani di dimensioni e altezze diverse - incontrò Josephine Baker dopo avere assistito a una sua performance al Théâtre des Champs-Elysées, fu subito magia: un incontro tra opposti – l’istintuale e animalesca vitalità della danzatrice da un lato, il ferreo rigore intellettuale dell’architetto dall’altro. Il risultato è stato il progetto di un’ abitazione di quattro piani che avrebbe dovuto occupare un sito d'angolo tra Avenue Bugeaud e Rue du Général-Clergerie nel 16° arrondissement di Parigi: un edificio dalle geometrie pure (prisma e cilindro) racchiuse in un involucro rifinito a bande alternate di marmo bianco e nero che ricordano un mix tra una cattedrale toscana e uno stabilimento balneare moresco, in sintonia con la contaminazione culturale promossa dall’artista. Dietro all'epidermide a strisce, Loos ha ideato un’alternanza generosa di saloni e spazi di intrattenimento mentre il cuore della casa era una piscina - visto che alla Baker piaceva nuotare - a doppia altezza circondata da pareti di vetro e illuminata dall'alto.
Adolf Loos per Joséphine Baker, “Piccolo Varietà” (non realizzata), Parigi, Francia 1927
Barry Dierks per Maxine Elliott, Château de l’horizon (o Château de l’aurore), Vallauris, Francia 1932
Se uno pensa alla bella vita e al lusso dei facoltosi villeggianti nel Sud della Francia, a parte a Francis Scott Fitzerald il pensiero corre subito a questa sontuosa villa modernista abbarbicata sulle scogliere del golfo di San Juan. Qui, tra partite a carte e feste, si facevano politica e baldoria, si intrecciavano flirt e passioni; di qui sono passati personaggi illustri, da Winston Churchil a Coco Chanel, da Somerset Maugham a Cecil Beaton, da Liz Taylor a Gianni Agnelli, che si godevano il sole rivierasco ai bordi della sproporzionata piscina e sulla terrazza punteggiata da ombrelloni.
Barry Dierks per Maxine Elliott, Château de l’horizon (o Château de l’aurore), Vallauris, Francia 1932
Dante Bini per Monica Vitti e Michelangelo Antonioni, La Cupola, Costa Paradiso, Sardegna, Italia 1969
Nella Sardegna più selvaggia e autentica, la coppia Vitti-Anonioni ha voluto il suo buen ritiro dal set e dai riflettori: ua casa a forma di semisfera, avvolta dal profumo della Gallura e dal rumore del mare, realizzata secondo la tecnica del Binishell, un processo costruttivo che prevede di plasmare il getto in calcestruzzo attraverso la pressione dell’aria. L’edificio ospitava cinque stanze e quattro bagni collegati da una scala sinuosa accessibile dal soggiorno. Il rivestimento esterno, realizzato con un impasto di intonaco e cristalli di roccia locale dalle tonalità rosate, contribuiva a creare un intimo legame con la natura. Oggi abbandonata, la costruzione - che Rem Koolhaas ha definito “una delle architetture migliori degli ultimi cento anni” - è tutelata da un vincolo d’interesse storico-culturale ed in attesa di una rivitalizzazione.
Dante Bini per Monica Vitti e Michelangelo Antonioni, La Cupola, Costa Paradiso, Sardegna, Italia 1969
Horace Gifford per Calvin Klein, The Sloane, Fire Island, USA 1972
A circa un’ora e mezza da New Yourk, Fire Island è un luogo agli antipodi della congestionata metropoli: qui non ci sono automobili e i colori del paesaggio sono il blu dell’oceano, il verde degli alberi e il beige-marrone della spiaggia e delle case in legno. In particolare nella zona di The Pines l’ architetto Horace Gifford tra gli anni Sessanta e Settanta ha progettato molte case moderniste all’insegna dell’ integrazione con la natura e del minimo impatto ambientale. Realizzata per una coppia con quattro figli, la casa dalle forme morbide e rivestite interamente in legno era concepita per enfatizzare la continuità visiva tra esterno e interno grazie alle ampie aperture vetrate verso il mare prospiciente. Acquistata da Calvin klein nel 1977, il designer assunse l'architetto Horace Gifford per progettare una piscina, una palestra, un alloggio a servizio della piscina e il giardino. Dopo la devastazione dell’Uragano Gloria nel 1985 e il passaggio di proprietà, la villa guarda ancora il mare con il suo fascino composto e un pò ruvido.
John Lautner per Bob Hope, Los Angeles, USA 1979
A Palm Springs, dove durante la metà del XX esplose il gusto modernista nella progettazione delle case di facoltosi villeggianti, la villa progettata da John Lautner per il comico Bob Hope e la moglie è un trionfo di forme morbide e sinuose in stretto contatto con la natura. L’edificio in calcestruzzo è coperto da un poderoso tetto che sembra il cappello di un fungo, forato nella parte centrale per fornire viste zenitali sul cielo californiano e luce diretta al patio sottostante e ospita, oltre alle 10 camere da letto, un sontuoso salone per le feste. Nel lussereggiante parco esterno, un giardino roccioso, una piscina, uno stagno e un grande masso che penetra nel salone, a citazione di Fallingwater di Frank Lloyd Wright, ribadiscono un forte legame con l’architettura organica.
Ora ïto per AIR, The house of legend (non realizzato), 2001
Il designer francese Ora ïto ha iconcettualizzato, in occasione dell’uscita del secondo album del gruppo francese AIR dal titolo ”10000 Hz Legend”, una casa virtuale completamente dedicata alla esplorazione e produzione musicale, in uno spazio decisamente mistico sospeso tra cielo e terra e incastonato in uno scenario naturale che sembra quello delle montagne rocciose. Un’atmosfera minimale ed eterea che riflette l’anima ”cool” della band.
OMA/Rem Koolhaas per Vincent Gallo, Progetto per un appartamento (non realizzato), Los Angeles, USA 2005
Per il suo cliente poliedrico - modello, attore, regista, scrittore, musicista e pittore, appassionato di auto - OMA ha concepito un rifugio intimo con un affaccio mozzafiato sul paesaggio urbano circostante. L’appartamento è un duplex che ospita al piano inferiore gli spazi abitativi e a quello superiore gli spazi di lavoro, secondo il principio di lasciare la vista sull’esterno il più possibile libera da ostacoli. L’estro ingegneristico di OMA si è sbizzarrito nel congeniare la coesistenza, grazie all’ approccio progettuale flessibile, di una vasta gamma di usi: uno studio musicale, una sala da concerto, una stanza per gli ospiti e un garage officina. Una casa/”fucina” insomma che interpreta al meglio lo spirito del suo proprietario.
OMA/Rem Koolhaas per Vincent Gallo, Progetto per un appartamento (non realizzato), Los Angeles, USA 2005
Axel Vervoordt per Kim Kardashian, Los Angeles, USA 2020
Contrariamente alle aspettative, la casa di Kim Kardashian e Kanye West non è un un’apoteosi di ostentazione ed eccessi all’insegna del lusso più sfrenato e massiccio: al contrario, è un’opera di un’eleganza e sobrietà quasi monacale, frutto del lavoro del designer belga Axel Vervoordt, dell’architetto Claudio Silvestrin - che ha progettato il bagno principale - di Vincent Van Duysen che ha contribuito a arredare il soggiorno e le camere dei bambini - e di Peter Wirzt - che ha curato la progettazione dei giardini. La casa, di un bianco immacolato, è un trionfo di compostezza e minimalismo, sapientemente fusa con la natura circostante.
Ferris Rafauli per Drake, Toronto, Canada, 2020
Di fronte ad una casa come quella del rapper Drake progettata dal designer Ferris Rafauli, non è difficile farsi strappare un sonoro ed autentico ”wow”. L’edificio monumentale, dalle forme classiche e vagamente da mausoleo, è un’esplosione di lusso e decori, dai dettagli in bronzo alle pareti in marmo scanalato, dai mobili - progettati su misura da Rafauli - all'illuminazione, ai tendaggi e ai tappeti. Competenza artigianale e un evidente gusto per l’ostentazione caratterizzano i sontuosi interni che ospitano, oltre agli ambienti domestici, sale per la musica, un campo da basket coperto, enormi piscine interne ed esterne, un hammam e un centro massaggi. Perchè le esigenze di una vita super lussuosa non finiscono mai.
Tadao Ando per Kanye West, villa a Malibu, USA 2021
Kanye West ha una passione per il brutalismo: il designer e musicista ha infatti acquistato una villa progettata da Tadao Ando, in precedenza di proprietà di un manager dell’alta finanza. L’edificio è articolato su tre livelli: un piano inferiore con tre camere da letto per gli ospiti, un piano intermedio per gli ambienti comuni e un piano superiore solo per la suite principale e una terrazza panoramica. Non c’è un filo d’erba una scala interna consente un accesso diretto e privilegiato alla spiaggia. Se questo non è un lusso per pochi...
