Il lavoro di Giulio Iacchetti è il manifesto di quanto sia riduttivo pensare alla figura del designer come “disegnatore di prodotti”. È lui probabilmente uno dei più autorevoli esponenti di un design collaborativo, capace di creare sinergie con progettisti differenti (vedi “Design alla Coop”), ma anche progettando con le aziende visioni e identità, prima che oggetti o immagini. La sua è un'idea allargata di design, dove il progetto non è il risultato di un unico designer, ma il frutto di tante persone che lavorano insieme.
Lo incontriamo nel suo studio di Milano. Immaginate scaffali pieni di oggetti di ogni tipo e colore. Ci sediamo, lui accende una grossa pipa e cominciamo a parlare.
Giulio, ormai non disegni solo prodotti: con le aziende progetti strade percorribili.
Credo che la direzione artistica sia il passaggio all'età matura per un designer. Progettare non solo oggetti ma anche una visione, un percorso da fare con l'azienda, è una forma di crescita, il riconoscimento di essere diventato adulto. Nasce sì dall'esigenza di avere un orizzonte progettuale più ampio, ma anche dalla presa di coscienza di potercela fare, di avere un bagaglio di esperienze sufficienti ad affrontare questo tipo di percorso.
E in questo percorso sei sempre alla ricerca della via più razionale possibile?
I presupposti del progetto sono razionali, ma il progetto è sempre frutto di alchimie non prevedibili. Se ad esempio le aziende avessero perfettamente idea di dove vogliono andare non avrebbero bisogno di un designer. Alberto Alessi mi disse che le aziende italiane indicano dei brief che vengono poi regolarmente disattesi dai designer. Questo può sembrare una contraddizione, ma è la modalità per poter affrontare un percorso mutevole, ed è quello che gli imprenditori illuminati come Alessi si aspettano dai designer.
E com'è iniziato il percorso con Danese Milano?
Dunque, Carlotta de Bevilaqua, amministratore unico di Danese, mi contattò chiedendomi se ero disposto ad occuparmi della prossima collezione. Ricordo che feci quasi subito un disegno, una sorta di fumetto: rappresentava una brocca ed un bicchiere che sognano di essere appoggiati in un vassoio di Enzo Mari. Lo fotografai e lo inviai scrivendogli il mio pensiero: “noi, oggi, abbiamo bisogno di ricucire relazioni, c'e l'esigenza di costruire pensieri solidali e vorrei trasferire tutto questo negli oggetti”.
Quel disegno voleva anche dire che avresti fatto una collezione non di rottura, ma di unità.
Esatto. Vorrei che gli oggetti Danese si unissero tra loro, senza strappi, anzi, cercando quando possibile di riprendere temi che con l'andare degli anni si sono interrotti. “Ricucire” appunto.
Credo siano sbagliate le collezioni che hanno il principale obiettivo di rappresentare il designer che le disegna. Bisogna avere rispetto dell'azienda per cui si lavora, rispettarne la storia: soprattutto se si parla di una storia importante come quella di Danese Milano.
Un esempio secondo me perfetto di questa operazione è MATUA, una ciotola che hai disegnato partendo da un vecchio progetto di Enzo Mari.
Esatto, abbiamo ritrovato in archivio un progetto di Mari di una qualità formale incredibile: sono due posate da insalata. Erano però rimaste “orfane”, non avevano nessun contenitore. Allora ho progettato una bacinella per dare loro un posto dove vivere, per ricreare una famiglia e per ricucire un dialogo con il passato.
Potresti provare a sintetizzarmi la principale rivoluzione culturale portata da un'azienda così centrale come Danese?
Nel secondo dopoguerra la borghesia milanese utilizzava oggetti ridondanti il cui valore principale era dato dalla qualità artigianale, dal decoro e dall'utilizzo di materiali preziosi come ad esempio argento o radica. Danese ebbe la volontà utopica di rendere il progetto comprensibile e alla portata di tutti. La qualità non stava più solo nella manualità di un artigiano o nella preziosità dei materiali, ma anche, e soprattutto, nella qualità del progetto. Questa è stata una rivoluzione culturale incredibile.
Danese è un'impresa che crea ancora innovazione, produce oggetti ma soprattutto continua a produrre qualità. Però diverse aziende-icona del design italiano corrono il rischio di diventare aziende-museo. Come si può evitare questo secondo te?
È giusto quello che dici, bisogna stare molto attenti a maneggiare la storia, perché è un'attimo infilarsi in un sarcofago: se poi si chiude il coperchio, il rischio è di non uscirne più. Un giorno parlai con un'imprenditrice di un'azienda storica italiana, le stavo facendo i complimenti per il lavoro straordinario che aveva fatto con designer di primissimo piano. Lei mi rispose dicendomi, “ti ringrazio Giulio, ma noi siamo in realtà di fronte ad un fallimento. Sono sconfitta. È vero, abbiamo fatto un lavoro importante, sofisticato, però l'azienda ora è praticamente chiusa, non è riuscita ad andare avanti”. Quella signora mi diede una importante lezione, una verità assoluta: le aziende sono prima di tutto fatti commerciali e devono vivere di commercio, sennò muoiono.
Un'altra cosa che ho capito è questa. Le aziende del design italiano hanno avuto un'epoca mitica, ora vista come mitologica, ma cosa facciamo ora? Vogliamo coltivare il culto delle ceneri oppure vogliamo riaccendere quel fuoco? Per farlo non c'è alternativa, dobbiamo continuare la loro ricerca avendo la capacità di aggiornarla ai nostri giorni con la giusta sensibilità e qualità progettuale.
E dove sta secondo te questa “qualità progettuale”?
Non lo so, non c'è una risposta definitiva su questo. Ma ti dico una cosa: uno dei momenti più emozionanti che ho con i miei figli è quando li accompagno a letto e mi dicono, “papà raccontami una storia”. È per loro un modo di fermare il tempo, è l'esigenza di poter sognare ancora un po'. Noi tutti, anche da adulti, abbiamo bisogno di storie: le leggiamo su i libri, le vediamo nei film, oppure le ascoltiamo con interesse dagli altri. La forza nascosta degli oggetti è questa, ci narrano delle storie. Tutto questo fa probabilmente parte del mondo dell'inutilità. È forse difficile ammetterlo a noi stessi, ma spesso le cose che riteniamo “inutili” sono proprio quelle di cui abbiamo più bisogno.
- Luogo:
- Danese Milano
- Indirizzo:
- Piazza San Nazaro in Brolo 15
- Città:
- Milano