L’Italia è la nazione nota in tutto il mondo come la patria del bel canto, al punto che qualche anno fa, l’allora premier Matteo Renzi fu accolto in Germania sulle note di Azzurro anziché su quelle dell’Inno di Mameli.
Bel canto che, in Italia, ha sempre trovato casa più sui palchi televisivi che in quelli circondati da fango che tanto hanno dato all’epica delle estati rock d’oltremanica. Infatti, salvo rari episodi storici – come i turbolenti Festival del Proletariato Giovanile svoltisi al Parco Lambro di Milano tra il 1971 e il 1978; o altri eventi legati al mondo delle arti performative, vedasi il festival teatrale di Santarcangelo – le estati del Belpaese sono, da che esiste il pop, scandite da un insieme di competizioni canore legate più all’aspetto discografico che a quello ribelle della musica.
Competizioni, dal Festival di Castrocaro al Festivalbar, che hanno accompagnato non solo musicalmente, ma anche dal punto di vista dell’estetica e del design, l’evoluzione della nazione, dei suoi costumi e del suo linguaggio.
Gli anni Sessanta, la stagione d’oro dell’industria discografica italiana e, di conseguenza, anche dell’apparato grafico che l’accompagnava (si pensi, per esempio, al fatto che Guido Crepax veniva spesso prestato all’illustrazione di copertine di dischi, o agli artwork sperimentali che uscivano dallo studio grafico della RCA Italiana), sono infatti disseminati da un tripudio di manifestazioni canore estive: il Festival di Castrocaro, Un Disco per l’Estate, il Festivalbar e il Cantagiro.
Caratteristica dominante di questi festival è che, pur venendo trasmessi via radio o televisione, si fondano su forme itineranti che li costringono, dunque, a non usufruire dei teatri di posa televisivi ma di complessi termali, palazzetti, stadi, piazze e casinò. Un fattore che, soprattutto durante gli anni ‘60 e la prima parte dei ‘70, porta la RAI a rinunciare alle scenografie all’avanguardia che avevano reso i varietà dei gioielli di design tricolore. Per contro questi eventi assumono tratti scenografici unici che portano in dialogo timide scenografie optical o geometriche dettate da stringenti necessità di montaggio e trasporto con palchi dall’aspetto paesano e agreste, arricchiti da tripudi di fiori modulati sull'esempio di quella che all’epoca era la kermesse canora registrata al di fuori degli studi RAI per eccellenza: il Festival di Sanremo (ai fiori verrà addirittura dedicato il nome di un’altra, ennesima, manifestazione dei ‘60, il Festival delle Rose).
Si guardi la tappa del Cantagiro 1966 alle Terme di Fiuggi dove a contestualizzare l’evento come figlio della Beat generation sono giusto una pedana circolare bianco-arancio per batteria dal marcato gusto Space Age e i costumi dei cantanti in gara, come le giubbe total white dei Primitives (le ritroveremo nel 1995 nel video di The Universal dei Blur, ispirato, per l’appunto, a atmosfere distopico-spaziali alla Stanley Kubrick).
La formalità e il pudore democristiano sanremese, infatti, dominano le manifestazioni canore estive italiane per tutto il decennio in questione. Una serie di ridenti ma composte località turistiche viene scelta come meta designata: dalle terme di Recoaro (finali di molte edizioni del Cantagiro) al Casinò di Saint Vincent (Un Disco per L’Estate), passando per Chioggia (Festivalbar) e per l’immancabile riviera romagnola (Festival di Castrocaro, Festivalbar), che con l’avvento del boom si accaparra lo scettro di nuovo paradigma dell’estate italiana, sostituendo il ruolo precedentemente ricoperto dalla riviera dei fiori, casa del festivàl e guardiana di una raffinatezza esclusiva ancora figlia della belle époque.