Sono tante le testimonianze che, dagli anni ’20 fino ad oggi, mostrano come la progettazione architettonica abbia risposto alle stravaganze e agli eccessi di personaggi famosi, talvolta ossessionati dall’idea di una residenza all’altezza del proprio ego. Così sono nati progetti talvolta esuberanti ed insoliti, che hanno fatto da scenario non solo a feste e ricevimenti patinati, ma spesso anche a giochi di potere e vicissitudini politiche. Continua a leggere
19
I più bizzarri grattacieli ora in costruzione
NBBJ, complesso uffici Amazon HQ2, Arlington, Stati Uniti (in corso)
Il consiglio della contea di Arlington ha recentemente approvato la decisione di costruire la torre a spirale alta 106 metri per gli Amazon HQ2. La torre, denominata “The Helix”, sarà uno dei tre edifici per uffici nella contea di Arlington che costituiranno il secondo quartier generale di Amazon. Gli edifici, situati tra percorsi e viali alberati, sono destinati a diventare tra i più alti di Arlington, dove la costruzione di grattacieli è vietata.
Elenberg Fraser, Premier Tower, Melbourne, Australia
L’edificio ad uso misto in vetro riflettente e acciaio, dalla forma morbida e sinuosa, è un omaggio ai corpi ondulati avvolti nel tessuto dei ballerini del video musicale del 2013 della cantante Beyoncé (Ghost).
Big, Cactus Towers, Copenhagen, Danimarca 2024
Le Cactus Towers, così denominate dalla caratteristica conformazione di facciata che ricorda la forma spinosa di un cactus, sono caratterizzate dalla sovrapposizione di blocchi orizzontali con orientamenti diversi al fine di creare una composizione geometrica articolata che ingloba logge sfalsate, spigoli vivi e superfici vetrate. Recentemente completate, le torri sono destinate prevalentemente all’edilizia residenziale e al micro-living, in particolare a giovani studenti, residenti e turisti.
Herzog & De Meuron, Tour Triangle, Parigi, Francia (in costruzione, completamento previsto nel 2024)
La piramide in vetro con un’altezza di 180 m sarà il terzo edificio più alto di Parigi, dopo la Tour Eiffel e la torre di Montparnasse. La forma trapezoidale dell'edificio è determinata dalla rotazione degli assi nord e sud sul lotto rettangolare mentre lo sviluppo volumetrico piramidale riduce le ombre sugli edifici residenziali adiacenti. Il grattacielo, di cui si prevede il completamento nel 2026, ospiterà nei suoi 41 piani uffici, un centro congressi, un centro benessere, un centro culturale, un asilo nido, un hotel di lusso e un ristorante panoramico.
Herzog & De Meuron, Tour Triangle, Parigi, Francia (in costruzione, completamento previsto nel 2024)
Fernando Donis, Dubai Frame, Dubai 2018
La “cornice“ più grande del mondo è stata concepita come osservatorio, museo e monumento per incorniciare i punti di riferimento della Dubai moderna (l'Emirates Towers o il Burj Khalifa, l'edificio più alto del mondo) e di quella più antica (Deira, Umm Harare e Karama). Il complesso, in vetro, acciaio, alluminio e cemento armato, è formato da 2 torri verticali collegate da due volumi orizzontali di cui quello superiore forma una passerella a 150 m di altezza.
SOM, Karlatornet Tower, Göteborg, Svezia 2024
Con i suoi 246 metri che lo renderanno al termine dei lavori il grattacielo più alto della Scandinavia, Karlatornet è situato in un una posizione tale da essere visibile nitidamente dall’area portuale di Lindholmen e dal centro città, divenendo così un potente landmark nel paesaggio urbano. La torre in vetro dalla silhouette fluida ed elegante, quasi completata, ospiterà 611 appartamenti, hotel, uffici e uno sky bar.
AO, Legends Tower, Oklahoma City, USA, in corso
Il Consiglio Comunale di Ohlahoma City ha appena approvato il programma di sviluppo urbano dell’area Boardwalk at Bricktown, di cui Legends Tower sarà l’elemento di punta. L’edificio, che con i suoi con 581 m diventerà il grattacielo più alto degli Stati Uniti e uno dei più alti al mondo, ospiterà funzioni alberghiere, residenziali e commerciali e, agli ultimi piani, un ristorante e una terrazza panoramica. “L’altezza non è una cosa necessaria”, dichiara uno dei progettisti, rivelando che lo sviluppo esponenziale in altitudine dell’edificio non era previsto all’inizio ma è avvenuto nel corso dell’iter concettuale, a seguito delle reazioni di investitori, del mercato e della città al progetto.
Binghatti Development, Bugatti residences, Dubai, UAE, in corso
È in corso di sviluppo il progetto, presentato nel 2023, del complesso residenziale di ultra-lusso (il primo Bugatti-Residence al mondo) che sorgerà a Dubai. Le curve sottili, le forme fluide e i giochi di luce mutevoli che si creeranno sulle superfici vetrate evocano un ameboide che si dibatte nel cuore della metropoli.
Aedas, Chongqing Gaoke Group Ltd Office, Chongqing, Cina 2022
La torre per uffici alta 180 m propone una divagazione sul tema dei volumi tortili e del rapporto con la luce che diventa un potente elemento progettuale. L’ essenziale volume in vetro che si contorce su sé stesso creando pareti curvilinee in dialogo con i piani rettilinei accentua i riflessi luminosi, mutevoli nel corso della giornata, e trasforma l’edificio in un suggestivo sfondo per una “danza di luce”.
NBBJ, complesso uffici Amazon HQ2, Arlington, Stati Uniti (in corso)
Il consiglio della contea di Arlington ha recentemente approvato la decisione di costruire la torre a spirale alta 106 metri per gli Amazon HQ2. La torre, denominata “The Helix”, sarà uno dei tre edifici per uffici nella contea di Arlington che costituiranno il secondo quartier generale di Amazon. Gli edifici, situati tra percorsi e viali alberati, sono destinati a diventare tra i più alti di Arlington, dove la costruzione di grattacieli è vietata.
Elenberg Fraser, Premier Tower, Melbourne, Australia
L’edificio ad uso misto in vetro riflettente e acciaio, dalla forma morbida e sinuosa, è un omaggio ai corpi ondulati avvolti nel tessuto dei ballerini del video musicale del 2013 della cantante Beyoncé (Ghost).
Big, Cactus Towers, Copenhagen, Danimarca 2024
Le Cactus Towers, così denominate dalla caratteristica conformazione di facciata che ricorda la forma spinosa di un cactus, sono caratterizzate dalla sovrapposizione di blocchi orizzontali con orientamenti diversi al fine di creare una composizione geometrica articolata che ingloba logge sfalsate, spigoli vivi e superfici vetrate. Recentemente completate, le torri sono destinate prevalentemente all’edilizia residenziale e al micro-living, in particolare a giovani studenti, residenti e turisti.
Herzog & De Meuron, Tour Triangle, Parigi, Francia (in costruzione, completamento previsto nel 2024)
La piramide in vetro con un’altezza di 180 m sarà il terzo edificio più alto di Parigi, dopo la Tour Eiffel e la torre di Montparnasse. La forma trapezoidale dell'edificio è determinata dalla rotazione degli assi nord e sud sul lotto rettangolare mentre lo sviluppo volumetrico piramidale riduce le ombre sugli edifici residenziali adiacenti. Il grattacielo, di cui si prevede il completamento nel 2026, ospiterà nei suoi 41 piani uffici, un centro congressi, un centro benessere, un centro culturale, un asilo nido, un hotel di lusso e un ristorante panoramico.
Herzog & De Meuron, Tour Triangle, Parigi, Francia (in costruzione, completamento previsto nel 2024)
Fernando Donis, Dubai Frame, Dubai 2018
La “cornice“ più grande del mondo è stata concepita come osservatorio, museo e monumento per incorniciare i punti di riferimento della Dubai moderna (l'Emirates Towers o il Burj Khalifa, l'edificio più alto del mondo) e di quella più antica (Deira, Umm Harare e Karama). Il complesso, in vetro, acciaio, alluminio e cemento armato, è formato da 2 torri verticali collegate da due volumi orizzontali di cui quello superiore forma una passerella a 150 m di altezza.
SOM, Karlatornet Tower, Göteborg, Svezia 2024
Con i suoi 246 metri che lo renderanno al termine dei lavori il grattacielo più alto della Scandinavia, Karlatornet è situato in un una posizione tale da essere visibile nitidamente dall’area portuale di Lindholmen e dal centro città, divenendo così un potente landmark nel paesaggio urbano. La torre in vetro dalla silhouette fluida ed elegante, quasi completata, ospiterà 611 appartamenti, hotel, uffici e uno sky bar.
AO, Legends Tower, Oklahoma City, USA, in corso
Il Consiglio Comunale di Ohlahoma City ha appena approvato il programma di sviluppo urbano dell’area Boardwalk at Bricktown, di cui Legends Tower sarà l’elemento di punta. L’edificio, che con i suoi con 581 m diventerà il grattacielo più alto degli Stati Uniti e uno dei più alti al mondo, ospiterà funzioni alberghiere, residenziali e commerciali e, agli ultimi piani, un ristorante e una terrazza panoramica. “L’altezza non è una cosa necessaria”, dichiara uno dei progettisti, rivelando che lo sviluppo esponenziale in altitudine dell’edificio non era previsto all’inizio ma è avvenuto nel corso dell’iter concettuale, a seguito delle reazioni di investitori, del mercato e della città al progetto.
