E proprio per onorare un marchio che è nella storia del design made in Italy, nel nuovo showroom di via Borgogna abbiamo incontrato Enzo Mari che, comodamente seduto sulla poltrona Elisa, presentata quest’anno insieme al divano (stabilmente nella propria abitazione da oltre 40 anni), ci ha parlato di design e di Salone, tra un aneddoto e l’altro della sua lunga militanza professionale.
Il racconto delle modalità di produzione e del rapporto con gli imprenditori degli anni Sessanta e Settanta è il doveroso incipit della nostra conversazione. “L’interlocutore giusto con cui parlare per lavorare a un progetto è sicuramente l’imprenditore”, afferma Mari, “ma anche cinquan’anni fa, come spesso accade oggi, le aziende tendevano a demandare questo dialogo a personaggi del marketing, che proponevano al designer l’imitazione di pezzi di successo esistenti invece che assecondare l’anelito all’innovazione. Era ed è una strada sicuramente sbagliata: l’imitazione implica un anno di lavoro su un prodotto che nasce e muore in fretta. Io ho sempre lavorato avendo come obiettivo l’essenza, non la sembianza, e odiavo i colleghi che ponevano attenzione alla sembianza. Ero così intransigente in questo mio atteggiamento che guardavo con disprezzo ai prodotti industriali, che ai miei occhi erano arroganti e contrari ai miei principi generali. Nel mio percorso di apprendistato al mondo del progetto ho pian piano capito che quello che serviva a me era quello che serviva a tutti, quella tipologia di progetto era ciò su cui lavorare”.
Il discorso scivola sul bilancio del proprio operato. Come su qualsiasi altro tema, anche in questo ambito Mari è tranchant e intransigente, non risparmia niente e nessuno. “Sono stato un bravo designer, forse il migliore della mia generazione, ma se tornassi indietro non rifarei nulla. Ho dedicato oltre metà della mia vita a far sì che il mondo non diventasse ciò che è ora, e ho fallito. Probabilmente era un progetto talmente ambizioso che neppure il Padreterno sarebbe stato in grado di portalo a buon fine. Io mi sono dedicato al design perché il livello delle mie capacità manuali era alto.
Ero anche consapevole della mia totale ignoranza sui problemi generali e mi illudevo che uno dei miei zii emigrato in America tornasse e fosse in grado di pagarmi una scuola seria. Ma così non è stato. Col passare del tempo mi sono comunque accorto che la scuola così com’è strutturata non serve a nulla, perché non si basa su parole comuni condivise da tutti i professori, ma sulla scelta di docenti diventati famosi per i loro studi e lasciati liberi di fare ciò che vogliono, senza condividere metodo, prassi e principi fondamentali. Nessuno rielabora e mette in dubbio le parole inventate 4.000 anni fa in condizioni economiche e sociali completamente diverse. Non ci sono le premesse quindi per attuare un vero progresso. Bisognerebbe riscrivere i codici del linguaggio e della cultura, ma per farlo bisognerebbe agire a livello politico. Ho pensato molto a mettermi in prima linea nel sociale, ma richiederebbe troppo tempo, non ne ho abbastanza”.
14–19 aprile 2015
Driade
via Borgogna 8, Milano