Se il Cantagiro non rappresenta una rivoluzione scenografica, ne incarna una antropologica. Uscendo dagli studi televisivi, la performance passa in secondo piano, facendo diventare vero protagonista il pubblico intento a seguire la carovana di artisti che sul modello del Giro d’Italia attraversa lo Stivale.
Forse, ci si potrebbe addirittura spingere a affermare che il Cantagiro – così come il suo corrispettivo ciclistico – ha saputo fare più in fattore di unificazione culturale nazionale di tanta politica.
Il paesaggio italiano, con la sua varietà morfologica, diventa così la scenografia su cui si staglia il design made in Italy del tempo, dalle Mini e gli scooter Lui Innocenti su cui viaggiano i Camaleonti al Cantagiro 1968, al merchandising promozionale, come le t-shirt sponsorizzate Amaro Cora e Bulova indossate dai cantanti vincitori a mo’ di maglia rosa, o come i cappellini promozionali di Gianni Morandi modellati su quelli dell’esercito nordista statunitense.
Il dialettica tra performance e territorio si fa dunque simile a quella portata avanti da Lapo Binazzi e altri esponenti delle avanguardie fiorentine con il loro Giro d'Italia del 1971, in cui azioni di riappropriazione del territorio e esperimenti di videoarte venivano sviluppati lungo lo Stivale.
È, però, dalla seconda metà dei Settanta che lo stage design inizia a diventare sempre più protagonista in concomitanza con l’affermazione, su tutta la concorrenza in declino, del Festivalbar di Vittorio Salvetti. È nella serata conclusiva dell’edizione del 1979 all’Arena di Verona che si assiste all’inedito assetto con due palchi che consentono ai musicisti impegnati di essere meno legati ai tempi concisi dettati dall’esigenza del cambio palco. Così, da un lato i Rockets, dall’altra i Pooh, sono i laser Spectra Physics da 18 e 5 watt a dominare la serata, proiettando l’Italia verso un uso nuovo e assoluto delle luci stroboscopiche.
Sarà il Festivalbar a incarnare, con il tempo, il termometro dell’evoluzione dei trend estetici e musicali dell’Italia, scandendone le estati e i tormentoni. D’altronde, gli Ottanta sono il decennio che sancisce il passaggio del Festivalbar dalla RAI a Fininvest, un salto a partire dal quale le scenografie si vestono di quell’opulenza post-moderna a cavallo tra la metafisica e la discoteca che caratterizza anche il palcoscenico di Sanremo 1981 (forse la scenografia più significativa della storia del festival) e i palchi pensati da Filippo Panseca per i comizi del Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi – a loro volta dei festival con maxischermi piramidali e esibizioni di cantanti come Ornella Vanoni.
Ne sono epitome, più di altre, la scenografia con gradoni argentati dell’estate 1984, le architetture che nel 1992 fanno da scena a Mare, Mare di Luca Carboni – incarnazione di quel gusto che Pier Vittorio Tondelli descriveva come Adriatic Kitsch nella sua epica dell’Emilia Romagna anni Ottanta –, e le performance (rigorosamente in playback) dei Righeira nelle edizioni 1983 e 1985, che diventano un tutt’uno con la scenografia. I Righeira – che sulla copertina del loro album di debutto indossano cravatte della serie Memphis di Ettore Sottsass Jr. – si fanno infatti promotori di quel gusto alla Fiorucci che, pur guardando con nostalgia ai ‘50, sapeva creare un linguaggio estetico dirompente, sinonimo del design italiano anni Ottanta nel mondo.
Analogamente, anche Un Disco per l'Estate – anche se per pochi anni, sotto la veste di Saint Vincent Estate – propone soluzioni scenografiche in cui laser e metafisici volumi post-moderna si incontrano, come nella catartica perfromance di Alice in kimono di seta bianca al Saint Vincent Estate '85.