Binghatti Development, Bugatti residences, Dubai, UAE, in corso
È in corso di sviluppo il progetto, presentato nel 2023, del complesso residenziale di ultra-lusso (il primo Bugatti-Residence al mondo) che sorgerà a Dubai. Le curve sottili, le forme fluide e i giochi di luce mutevoli che si creeranno sulle superfici vetrate evocano un ameboide che si dibatte nel cuore della metropoli.
Aedas, Chongqing Gaoke Group Ltd Office, Chongqing, Cina 2022
La torre per uffici alta 180 m propone una divagazione sul tema dei volumi tortili e del rapporto con la luce che diventa un potente elemento progettuale. L’ essenziale volume in vetro che si contorce su sé stesso creando pareti curvilinee in dialogo con i piani rettilinei accentua i riflessi luminosi, mutevoli nel corso della giornata, e trasforma l’edificio in un suggestivo sfondo per una “danza di luce”.
La corsa a chi sale più in alto non è l'unica gara nel mondo dell'architettura. Anzi, la tendenza predominante, negli ultimi anni, sembra sia quella di voler innovare la tipologia del grattacielo: invece che competere per avere il grattacielo più alto del mondo, le grandi metropoli globali vedono crescere enormi oggetti iconici, le cui forme richiamano oggetti di uso quotidiano, le sagome di animali...
Abbiamo iniziato nel 2021 un'esplorazione di questo mondo di forme, e abbiamo deciso di aggiornarla agli ultimi episodi di quest'anno. Continua a leggere
20
La storia delle sneaker in 20 modelli imprescindibili
1. Converse All Star (1923)
Un classico senza tempo, le Converse All Star – o Chuck Taylor All Star – sono un caso esemplare di evoluzione, adattamento e trasversalità di clientela capace di rimanere per decenni sulla cresta dell’onda senza snaturare il concept originale, anzi facendone un punto di forza. Nate, come molte altre sneaker in canvas di inizi ‘900, come prodotto di aziende attive nel campo della gomma, le Converse acquistano il loro design che tutt’ora – salvo minori modifiche estetiche – nel 1923 per iniziativa dell’ex giocatore di basket e dipendente dell’azienda Chuck Taylor.
Ciò fa delle Converse All Star delle scarpe imprescindibilmente figlie della cultura americana: non solo la loro originale silhouette che abbraccia la caviglia è conseguenza delle necessità ergonomiche dei giocatori di basket, ma la loro affermazione popolare passa anche per le Olimpiadi americane del 1936 di cui sono scarpa ufficiale prima, e per i marines della cui uniforme le Converse diventano parte a partire dagli anni ‘40.
Le felici scelte di marketing, come l’introduzione della toppa circolare con stella, assieme all’intuizione di offrire un carnet di colori abbinabili a quelli delle divise delle squadre di basket fa sì che con gli anni Sessanta le All Star si impongano sui molteplici concorrenti come la scarpa da basket per eccellenza, tanto nell’NBA che nel circuito dei college. È proprio la diffusione nei campus a agevolare il passaggio delle Converse da capo esclusivo allo sport a cardine dello streetwear. Nonostante l’iniziale declino delle All Star come scarpa da basket negli anni ‘70, quando i giocatori gli preferiscono modelli in pelle e con suole più alte, che sopraggiunge la vera fortuna delle scarpe, tanto nelle comunità afroamericane che in quelle bianche. Da quando nel 1977, poi, i Ramones si posano con delle Chuck Taylor hi-top nere sulla copertina del loro album d’esordio non ce n’è più per nessuno.
A partire dal 2013 la Converse ha messo, inoltre, in produzione le Chuck Taylor ‘70 (utilizzate anche per la collaborazione di successo con Comme Des Garçons del 2015), modello con punta in gomma di dimensioni minori, tela più spessa e suola più alta maggiormente fedele a quello utilizzato sui parquet da basket sul finire degli anni Sessanta.
2. Superga 2750 (1925)
La scarpa da tennis per eccellenza, capace di passare, grazie alla sobrietà del suo design, dalla terra rossa alla strada con fluidità unica e impeccabile. La Superga 2750, un’icona popolare italiana, è caratterizzata da una suola in gomma vulcanizzata pensata dall’imprenditore della gomma Walter Martiny e poi ulteriormente raffinata con l’inglobamento del marchio in Pirelli a partire dal 1951. Pur entrando a far parte dello streetwear e anche dell’alta moda – per tutti gli anni ‘80 le sneaker Superga venivano usate sulle passerelle milanesi come alternativa alle scarpe formali – il marchio torinese ha continuato a disegnare scarpe di successo nel mondo del tennis, come le Superga 2750 Cotu Panatta, evoluzione anni ‘70 con motivo Superga applicato sul lato esterno e indossate da Adriano Panatta nell’anno di grazia 1976, in cui il tennista italiano conquistò Coppa Davis, Roland Garros e Internazionali d’Italia.
3. Dunlop Green Flash (1929)
Lo sviluppo delle sneakers è sempre andato di pari passo con le innovazioni tecnologiche in ambito di design, anatomia e pneumatica. Non è, infatti, un caso che le Green Flash siano state messe a punto dalla Dunlop, storica azienda britannica che sul finire dell’800 aveva brevettato lo pneumatico partendo da studi domestici sulla bicicletta del figlio del fondatore John Boyd Dunlop. Le Green Flash diventarono un’icona pop ante litteram calzando i piedi del campione di tennis Fred Perry, a sua volta poi imprenditore nel campo della moda. Le Green Flash seppero essere innovative per i tempi ravvivando la tradizionale scarpa da ginnastica bianca con brillanti dettagli verdi, da cui il nome.
4. Adidas Stan Smith (1963)
A pensarci bene è ironico il fatto che le Adidas di maggior successo nella storia del brand (i 22 milioni di paia venduti entro il 1988 gli valsero addirittura un Guinness World Record) siano quelle che per prime ruppero maggiormente con la sua tradizionale estetica. L’assenza delle tre strisce in evidenza, solamente suggerite da un triplo pattern traforato su entrambi i lati della scarpa, rende le Stan Smith un’anomalia nel catalogo Adidas. Denominate dapprima Adidas Robert Haillet, dal nome del tennista francese che ne era endorser nei Sessanta, dal 1978 le scarpe acquisiscono la storica denominazione di Stan Smith con cui otterranno il grande riscontro commerciale, oltre a venire impreziosite dal ritratto stilizzato sulla linguetta; un tratto distintivo che Adidas utilizzerà poi su altre collaborazioni speciali, come quella con il membro degli Oasis Noel Gallagher. L’altrettanto iconica tab verde smeraldo sul tallone è, indubbiamente, stata ispirata dalla Dunlop Green Flash. Oggi le Stan Smith sono state rilanciate in una versione vegana da Adidas, marchio decisamente attento al tema della sostenibilità nel footwear.
5. Onitsuka Tiger Mexico '66 (1966)
Modello giapponese nato per le Olimpiadi del 1966 in Messico, le Onitsuka Tiger sono entrate a far prepotentemente parte dello streetwear occidentale solamente dal 2003 quando, complice il re-branding e rilancio delle sneaker sul mercato, furono adottate nella colorazione gialla con dettagli Asics neri da Uma Thurman in Kill Bill 2 in un esplicito tributo voluto dal regista Quentin Tarantino a quelle indossate – assieme alla celebre tuta giallonera – da Bruce Lee nel suo ultimo (e incompleto) film del 1972 Game of Death.
Le Onitsuka Tiger, tra le calzature più innovative in fatto di tecnologia per l’atletica leggera negli anni Sessanta, sono state vittima di un semi plagio da parte di un’allora nascente Nike, all'epoca chiamata Blue Ribbon. I fondatori, gli atleti Phillip Knight e Bill Bowerman, dopo aver stipulato con il brand giapponese un contratto per la distribuzione americana delle sneaker, ne studiarono a fondo la tecnologia all’avanguardia per poi riproporla nelle loro calzature da atletica presentate alle Olimpiadi di Monaco del 1972, le Nike Cortez ‘72, rese celebri sul grande schermo da Tom Hanks in Forrest Gump. Da qui in poi il brand sarà l’astro nascente del footwear sportivo globale, a discapito del marchio giapponese.
6. Vans (1966)
Rimaste pressoché inalterate dalla loro prima immissione sul mercato, le Vans (o, originariamente, Van Doren) rappresentano un altro modello di sneaker che, seppur nate a fini sportivi, hanno trovato fortuna nello streetwear e nel seguito di culto generatosi con i cluster giovanili, dai seguaci del Punk Hardcore agli studenti Ivy dei campus americani, passando ovviamente per gli skater. D'altronde, nascendo per le strade come alternativa invernale al surf, la disciplina dello skateboard – per cui nel 1966 il signor Van Doren ideò questa scarpa che aggiungeva alla tipica sneaker in canvas un’alta e solida suola – si è sempre collocata a cavallo tra lo sport e la sottocultura. Questa dicotomia si riflette nell’appeal tutt’ora trasversale delle Vans, capaci di adattarsi con successo a una pletora di look anche molto differenti tra loro, e di cui il pattern a scacchi bianconeri è uno dei principali tratti identificativi.
