La Pop Art è una corrente che si afferma e si sviluppa al suo massimo negli Stati Uniti dai primi anni ’60 del Novecento, ma le sue origini, le sue prime sperimentazioni, i suoi sviluppi ed influssi hanno in realtà uno spettro molto più ampio, sia in termini di geografia che di discipline.
Ad accomunare gli artisti che fanno parte di questa corrente sono un lavoro sul mettere in rapporto arte alta con arte popolare, e la scelta di affrontare un discorso ormai imperante, del mondo della cultura popolare come mondo dei consumi, della pubblicità e di tutto il sistema di valori e rapporti sociali ad esso connessi: questo discorso sarà affrontato con tecniche e soprattutto posizioni individuali molto differenziate, che spazieranno dalla critica aperta alla registrazione asettica, fino alla glorificazione.
È in Gran Bretagna che, nell’immediato secondo dopoguerra, si forma l’Independent Group, un raggruppamento di artisti, architetti e teorici che, presso l’Institute of Contemporary Arts di Londra, porterà avanti una riflessione articolata tra iconografie dei media popolari, fotografia, rapporti tra umani, e tra uomo e macchina. Parte di questo gruppo sono anche gli architetti Alison e Peter Smithson, e lo storico e teorico Reyner Banham. Attraverso l’impiego di ambientazioni e objets trouvés, ma soprattutto della tecnica del collage, il gruppo mette in discussione la mercificazione generalizzata delle vite umane così come degli oggetti, spesso impiegando materiale tratto da stampa popolare e pubblicità. I collages di Eduardo Paolozzi enfatizzano la pubblicità stessa come ready-made; i lavori di Richard Hamilton creano invece articolate pastiches di linguaggi commerciali e luoghi comuni sulla domesticità moderna e sugli ideali estetici di un’epoca, come in Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? (1956). Momento fondamentale di questa vicenda è la mostra This is tomorrow del 1956 presso la Whitechapel Gallery di Londra, in cui tutte queste differenti espressioni trovano posto entro un dispositivo di allestimento che già da solo costituisce parte della comunicazione.
Principalmente attraverso personaggi quali Richard Lannoy e Banham, molti sono i contatti con l’ambiente americano, ma già in quel contesto si erano attivate riflessioni autonome. Jasper Johns, fin dagli anni 50, impiega infatti oggetti della quotidianità visuale domestica ma anche pubblica degli americani come materiali la cui composizione, sovrapposizione o pura esposizione, può creare opere d’arte capaci di richiamare l’attenzione su temi sociali già presenti sotto gli occhi di tutti (è il caso delle celebri bandiere americane, Flags, dal 1954-55). Robert Rauschenberg incarnerà invece una transizione dall’arte informale verso Pop Art nell’uso peculiare che farà dei mixed media nei suoi combine paintings che uniscono oggetti e pittura, per poi spostarsi dal 1962 verso metodi su base fotografica comuni ad altri artisti pop.
L’affermazione della preponderanza di riflessioni proposte dal contesto americano, da dove iniziano ad emergere figure come Claes Oldenburg, James Rosenquist, Roy Lichtenstein e poi Andy Warhol, si ha in mostre quali The popular image (Washington, 1963) e la celebre Biennale di Venezia del 1964 dove la Pop Art è protagonista al padiglione degli Stati Uniti: quest’ultimo episodio espositivo genererà grande clamore nel discorso italiano e internazionale sull’arte, e al suo interno Rauschenberg vincerà il premio per la pittura).
Tra le figure di spicco nella Pop Art, Claes Oldenburg passa lungo la sua carriera attraverso molte forme — inizialmente gli happening con Jim Dyne negli anni ’60 — ma è nelle repliche a scala monumentale di oggetti quotidiani e soprattutto di cibo che Oldenburg concentra la sua satira della religione del consumo. Il suo inserimento nel più vasto panorama del Postmoderno deriverà da questo spregiudicato e studiato gioco di scale.
Andy Warhol, inizialmente grafico pubblicitario, parte concentrandosi su immagini seriali basate su serigrafia rielaborata con la pittura, puntando a livellare merci (32 Campbell Soup Cans, 1962), fatti di cronaca (White Disaster — White Car Crash 19 Times, 1963), personaggi famosi (Le serie di Jackies, 1964; Mao, 1972) in una simile assenza di emozione, così come pubblicità e consumo livellano tutta la società nel ruolo di consumatore. Attraverso tre decenni, Warhol costruisce su grafica e linguaggio un intero mondo, destinato a diventare icona ancora oggi di riferimento, espresso anche nei film, performance e musiche prodotti a New York presso la sua Factory dal 1963.
Roy Lichtenstein sta invece al crocevia di tutte le più importanti tematiche della Pop Art: riportare al centro un’arte non alta, celebrare linguaggio e semiotica del commercio, riprendere le modalità di rappresentazione del fumetto, posizionarsi attivamente nel dilemma tra umano e macchina. Questi ultimi due aspetti sono riuniti dalla sua tecnica del proiettare immagini di fumetto per poterle ridipingere manualmente e in seguito applicare, sempre manualmente, una texture di Ben Day dots, (tecnica proveniente a sua volta dal processo di fotoincisione).
La Pop Art coinvolge diverse scale e ambiti di espressione e progetto: l’architettura e soprattutto il design ricevono forti influenze dalla Pop Art. I primi progetti e provocazioni dei Radicali italiani, Superstudio e Archizoom, hanno i tratti della critica e del linguaggio pop; ugualmente, esagerazione di tratto e di scala caratterizzano pezzi iconici come i multipli creati da Gufram e gli arredi concepiti da Studio65 .