Questi sono anche gli anni in cui il Festivalbar inizia a dotarsi di una corporate image precisa, distintamente Fininvest, che con i Novanta assume i tratti di un logo dalla sinuosità simile a quella del suo TG satirico Striscia la Notizia. Un logo indubbiamente figlio di Windows ‘95 e Word Art, che oggi risulta tanto demodé quanto adatto a succosi revival post-moderni per la cultura meme culture. Per non parlare, poi, del girasole, pilastro dell’iconografia delle estati di molti ex teenager tra il 2001 e il 2004, e simbolo di una non ben specificata attitudine spensierata alla vita e alle spiagge, al pari dell’uso del pattern arcobaleno, indubbiamente distante dalle contemporanee connotazioni socio-politiche.
Arcobaleno ampiamente ripreso nelle scenografie del Festivalbar 1995 che colloca un grande arco giallo-rosso sul fondo della scena a mo’ di cancello d’ingresso, una soluzione reminiscente della palette che sconvolse l’audience del Sanremo ‘78.
Per il Festivalbar dell’anno precedente, invece, le scenografie osano, andando a sfiorare l’incipiente estetica Cyberpunk attraverso una serie di televisori a tubo catodico impilati come in un’installazione museale contro un fondale industriale e minimalista composto dagli scheletri delle impalcature su cui montano le luci. A fare da contraltare gli interventi di Amadeus – che in epoca di cancel culture suscitano un certo imbarazzo nello spettatore, e sembrano appartenere a un passato remoto, quello degli anni d’oro di Mediaset, dei giochi a premi e delle veline.
Ancora, le grafiche a spirale dell’edizione 1999 che incarnano l’onda lunga del revival flower power che scuote la musica e l’estetica occidentale – dalla daisy age dell’hip hop statunitense alla second summer of love britannica – per tutto il decennio. Il tutto calato in un programma artistico che vede nomi quali Bjork e le Elastica accostati a Miguel Bosè e al Fiorello con coda di cavallo, crossover – questi sì – davvero post-moderni, che oggi ci risultano tanto assurdi quanto ci ricordano di decenni in cui la televisione ha avuto un’opportunità di influenza dei costumi oggi perduta.
Una crisi che le competizioni canore estive italiane hanno avvertito da più di dieci anni quando, nel 2007, il Festivalbar ha tentato un ultimo colpo di coda, coinvolgendo l’allora ruggente MySpace nell’evento, incoronando i Tokyo Hotel campioni della categoria Digital, prima di chiudere definitivamente i battenti. Un’eredità – al pari delle battute di Amadeus – lontanissima, se si pensa che già siamo in tempi di revival emo promossi da una generazione cresciuta a sua volta dopo la caduta di MySpace.
Ad unire queste manifestazioni, dagli anni Sessanta fino ai Duemila – in anticipo di anni sui tanti sproloqui sul tema della “grande bellezza” e delle “eccellenze” tricolori di cui sembra essere prigioniera la cultura italiana dell’ultimo decennio –, c'è però una nazione che, pur guardando musicalmente al presente (e in alcuni casi anche al futuro), fuori dagli studi televisivi, abbraccia il suo passato artistico e architettonico, senza nasconderlo dietro a scenografie, ma ponendolo in dialogo con esse. Si pensi ai giardini delle terme di Recoaro che si prendono la scena – assieme allo charm di Alberto Lupo – nella sigla della finale del Cantagiro 1972, o a come l‘Arena di Verona abbia sempre saputo essere il faro che per anni ha scandito le estati degli italiani che, appicciati al divano, seguivano il Festivalbar in televisione.
Se la nostalgia è, dopotutto, una delle migliori forme di escapismo, non ci resta che recuperare i CD rossi e blu del Festivalbar, o un 45 giri recante il bollino – chicca di grafica mid-century – di “brano partecipante al concorso Un Disco per l’Estate” e, orfani delle kermesse canore estive di ieri, abbandonarci alla calura d’agosto.