7. Puma Suede (1968)
La Suede è il modello Puma per antonomasia, ideato come scarpa da tempo libero per gli atleti partecipanti alle Olimpiadi Messico ‘68 (Tommy Smith ne indossa un paio nero nella celebre premiazione del pugno chiuso) e caratterizzato da una suola piuttosto alta in caucciù bianco dalla parte frontale zigrinata e da una tomaia in pelle scamosciata – originariamente disponibile solo in blu per atleti sotto contratto Puma e nero per quelli legati ad altri brand. Le Suede, inizialmente denominate Crack (termine che nello slang giovanile dei tardi Sessanta indicava una persona dinamica, capace e alla moda), a partire dal 1972 acquistarono una forma leggermente più affusolata diventando, temporaneamente, Clyde. La nomenclatura deriva dall’accordo, il primo di esclusività retribuita ($5,000 dollari sul piatto) tra un brand di abbigliamento e uno sportivo, il giocatore dei New York Knicks Walt Frazier, soprannominato Clyde per il suo vistoso stile dandy reminiscente di quello del celebre bandito Clyde Barrow – personaggio che a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 aveva goduto di un notevole revival nella cultura pop, come testimoniato da moda e canzoni del tempo. Per Frazier, Puma produsse oltre 300 colorazioni diverse della Clyde, in modo che l’eccentrico atleta potesse indossarne una diversa ad ogni gara.
Nel 1977, terminata la carriera di Frazier e il contratto con Puma, le sneaker furono, naturalmente, ribattezzate Suede e, complice l’appeal della star dei Knicks sui più giovani, diventano popolarissime tra i pionieri dell’Hip Hop delle comunità afroamericane newyorchesi. Le Suede sono le sneaker che per prime sottolineano come la moda sia capace di mettere in dialogo sportswear e streetwear, anticipando di due decenni il fenomeno delle Nike Air Jordan e l’attuale popolarità delle sneaker sulle passerelle.
8. Adidas Superstar (1969)
Le Adidas Superstar sono un altro esempio, al pari di Converse All Star e Puma Suede, di sneaker che trova un successo popolare dopo essersi affermata, prima, sui parquet dell’NBA. La grande innovazione delle Superstar è rappresentata dalla punta rinforzata in gomma bianca e zigrinata, quasi a riprodurre la sezione di un pallone da basket. Per essere consegnate alla storia, però, ci vogliono gli anni ‘80 e – anche in questo caso – la scena Hip Hop, tanto che questo design degli anni Sessanta viene collocato nell’iconografia di due decenni dopo. Il trio di rapper RUN-DMC le indossa spesso senza lacci abbinate a tute Adidas, cantandone in diverse canzoni come in “My Adidas” (1986). È proprio il potenziale commerciale rappresentato da questa canzone che porta il marchio tedesco a siglare un contratto di esclusiva di $1.6 milioni con il trio di Hollis, Queens, il primo tra un brand e un gruppo rap – una mossa non solo inedita ma anche rischiosa agli occhi dei benpensanti del tempo. La sneaker ha saputo diventare una tale istituzione del footwear che LEGO ne ha addirittura prodotto una sua versione, ovviamente da costruire.
9. Bundeswehr Sportschuch (1970s)
Note nel mondo della moda e dei collezionisti di sneaker semplicemente come GAT – acronimo di German Army Trainer – le scarpe per gli allenamenti e il tempo libero dei soldati dell’esercito della Germania Ovest sono un modello dal design unico e dalla storia elusiva. Le GAT vengono messe in produzione negli anni ‘70, su commissione del ministero della difesa tedesco. Qua documenti, prove e memorie si accavallano, lasciando dubbi sulla manifattura delle sneaker che, mano a dirlo, ancora una volta è un affare di famiglia tra i fratelli Adi e Rudolf Dassler, rispettivamente fondatori di Adidas e Puma nel 1948. Se le cuciture della scarpa ricordano quelle delle calzature disegnate da entrambi i Dassler per Jesse Owens alle Olimpiadi tedesche del 1936, lo stampo della scarpa è distintamente proprio delle Adidas Samba, anche se prive delle iconiche strisce e impreziosite da dei rinforzi geometrici in pelle scamosciata off-white sulla punta.
In seguito alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e il ridimensionamento dell’esercito dell’Ovest, molti soldati ritornati alla vita civile si trovarono con queste sneakers che divennero così - grazie al notevole surplus disponibile – una scarpa economica e popolare. Nel 1999 è però Margiela a cambiarne per sempre la sorte, acquistandone uno stock e proiettando la scarpa nel mondo della moda di lusso. Nel 2001 il colosso francese ne propone una versione decorata da scritte a mo' di graffiti con cui si invita i clienti a fare altrettanto, personalizzando la scarpa a piacere. Oggi la Bundeswehr Sportschuh è diventata una sneaker di culto tra i devoti del workwear e armywear usato, mentre la GAT Replica di Margiela vi fa rivivere l’ebrezza di sentirvi come dei soldati della Guerra Fredda al costo di poco meno di €400. Lo stile prima di tutto.
10. New Balance 990 (1982)
New Balance è stato uno dei primi brand a intuire l’importanza dello sviluppo tecnologico in sneaker destinate anche allo streetwear. Dalla fine degli anni ‘70 il brand americano sviluppa il concept già caro a Nike di scarpe da running con tomaia che unisce nylon a pelle scamosciata. Se nel 1980 con le 620 New Balance immette sul mercato le sneakers più leggere mai prodotte sino ad allora, è con le 990 del 1982, le prime prodotte in Inghilterra, che viene stabilito il primato per le sneaker più costose di sempre ($100).
Le 990 sanno anticipare quell’ibrido tra scarpa da atletica e comfort che renderà i futuri modelli l’epitome della "dad shoe", indossata anche nel modello 992 del 2007 dal guru della Apple Steve Jobs. Merito del successo delle New Balance risiede anche nei Casuals che le adottarono negli stadi britannici degli anni ‘80, diventando fondamentali traghettatori dello sportswear a ricercatissimo abbigliamento di lusso.
11. Nike Air Force 1 (1982)
Se passate per New York vi capiterà di sentire chiamare queste sneakers “uptown”, perché è lì, nell’inner city della Grande Mela di inizio-metà anni ‘80 che le Air Force 1 raggiunsero uno stato di culto. Inizialmente prodotte tra il 1982 e il 1984, una volta dismesse, la richiesta nel solo quartiere di Harlem fu tale da portare i rivenditori a scrivere a Nike per rimettere la scarpa in produzione.
Un ripensamento lungimirante dato che oggi le Air Force 1 sono uno dei modelli di maggior successo di Nike, disponibili in un’infinità di colorazioni e collaborazioni e in cinque diverse altezze – dalla super low alla super high con chiusura a velcro. Queste sneaker, il cui nome è un tributo alla performatività e potenza dell’aereo presidenziale statunitense, furono le prime ad impiegare la celebre tecnologia Air del brand americano.
12. Reebok Freestyle (1982)
Le Reebok Freestyle sono delle hi-top in pelle bianca, quintessenzialmente anni ‘80 che si inseriscono sul filone di scarpe sportive dall’appeal street come le Air Force 1, uscite anch’esse nel 1982, anno chiave per l’evoluzione tecnologica e culturale di questo capo d’abbigliamento. Il loro successo è indissolubilmente legato alla cosiddetta Fitness Craze del periodo, quando l’America diventò ossessionata con le lezioni di aerobica in VHS. Le Freestyle, infatti, sono le sneaker indossate da Jane Fonda, protagonista dei celebri corsi video.
È il loro triplo cuscinetto che avvolge la caviglia a renderle particolarmente innovative sotto il punto tecnologico rispetto ai concorrenti. Abbinate tanto a body in tessuto viscoso dalle tinte pastello quanto ai jeans stone washed, con le Freestyle Reebok riuscì a superare per numero di vendita il colosso Nike.
13. Nike Air Jordan I (1984)
Le Air Jordan sono le sneakers con cui Nike ha sovvertito le regole del gioco. Disegnate appositamente per Michael Jordan, all'epoca star nascente dell'NBA appena arrivato in forze ai Chicago Bulls, le Air Jordan erano una scarpa hi-top da basket in pelle la cui principale caratteristica è la colorazione in cui il rosso ed il nero dominavano sul bianco, andando contro le regolamentazioni dell'NBA. Pur di sfoggiarle sul parquet, Jordan era disposto a pagare una multa di $5.000 a partita, operazione che trasformò le Air Jordan I in veri e propri simboli di iconoclastia giovanile. A renderle poi un culto tra i ragazzini del tempo, oltre all'appeal generato dall'esclusività della scarpa utilizzata dal solo Jordan, erano anche accortezze grafiche come il logo alato Air Jordan disegnato da Peter C Moore e ispirato dai distintivi dei piloti d'aereo. Il logo, un'allusione al modo spettacolare con cui Jordan si elevava in salto, fu fondamentale nell'accattivare un pubblico giovane. Addirittura Will Smith nella sitcom Il Principe di Bel Air ne fu endorser.
