Aprendo le porte di location nascoste, cortili privati e botteghe artigiane, Isola Design District ha ospitato per la seconda volta giovani designer e brand emergenti, con mostre, installazioni, workshop ed eventi. Lo racconta Emilio Lonardo, co-fondatore del distretto insieme a Gabriele Cavallaro, Nicola Nicoletti, Elif Resitoglu e Giulio Nicoletti.
I corsari di Isola: un distretto del design per difendere il quartiere milanese
Emilio Lonardo ci racconta la seconda edizione di Isola Design District, realtà che mira a proteggere l’identità di uno dei più popolari quartieri di Milano.
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- Marianna Guernieri
- 03 maggio 2018
- Milano
Come nasce il tuo amore per Isola?
Quando mi sono trasferito a Milano era ancora abbastanza decadente, forse per quello mi piaceva. Dopo EXPO, con il rifacimento del piano urbanistico, il quartiere ha completamente cambiato faccia: ancora affascinante ma completamente diversa rispetto a quello che era prima. Quando mi sono messo in gioco per costruire da zero un distretto del Fuorisalone, tra le aree della città ancora non battute Isola mi è sembrata la zona più adatta, perché una realtà ancora in via di sviluppo, piccola, che conservava una forte identità con le sue botteghe, i suoi negozietti in contrasto con i nuovi edifici: dal celebre Bosco Verticale a piazza Gae Aulenti, Palazzo Unicredit... Trasmetteva un senso di duplicità, elemento presente anche nel mio modo di fare progetto. Dovendo scegliere un quartiere che sentissi come una seconda pelle – perché poi costruire un distretto significa impegnarsi per tutto l’anno in maniera progressiva – la scelta non poteva che ricadere su Isola.
Perchè hai deciso di creare un distretto del design?
Il sistema del design a Milano è molto particolare, e per un giovane designer è molto spesso difficile da accedere, soprattutto per i costi durante la Design Week. Ragionando sul fatto che come me ci sono moltissimi giovani progettisti italiani e stranieri alla ricerca di spazi dove mostrare il loro potenziale, ho sentito l’esigenza di costruire qualcosa per chi non trova spazio nei circuiti ufficiali, ma che lavorano su progetti da valorizzare.
Qual è stato il tema di quest’anno?
Il tema è stato unico, ma in qualche modo variegato. L’abbiamo intitolato Rethinking Materials, proprio perchè a differenza dell’anno scorso volevamo dare un focus forte sulla tematica del distretto. Re-thinking materials significa ripensare i materiali della tradizione in modo innovativo oppure trovare nuovi materiali da utilizzare per oggetti tradizionali.
L’immagine del distretto si rifà alla bandiera dei pirati: noi siamo come dei corsari che vogliono difendere l’identità del quartiere e preservarla.
Come si differenzia dalla prima edizione e dove vuole andare l’Isola Design District?
Rispetto all’anno scorso c’è stata quasi una rivoluzione: la prima edizione è stata un mezzo miracolo compiuto da noi dell’organizzazione, quindi da me, da Gabriele Cavallaro, creative director di Blank, e da Nicola e Giulio Nicoletti. L’anno scorso abbiamo creato un distretto in due mesi, è stato un vero e proprio progetto pilota. Quest’anno abbiamo avuto la forza di creare qualcosa di molto più strutturato. Abbiamo ridisegnato l’immagine del distretto affidandola a Zup Design, uno studio di branding molto noto a Milano, abbiamo dato un tema, abbiamo scelto un quartier generale che avesse una storia e che fosse riconoscibile nel tessuto urbano di Milano – la Stecca degli artigiani – e abbiamo creato un palinsesto di eventi cercando di differenziare il design vero e proprio dalle attività collaterali che per noi sono state importanti fin dall’inizio, dedicando un percorso differenziato, soprattutto per il food.
Come avete selezionato i progettisti da ospitare?
Abbiamo lavorato in due modi: attraverso una call con il tema scelto, e per adesione. Qualcuno ci conosceva già dall’anno scorso e ha voluto partecipare ancora. Abbiamo distribuito tutte le installazioni creando dei ponti tra i designer e gli spazi che li hanno ospitati. Dopodiché abbiamo individuato le location più adatte a enfatizzare e valorizzare i vari progetti. Rispetto all’anno scorso sono presenti tante gallerie d’arte, e spazi molto più grandi. Questo ci ha permesso di ospitare anche dei collettivi di designer internazionali come il collettivo belga Brut e il collettivo sudamericano eiDesign.
Quali sono stati i principali appuntamenti dell’ultima edizione?
Ogni pubblico ha potuto trovare la sua chicca da scoprire. Ho trovato bellissima l’installazione di Stefano Rossetti – designer ‘nativo’ di Isola – nella piazza del Palazzo della Lombardia: Milan col Coeur in Man è un progetto di design urbano con panchine e sculture totemiche e un grandissimo gonfiabile alto quanto il Palazzo della Regione raffigurante un uomo che tiene il suo cuore in mano e cerca di buttarlo oltre l’ostacolo: simbolo di grande forza e speranza. Abbiamo confermato le installazioni su via Pastrengo che è uno degli assi principali del distretto, con il Milan Design Market, la mostra-mercato di designer emergenti, i Dutch Invertuals, l’azienda giapponese Interiors, continuando fino a piazzale Archinto, con esempi di rapporto tra attività commerciali e designer. Nella pasticceria Cherry Pit, Roxanne Brennen ha proposto la mostra Dining Toys, oggetti molto piccoli legati al corpo. In via Pepe 36, Paola Mirai ha presentato un lavoro sempre legato al tema del corpo e del gioiello. Quest’anno ha presentato una collezione di oggetti realizzati smontando componenti digitali, quindi vecchi cellulari, vecchi computer. Il focus è semplice ma molto potente, ovvero i nostri dispositivi digitali sono un po’ i nostri nuovi cervelli, conservano le nostre memorie, i nostri dati... ognuno di questi immagazzina parte della nostra memoria che ormai ci siamo disabituati a usare e quando non lo usiamo più, è come se perdessimo quella parte di noi: questo è un modo di riuscire a portarla sempre con sé.
Come ha risposto il quartiere?
Molto bene, fin dalla prima edizione. Le attività e le persone del quartiere sono state fin da subito il nostro sponsor. L’anno scorso eravamo ancora degli sconosciuti per loro, quindi siamo andati a parlare con ogni singola attività e abbiamo presentato il progetto. La maggior parte degli abitanti si è detta entusiasta proprio perché durante la settimana del Salone, nonostante il quartiere sia stato rivalutato molto, tornava a vivere lo spettro dell’abbandono. Quindi ci hanno sostenuto, hanno parlato fra loro, e appoggiato la nostra iniziativa sia con la loro presenza fisica e relazionale, sia economicamente. Il nostro è un distretto a chilometro zero: abbiamo lavorato con le attività artigiane, con i ristoranti, con il settore del retail, proprio per creare un quartiere che riuscisse a comunicarsi come identitario.
Esiste ancora questa identità o si sta perdendo con i nuovi interventi edilizi?
Il rischio è quello. La nostra immagine del distretto si rifà alla bandiera dei pirati: noi siamo un po’ dei corsari che vogliono difendere l’identità del quartiere e preservarla da quello che sta accadendo attorno.
[Ndr. Su Domus Paper, lo speciale cartaceo dedicato al Salone 2018, il nome di Emilio Lonardo non è inserito correttamente, ci scusiamo per l’errore]