Con il tempo la serie Air Jordan ha introdotto importanti novità nel mondo Nike, come la sottrazione dello swoosh (Air Jordan II, 1986), l'evoluzione della tecnologia Air nei cuscinetti delle suole e l'introduzione del celebre Jumpman logo di Tinker Hatfield su bozzetto di Moore (Air Jordan III, 1988) che tutt'ora caratterizza le sneaker.
Si può dire che le Jordan hanno saputo essere le eredi delle Puma Suede nella loro capacità di trasformare una scarpa da basket in un fenomeno di streetwear, in questo caso però di proporzioni inedite e tutt'ora motore di un collezionismo di culto.
14. Airwalk One (1986)
Se per molti sono le Vans a incarnare l’epitome della scarpa da skateboard, le Airwalk One ne hanno rappresentato una valida alternativa nel corso degli anni ‘90. L’Airwalk One è una scarpa che all’estetica preferisce performatività e durabilità. Fu disegnata con questo preciso scopo in mente dagli skater George Yohn e Bill Mann per i loro colleghi nel 1986, come a sottolineare che Vans si fosse avvicinata eccessivamente al mondo della moda e dello streetwear. Le Airwalk, con la loro silhouette robusta e bombata, hanno anche avuto il merito di influenzare gli stilemi di altre celebri scarpe da skateboard quali Etnies e DC, capaci di raggiungere grande popolarità tra i ‘90 e i ‘00.
15. Nike MAG (1989)
Alcune calzature possono entrare a far parte della storia delle sneaker pur non essendo mai state messe in commercio o tantomeno in produzione. È il caso delle Nike MAG, progettate dal Tinker Hatfield come oggetto di scena indossato da Michael J Fox in Ritorno al Futuro II (1989). A trasformare le sneaker in oggetto di culto, più che la silhouette ultra alta o le suole ultra leggere per i tempi, fu il sistema di chiusura autoallacciante, un trucco cinematografico azionato da un set di batterie nascosto alla camera.
Dopo anni passati a sognare e sperare in una produzione delle sneaker, nel 2011 Nike ha finalmente accontentato i cultori del film con un’edizione limitata della scarpa che peccava però di n unico fondamentale dettaglio: l’autoallacciatura. Nel 2015, però, Michael J Fox si presenta alle telecamere del programma statunitense Jimmy Kimmel Live! con un paio perfettamente identico e funzionante con tanto di suola elettroilluminata, riaprendo dunque il dibattito attorno alle MAG. A un anno di distanza Nike, finalmente, rilascia le scarpe sul mercato in un’edizione limitata di 89 paia (chiaro tributo all’anno di uscita della pellicola) messe in palio tramite una lotteria i cui proventi sono stati completamente donati alla fondazione di Michael J Fox per la lotta al Parkinson.
16. Nike Air Max 95 (1995)
Le Air Max 95 sono solamente uno dei modelli con tecnologia Air con cui la Nike si smarca su tutti gli altri competitor nei ‘90, creando una legacy di modelli dal design avveniristico che pur nascendo per il running non celano di puntare da subito alle strade, ai ragazzi, ai club. Modelli che a oltre vent’anni di distanza dal loro debutto sul mercato continuano a risultare attualissimi e desideratissimi, tra riedizioni, colorazioni in edizione limitata e collaborazioni esclusive.
Le Air Max 95 furono disegnate da Sergio Lozano con un concept inedito che poneva la sneaker in parallelo con l’anatomia umana: la suola con cuscinetti Air rappresentava la spina dorsale, i pannelli gradienti sui lati i muscoli, l’allacciatura la cassa toracica e il tessuto che corona la scarpa la pelle. Le Air Max 95 – come altri modelli della serie, specialmente le TN – diventano presto icone della scena Grime londinese di inizi Duemila, ma la loro colorazione neon li rende scarpe dal fascino alieno, quasi Cyberpunk.
17. Adidas Yeezy Boost 350 (2015)
Yeezy è la linea Adidas realizzata dal 2013 in collaborazione con il rapper e imprenditore Kanye West. Yeezy rompe completamente con la tradizione del marchio tedesco, proponendo sneaker che – stando alle parole di West – sono ispirate tanto da disegni antichi di 3000 anni quanto dalla silhouette delle Lamborghini e dalle calzature viste in Akira, film d’animazione Cyberpunk giapponese del 1988. Le Boost 350, le seconde della serie Yeezy, sono forse quelle maggiormente rappresentative dell’immaginario Yeezy e quelle che hanno avuto maggior eco sul mercato.
Con Yeezy Adidas ha introdotto a pieno titolo nelle calzature destinate allo streetwear l’uso dell’ultraleggero e performante poliuretano termoplastico (TPU), tecnologia sino ad all’ora destinata esclusivamente alle suole della produzione per atletica. La tomaia della scarpa, invece, è realizzata con tecnologia Adidas Primeknit, un tessuto fibroso in jacquard che avvolge il piede come una calza. Questo tipo di tessuto si è sviluppato a partire dalla rivoluzionaria introduzione delle Nike Flyknit alle Olimpiadi di Londra del 2012, sneaker che hanno influenzato un nuovo approccio dettato dalla ricerca tecnologica per la realizzazione di scarpe destinate anche al tempo libero.
18. Balenciaga Triple S (2017)
Nonostante la casa di moda Balenciaga non abbia una tradizione di scarpe da ginnastica dalla sua, le Triple S hanno avuto il merito di cambiare drasticamente il corso del mercato e le regole del gioco, sia in fatto di design che di consumo. Disegnate da Demma Gvasalia e David Tourniaire-Beaucie, le Triple S – come suggerisce il nome stesso – nascono dalla rivoluzionaria sovrapposizione di tre diverse suole (da running, da basket e da atletica) su cui si innesta la tomaia di una tipica scarpa da ginnastica anni ‘90, in stile Reebok, Asics o new Balance.
Questa scarpa ha lanciato il trend delle luxury sneaker, ma soprattutto ha dimostrato che le sperimentazioni che in passato avremmo etichettato come follie da prototipi possono trovare un’applicazione di successo sul mercato. Così sproporzionate e costose da diventare simbolo dell’opulenza post-moderna della cultura degli influencer e, di conseguenza, capaci di sfruttare l’iniziale stupore del pubblico – e relativi meme – come cassa di risonanza.
Sull’onda della svolta segnata nel 2013 dal restyling delle Adidas Ozweego da parte di Raf Simons, le Triple S sono le sneaker che più di altre hanno aperto le porte per l’affermazione delle sneaker oversized e chunky nella moda contemporanea. Un instant classic.
19. Zara Sock Sneaker (2017)
Con l’ascesa delle catene di abbigliamento il mercato delle sneaker si è aperto a un’ampia gamma di copie budget, più o meno fedeli, delle scarpe presentate sulle passerelle dell’alta moda. L’accessibilità di capi di lusso, altrimenti dedicati a un pubblico elitario, è stato un elemento chiave nel sovvertire la concezione dell’uso delle scarpe da ginnastica negli ultimi anni. La transizione delle sneaker da calzatura prettamente sportiva a capo esclusivo capace di sostituire la vecchia scarpa formale anche in ambienti alti, professionali e maturi racconta molto dei nuovi canoni estetici della società contemporanea. Balenciaga è stato tra i maggiori responsabile di questo ribaltamento di costumi, che passa per il 2017 e l’uscita della Sock Sneaker.
È però la sua fedelissima versione di Zara (ai limiti del plagio) che ha sdoganato a pieno la calzatura, facendo sì che la visione estetica di Balenciaga diventasse accessibile a una clientela ampia e trasversale. La scarpa, che può ricordare una versione ulteriormente avveniristica e calata nella contemporaneità delle Nike MAG di Ritorno al Futuro II, è caratterizzata da una tomaia in tessuto knitted e elastico che avvolge il piede per poi salire sulla caviglia trasformando il concept della sneaker hi-top in un calzino futuristico.
20. Lidl Sneaker (2020)
Lanciate nel Luglio 2020 dalla catena di supermercati tedeschi Lidl come parte di una linea di abbigliamento budget che non superava i €12.99, queste sneaker hanno rappresentato, e allo stesso tempo messo a nudo, il nuovo (folle) status quo del mercato delle sneaker. Una brillante mossa di marketing, più che un capolavoro del design, le sneaker Lidl hanno portato il concept dell’esclusività del drop in edizione limitata tanto caro ai colossi dello sportswear e del lusso nel contesto massificato di un supermercato a basso costo.
È proprio l’effetto scaturito da questo clash culturale, amplificato a sua volta dalla meme culture, ad aver trasformato le sneaker Lidl in un must, così desiderabile da innescare gli stessi meccanismi che caratterizzano il mercato online delle sneaker da collezione. Un’asta, addirittura, ha toccato i €6000 per un paio.
Nella silhouette che vuole esplicitamente rifarsi alle calzature chunky in stile Balenciaga Triple S, Nike Huarache o Puma LQD, si ritrova il sunto di una cultura post-moderna ormai ripiegata su sé stessa, tra l’indulgenza per il divertissement e (forse) il situazionismo. Le sneaker Lidl oggi sono nuovamente in produzione e disponibili al loro prezzo budget. Bolla scoppiata e successo commerciale assicurato per un brand che è entrato nella storia delle calzature pur facendo del proprio business core tutt’altro.
1. Converse All Star (1923)
Un classico senza tempo, le Converse All Star – o Chuck Taylor All Star – sono un caso esemplare di evoluzione, adattamento e trasversalità di clientela capace di rimanere per decenni sulla cresta dell’onda senza snaturare il concept originale, anzi facendone un punto di forza. Nate, come molte altre sneaker in canvas di inizi ‘900, come prodotto di aziende attive nel campo della gomma, le Converse acquistano il loro design che tutt’ora – salvo minori modifiche estetiche – nel 1923 per iniziativa dell’ex giocatore di basket e dipendente dell’azienda Chuck Taylor.
Ciò fa delle Converse All Star delle scarpe imprescindibilmente figlie della cultura americana: non solo la loro originale silhouette che abbraccia la caviglia è conseguenza delle necessità ergonomiche dei giocatori di basket, ma la loro affermazione popolare passa anche per le Olimpiadi americane del 1936 di cui sono scarpa ufficiale prima, e per i marines della cui uniforme le Converse diventano parte a partire dagli anni ‘40.
Le felici scelte di marketing, come l’introduzione della toppa circolare con stella, assieme all’intuizione di offrire un carnet di colori abbinabili a quelli delle divise delle squadre di basket fa sì che con gli anni Sessanta le All Star si impongano sui molteplici concorrenti come la scarpa da basket per eccellenza, tanto nell’NBA che nel circuito dei college. È proprio la diffusione nei campus a agevolare il passaggio delle Converse da capo esclusivo allo sport a cardine dello streetwear. Nonostante l’iniziale declino delle All Star come scarpa da basket negli anni ‘70, quando i giocatori gli preferiscono modelli in pelle e con suole più alte, che sopraggiunge la vera fortuna delle scarpe, tanto nelle comunità afroamericane che in quelle bianche. Da quando nel 1977, poi, i Ramones si posano con delle Chuck Taylor hi-top nere sulla copertina del loro album d’esordio non ce n’è più per nessuno.
A partire dal 2013 la Converse ha messo, inoltre, in produzione le Chuck Taylor ‘70 (utilizzate anche per la collaborazione di successo con Comme Des Garçons del 2015), modello con punta in gomma di dimensioni minori, tela più spessa e suola più alta maggiormente fedele a quello utilizzato sui parquet da basket sul finire degli anni Sessanta.
2. Superga 2750 (1925)
La scarpa da tennis per eccellenza, capace di passare, grazie alla sobrietà del suo design, dalla terra rossa alla strada con fluidità unica e impeccabile. La Superga 2750, un’icona popolare italiana, è caratterizzata da una suola in gomma vulcanizzata pensata dall’imprenditore della gomma Walter Martiny e poi ulteriormente raffinata con l’inglobamento del marchio in Pirelli a partire dal 1951. Pur entrando a far parte dello streetwear e anche dell’alta moda – per tutti gli anni ‘80 le sneaker Superga venivano usate sulle passerelle milanesi come alternativa alle scarpe formali – il marchio torinese ha continuato a disegnare scarpe di successo nel mondo del tennis, come le Superga 2750 Cotu Panatta, evoluzione anni ‘70 con motivo Superga applicato sul lato esterno e indossate da Adriano Panatta nell’anno di grazia 1976, in cui il tennista italiano conquistò Coppa Davis, Roland Garros e Internazionali d’Italia.
3. Dunlop Green Flash (1929)
Lo sviluppo delle sneakers è sempre andato di pari passo con le innovazioni tecnologiche in ambito di design, anatomia e pneumatica. Non è, infatti, un caso che le Green Flash siano state messe a punto dalla Dunlop, storica azienda britannica che sul finire dell’800 aveva brevettato lo pneumatico partendo da studi domestici sulla bicicletta del figlio del fondatore John Boyd Dunlop. Le Green Flash diventarono un’icona pop ante litteram calzando i piedi del campione di tennis Fred Perry, a sua volta poi imprenditore nel campo della moda. Le Green Flash seppero essere innovative per i tempi ravvivando la tradizionale scarpa da ginnastica bianca con brillanti dettagli verdi, da cui il nome.
4. Adidas Stan Smith (1963)
A pensarci bene è ironico il fatto che le Adidas di maggior successo nella storia del brand (i 22 milioni di paia venduti entro il 1988 gli valsero addirittura un Guinness World Record) siano quelle che per prime ruppero maggiormente con la sua tradizionale estetica. L’assenza delle tre strisce in evidenza, solamente suggerite da un triplo pattern traforato su entrambi i lati della scarpa, rende le Stan Smith un’anomalia nel catalogo Adidas. Denominate dapprima Adidas Robert Haillet, dal nome del tennista francese che ne era endorser nei Sessanta, dal 1978 le scarpe acquisiscono la storica denominazione di Stan Smith con cui otterranno il grande riscontro commerciale, oltre a venire impreziosite dal ritratto stilizzato sulla linguetta; un tratto distintivo che Adidas utilizzerà poi su altre collaborazioni speciali, come quella con il membro degli Oasis Noel Gallagher. L’altrettanto iconica tab verde smeraldo sul tallone è, indubbiamente, stata ispirata dalla Dunlop Green Flash. Oggi le Stan Smith sono state rilanciate in una versione vegana da Adidas, marchio decisamente attento al tema della sostenibilità nel footwear.
5. Onitsuka Tiger Mexico '66 (1966)
Modello giapponese nato per le Olimpiadi del 1966 in Messico, le Onitsuka Tiger sono entrate a far prepotentemente parte dello streetwear occidentale solamente dal 2003 quando, complice il re-branding e rilancio delle sneaker sul mercato, furono adottate nella colorazione gialla con dettagli Asics neri da Uma Thurman in Kill Bill 2 in un esplicito tributo voluto dal regista Quentin Tarantino a quelle indossate – assieme alla celebre tuta giallonera – da Bruce Lee nel suo ultimo (e incompleto) film del 1972 Game of Death.
Le Onitsuka Tiger, tra le calzature più innovative in fatto di tecnologia per l’atletica leggera negli anni Sessanta, sono state vittima di un semi plagio da parte di un’allora nascente Nike, all'epoca chiamata Blue Ribbon. I fondatori, gli atleti Phillip Knight e Bill Bowerman, dopo aver stipulato con il brand giapponese un contratto per la distribuzione americana delle sneaker, ne studiarono a fondo la tecnologia all’avanguardia per poi riproporla nelle loro calzature da atletica presentate alle Olimpiadi di Monaco del 1972, le Nike Cortez ‘72, rese celebri sul grande schermo da Tom Hanks in Forrest Gump. Da qui in poi il brand sarà l’astro nascente del footwear sportivo globale, a discapito del marchio giapponese.
6. Vans (1966)
Rimaste pressoché inalterate dalla loro prima immissione sul mercato, le Vans (o, originariamente, Van Doren) rappresentano un altro modello di sneaker che, seppur nate a fini sportivi, hanno trovato fortuna nello streetwear e nel seguito di culto generatosi con i cluster giovanili, dai seguaci del Punk Hardcore agli studenti Ivy dei campus americani, passando ovviamente per gli skater. D'altronde, nascendo per le strade come alternativa invernale al surf, la disciplina dello skateboard – per cui nel 1966 il signor Van Doren ideò questa scarpa che aggiungeva alla tipica sneaker in canvas un’alta e solida suola – si è sempre collocata a cavallo tra lo sport e la sottocultura. Questa dicotomia si riflette nell’appeal tutt’ora trasversale delle Vans, capaci di adattarsi con successo a una pletora di look anche molto differenti tra loro, e di cui il pattern a scacchi bianconeri è uno dei principali tratti identificativi.
7. Puma Suede (1968)
La Suede è il modello Puma per antonomasia, ideato come scarpa da tempo libero per gli atleti partecipanti alle Olimpiadi Messico ‘68 (Tommy Smith ne indossa un paio nero nella celebre premiazione del pugno chiuso) e caratterizzato da una suola piuttosto alta in caucciù bianco dalla parte frontale zigrinata e da una tomaia in pelle scamosciata – originariamente disponibile solo in blu per atleti sotto contratto Puma e nero per quelli legati ad altri brand. Le Suede, inizialmente denominate Crack (termine che nello slang giovanile dei tardi Sessanta indicava una persona dinamica, capace e alla moda), a partire dal 1972 acquistarono una forma leggermente più affusolata diventando, temporaneamente, Clyde. La nomenclatura deriva dall’accordo, il primo di esclusività retribuita ($5,000 dollari sul piatto) tra un brand di abbigliamento e uno sportivo, il giocatore dei New York Knicks Walt Frazier, soprannominato Clyde per il suo vistoso stile dandy reminiscente di quello del celebre bandito Clyde Barrow – personaggio che a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 aveva goduto di un notevole revival nella cultura pop, come testimoniato da moda e canzoni del tempo. Per Frazier, Puma produsse oltre 300 colorazioni diverse della Clyde, in modo che l’eccentrico atleta potesse indossarne una diversa ad ogni gara.
Nel 1977, terminata la carriera di Frazier e il contratto con Puma, le sneaker furono, naturalmente, ribattezzate Suede e, complice l’appeal della star dei Knicks sui più giovani, diventano popolarissime tra i pionieri dell’Hip Hop delle comunità afroamericane newyorchesi. Le Suede sono le sneaker che per prime sottolineano come la moda sia capace di mettere in dialogo sportswear e streetwear, anticipando di due decenni il fenomeno delle Nike Air Jordan e l’attuale popolarità delle sneaker sulle passerelle.
8. Adidas Superstar (1969)
Le Adidas Superstar sono un altro esempio, al pari di Converse All Star e Puma Suede, di sneaker che trova un successo popolare dopo essersi affermata, prima, sui parquet dell’NBA. La grande innovazione delle Superstar è rappresentata dalla punta rinforzata in gomma bianca e zigrinata, quasi a riprodurre la sezione di un pallone da basket. Per essere consegnate alla storia, però, ci vogliono gli anni ‘80 e – anche in questo caso – la scena Hip Hop, tanto che questo design degli anni Sessanta viene collocato nell’iconografia di due decenni dopo. Il trio di rapper RUN-DMC le indossa spesso senza lacci abbinate a tute Adidas, cantandone in diverse canzoni come in “My Adidas” (1986). È proprio il potenziale commerciale rappresentato da questa canzone che porta il marchio tedesco a siglare un contratto di esclusiva di $1.6 milioni con il trio di Hollis, Queens, il primo tra un brand e un gruppo rap – una mossa non solo inedita ma anche rischiosa agli occhi dei benpensanti del tempo. La sneaker ha saputo diventare una tale istituzione del footwear che LEGO ne ha addirittura prodotto una sua versione, ovviamente da costruire.
9. Bundeswehr Sportschuch (1970s)
Note nel mondo della moda e dei collezionisti di sneaker semplicemente come GAT – acronimo di German Army Trainer – le scarpe per gli allenamenti e il tempo libero dei soldati dell’esercito della Germania Ovest sono un modello dal design unico e dalla storia elusiva. Le GAT vengono messe in produzione negli anni ‘70, su commissione del ministero della difesa tedesco. Qua documenti, prove e memorie si accavallano, lasciando dubbi sulla manifattura delle sneaker che, mano a dirlo, ancora una volta è un affare di famiglia tra i fratelli Adi e Rudolf Dassler, rispettivamente fondatori di Adidas e Puma nel 1948. Se le cuciture della scarpa ricordano quelle delle calzature disegnate da entrambi i Dassler per Jesse Owens alle Olimpiadi tedesche del 1936, lo stampo della scarpa è distintamente proprio delle Adidas Samba, anche se prive delle iconiche strisce e impreziosite da dei rinforzi geometrici in pelle scamosciata off-white sulla punta.
In seguito alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e il ridimensionamento dell’esercito dell’Ovest, molti soldati ritornati alla vita civile si trovarono con queste sneakers che divennero così - grazie al notevole surplus disponibile – una scarpa economica e popolare. Nel 1999 è però Margiela a cambiarne per sempre la sorte, acquistandone uno stock e proiettando la scarpa nel mondo della moda di lusso. Nel 2001 il colosso francese ne propone una versione decorata da scritte a mo' di graffiti con cui si invita i clienti a fare altrettanto, personalizzando la scarpa a piacere. Oggi la Bundeswehr Sportschuh è diventata una sneaker di culto tra i devoti del workwear e armywear usato, mentre la GAT Replica di Margiela vi fa rivivere l’ebrezza di sentirvi come dei soldati della Guerra Fredda al costo di poco meno di €400. Lo stile prima di tutto.
10. New Balance 990 (1982)
New Balance è stato uno dei primi brand a intuire l’importanza dello sviluppo tecnologico in sneaker destinate anche allo streetwear. Dalla fine degli anni ‘70 il brand americano sviluppa il concept già caro a Nike di scarpe da running con tomaia che unisce nylon a pelle scamosciata. Se nel 1980 con le 620 New Balance immette sul mercato le sneakers più leggere mai prodotte sino ad allora, è con le 990 del 1982, le prime prodotte in Inghilterra, che viene stabilito il primato per le sneaker più costose di sempre ($100).
Le 990 sanno anticipare quell’ibrido tra scarpa da atletica e comfort che renderà i futuri modelli l’epitome della "dad shoe", indossata anche nel modello 992 del 2007 dal guru della Apple Steve Jobs. Merito del successo delle New Balance risiede anche nei Casuals che le adottarono negli stadi britannici degli anni ‘80, diventando fondamentali traghettatori dello sportswear a ricercatissimo abbigliamento di lusso.
11. Nike Air Force 1 (1982)
Se passate per New York vi capiterà di sentire chiamare queste sneakers “uptown”, perché è lì, nell’inner city della Grande Mela di inizio-metà anni ‘80 che le Air Force 1 raggiunsero uno stato di culto. Inizialmente prodotte tra il 1982 e il 1984, una volta dismesse, la richiesta nel solo quartiere di Harlem fu tale da portare i rivenditori a scrivere a Nike per rimettere la scarpa in produzione.
Un ripensamento lungimirante dato che oggi le Air Force 1 sono uno dei modelli di maggior successo di Nike, disponibili in un’infinità di colorazioni e collaborazioni e in cinque diverse altezze – dalla super low alla super high con chiusura a velcro. Queste sneaker, il cui nome è un tributo alla performatività e potenza dell’aereo presidenziale statunitense, furono le prime ad impiegare la celebre tecnologia Air del brand americano.
12. Reebok Freestyle (1982)
Le Reebok Freestyle sono delle hi-top in pelle bianca, quintessenzialmente anni ‘80 che si inseriscono sul filone di scarpe sportive dall’appeal street come le Air Force 1, uscite anch’esse nel 1982, anno chiave per l’evoluzione tecnologica e culturale di questo capo d’abbigliamento. Il loro successo è indissolubilmente legato alla cosiddetta Fitness Craze del periodo, quando l’America diventò ossessionata con le lezioni di aerobica in VHS. Le Freestyle, infatti, sono le sneaker indossate da Jane Fonda, protagonista dei celebri corsi video.
È il loro triplo cuscinetto che avvolge la caviglia a renderle particolarmente innovative sotto il punto tecnologico rispetto ai concorrenti. Abbinate tanto a body in tessuto viscoso dalle tinte pastello quanto ai jeans stone washed, con le Freestyle Reebok riuscì a superare per numero di vendita il colosso Nike.
13. Nike Air Jordan I (1984)
Le Air Jordan sono le sneakers con cui Nike ha sovvertito le regole del gioco. Disegnate appositamente per Michael Jordan, all'epoca star nascente dell'NBA appena arrivato in forze ai Chicago Bulls, le Air Jordan erano una scarpa hi-top da basket in pelle la cui principale caratteristica è la colorazione in cui il rosso ed il nero dominavano sul bianco, andando contro le regolamentazioni dell'NBA. Pur di sfoggiarle sul parquet, Jordan era disposto a pagare una multa di $5.000 a partita, operazione che trasformò le Air Jordan I in veri e propri simboli di iconoclastia giovanile. A renderle poi un culto tra i ragazzini del tempo, oltre all'appeal generato dall'esclusività della scarpa utilizzata dal solo Jordan, erano anche accortezze grafiche come il logo alato Air Jordan disegnato da Peter C Moore e ispirato dai distintivi dei piloti d'aereo. Il logo, un'allusione al modo spettacolare con cui Jordan si elevava in salto, fu fondamentale nell'accattivare un pubblico giovane. Addirittura Will Smith nella sitcom Il Principe di Bel Air ne fu endorser.
Con il tempo la serie Air Jordan ha introdotto importanti novità nel mondo Nike, come la sottrazione dello swoosh (Air Jordan II, 1986), l'evoluzione della tecnologia Air nei cuscinetti delle suole e l'introduzione del celebre Jumpman logo di Tinker Hatfield su bozzetto di Moore (Air Jordan III, 1988) che tutt'ora caratterizza le sneaker.
Si può dire che le Jordan hanno saputo essere le eredi delle Puma Suede nella loro capacità di trasformare una scarpa da basket in un fenomeno di streetwear, in questo caso però di proporzioni inedite e tutt'ora motore di un collezionismo di culto.
14. Airwalk One (1986)
Se per molti sono le Vans a incarnare l’epitome della scarpa da skateboard, le Airwalk One ne hanno rappresentato una valida alternativa nel corso degli anni ‘90. L’Airwalk One è una scarpa che all’estetica preferisce performatività e durabilità. Fu disegnata con questo preciso scopo in mente dagli skater George Yohn e Bill Mann per i loro colleghi nel 1986, come a sottolineare che Vans si fosse avvicinata eccessivamente al mondo della moda e dello streetwear. Le Airwalk, con la loro silhouette robusta e bombata, hanno anche avuto il merito di influenzare gli stilemi di altre celebri scarpe da skateboard quali Etnies e DC, capaci di raggiungere grande popolarità tra i ‘90 e i ‘00.
15. Nike MAG (1989)
Alcune calzature possono entrare a far parte della storia delle sneaker pur non essendo mai state messe in commercio o tantomeno in produzione. È il caso delle Nike MAG, progettate dal Tinker Hatfield come oggetto di scena indossato da Michael J Fox in Ritorno al Futuro II (1989). A trasformare le sneaker in oggetto di culto, più che la silhouette ultra alta o le suole ultra leggere per i tempi, fu il sistema di chiusura autoallacciante, un trucco cinematografico azionato da un set di batterie nascosto alla camera.
Dopo anni passati a sognare e sperare in una produzione delle sneaker, nel 2011 Nike ha finalmente accontentato i cultori del film con un’edizione limitata della scarpa che peccava però di n unico fondamentale dettaglio: l’autoallacciatura. Nel 2015, però, Michael J Fox si presenta alle telecamere del programma statunitense Jimmy Kimmel Live! con un paio perfettamente identico e funzionante con tanto di suola elettroilluminata, riaprendo dunque il dibattito attorno alle MAG. A un anno di distanza Nike, finalmente, rilascia le scarpe sul mercato in un’edizione limitata di 89 paia (chiaro tributo all’anno di uscita della pellicola) messe in palio tramite una lotteria i cui proventi sono stati completamente donati alla fondazione di Michael J Fox per la lotta al Parkinson.
16. Nike Air Max 95 (1995)
Le Air Max 95 sono solamente uno dei modelli con tecnologia Air con cui la Nike si smarca su tutti gli altri competitor nei ‘90, creando una legacy di modelli dal design avveniristico che pur nascendo per il running non celano di puntare da subito alle strade, ai ragazzi, ai club. Modelli che a oltre vent’anni di distanza dal loro debutto sul mercato continuano a risultare attualissimi e desideratissimi, tra riedizioni, colorazioni in edizione limitata e collaborazioni esclusive.
Le Air Max 95 furono disegnate da Sergio Lozano con un concept inedito che poneva la sneaker in parallelo con l’anatomia umana: la suola con cuscinetti Air rappresentava la spina dorsale, i pannelli gradienti sui lati i muscoli, l’allacciatura la cassa toracica e il tessuto che corona la scarpa la pelle. Le Air Max 95 – come altri modelli della serie, specialmente le TN – diventano presto icone della scena Grime londinese di inizi Duemila, ma la loro colorazione neon li rende scarpe dal fascino alieno, quasi Cyberpunk.
17. Adidas Yeezy Boost 350 (2015)
Yeezy è la linea Adidas realizzata dal 2013 in collaborazione con il rapper e imprenditore Kanye West. Yeezy rompe completamente con la tradizione del marchio tedesco, proponendo sneaker che – stando alle parole di West – sono ispirate tanto da disegni antichi di 3000 anni quanto dalla silhouette delle Lamborghini e dalle calzature viste in Akira, film d’animazione Cyberpunk giapponese del 1988. Le Boost 350, le seconde della serie Yeezy, sono forse quelle maggiormente rappresentative dell’immaginario Yeezy e quelle che hanno avuto maggior eco sul mercato.
Con Yeezy Adidas ha introdotto a pieno titolo nelle calzature destinate allo streetwear l’uso dell’ultraleggero e performante poliuretano termoplastico (TPU), tecnologia sino ad all’ora destinata esclusivamente alle suole della produzione per atletica. La tomaia della scarpa, invece, è realizzata con tecnologia Adidas Primeknit, un tessuto fibroso in jacquard che avvolge il piede come una calza. Questo tipo di tessuto si è sviluppato a partire dalla rivoluzionaria introduzione delle Nike Flyknit alle Olimpiadi di Londra del 2012, sneaker che hanno influenzato un nuovo approccio dettato dalla ricerca tecnologica per la realizzazione di scarpe destinate anche al tempo libero.
18. Balenciaga Triple S (2017)
Nonostante la casa di moda Balenciaga non abbia una tradizione di scarpe da ginnastica dalla sua, le Triple S hanno avuto il merito di cambiare drasticamente il corso del mercato e le regole del gioco, sia in fatto di design che di consumo. Disegnate da Demma Gvasalia e David Tourniaire-Beaucie, le Triple S – come suggerisce il nome stesso – nascono dalla rivoluzionaria sovrapposizione di tre diverse suole (da running, da basket e da atletica) su cui si innesta la tomaia di una tipica scarpa da ginnastica anni ‘90, in stile Reebok, Asics o new Balance.
Questa scarpa ha lanciato il trend delle luxury sneaker, ma soprattutto ha dimostrato che le sperimentazioni che in passato avremmo etichettato come follie da prototipi possono trovare un’applicazione di successo sul mercato. Così sproporzionate e costose da diventare simbolo dell’opulenza post-moderna della cultura degli influencer e, di conseguenza, capaci di sfruttare l’iniziale stupore del pubblico – e relativi meme – come cassa di risonanza.
Sull’onda della svolta segnata nel 2013 dal restyling delle Adidas Ozweego da parte di Raf Simons, le Triple S sono le sneaker che più di altre hanno aperto le porte per l’affermazione delle sneaker oversized e chunky nella moda contemporanea. Un instant classic.
19. Zara Sock Sneaker (2017)
Con l’ascesa delle catene di abbigliamento il mercato delle sneaker si è aperto a un’ampia gamma di copie budget, più o meno fedeli, delle scarpe presentate sulle passerelle dell’alta moda. L’accessibilità di capi di lusso, altrimenti dedicati a un pubblico elitario, è stato un elemento chiave nel sovvertire la concezione dell’uso delle scarpe da ginnastica negli ultimi anni. La transizione delle sneaker da calzatura prettamente sportiva a capo esclusivo capace di sostituire la vecchia scarpa formale anche in ambienti alti, professionali e maturi racconta molto dei nuovi canoni estetici della società contemporanea. Balenciaga è stato tra i maggiori responsabile di questo ribaltamento di costumi, che passa per il 2017 e l’uscita della Sock Sneaker.
È però la sua fedelissima versione di Zara (ai limiti del plagio) che ha sdoganato a pieno la calzatura, facendo sì che la visione estetica di Balenciaga diventasse accessibile a una clientela ampia e trasversale. La scarpa, che può ricordare una versione ulteriormente avveniristica e calata nella contemporaneità delle Nike MAG di Ritorno al Futuro II, è caratterizzata da una tomaia in tessuto knitted e elastico che avvolge il piede per poi salire sulla caviglia trasformando il concept della sneaker hi-top in un calzino futuristico.
20. Lidl Sneaker (2020)
Lanciate nel Luglio 2020 dalla catena di supermercati tedeschi Lidl come parte di una linea di abbigliamento budget che non superava i €12.99, queste sneaker hanno rappresentato, e allo stesso tempo messo a nudo, il nuovo (folle) status quo del mercato delle sneaker. Una brillante mossa di marketing, più che un capolavoro del design, le sneaker Lidl hanno portato il concept dell’esclusività del drop in edizione limitata tanto caro ai colossi dello sportswear e del lusso nel contesto massificato di un supermercato a basso costo.
È proprio l’effetto scaturito da questo clash culturale, amplificato a sua volta dalla meme culture, ad aver trasformato le sneaker Lidl in un must, così desiderabile da innescare gli stessi meccanismi che caratterizzano il mercato online delle sneaker da collezione. Un’asta, addirittura, ha toccato i €6000 per un paio.
Nella silhouette che vuole esplicitamente rifarsi alle calzature chunky in stile Balenciaga Triple S, Nike Huarache o Puma LQD, si ritrova il sunto di una cultura post-moderna ormai ripiegata su sé stessa, tra l’indulgenza per il divertissement e (forse) il situazionismo. Le sneaker Lidl oggi sono nuovamente in produzione e disponibili al loro prezzo budget. Bolla scoppiata e successo commerciale assicurato per un brand che è entrato nella storia delle calzature pur facendo del proprio business core tutt’altro.
Nate a cavallo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, le sneaker – anche note come plimsolls, pumps, crepes, kicks e chissà quanti altri termini gergali – sono inizialmente prodotti derivati dall’evoluzione degli studi sulla gomma, non a caso i primi, storici marchi (come Dunlop e Superga) erano tutt’altro che dediti alla moda. La loro funzione sportiva – tanto da meritargli il comune sinonimo di ‘scarpe da tennis’ – ne caratterizza gli esordi, ma è l’adozione a pilastro dello streetwear a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso a rivoluzionarne per sempre il ruolo e la semantica. Continua a leggere