Mezzo secolo di Nike in mostra al Vitra: il design prende forma dalla storia?

Dal cuscinetto d’aria più famoso del mondo ai concept sviluppati in AI con atleti e community, una mostra al Vitra Design Museum apre gli archivi di Nike al pubblico per raccontare un design generato dalla cultura.

Su quella massa tutta linee curve e tormentati nastri di pareti bianche, che è stata la prima fatica europea di Frank Gehry, è comparso uno Swoosh nero abnorme, a scala paesaggistica: a vederlo, pare sia stato da sempre un pezzo della composizione. Chi poi si incammina oltre lo swoosh verso gli interni, viene travolto da un autentico sciame di scarpe. What else, viene da dire, se Nike: forms follows motion è la mostra che il Vitra Design Museum di Weil am Rhein dedica alla ultracinquantennale storia del brand che dall’Oregon ha decorato milioni di corpi e piedi con l’ala mitologica della Nike di Samotracia.

C’è però, in trasparenza tra quelle scarpe, mezzo secolo di storia sociale e culturale dell’Occidente, prima, e dell’intero pianeta poi.
L’esistenza della mostra denuncia ancora una volta lo scambio trasformativo bidirezionale che lega storia e design. Il fatto stesso di guardare a una scarpa come alla materializzazione di un processo di design, e non solo artigianato o direttamente arte, è esso stesso storia abbastanza recente, per quanto le scarpe siano beni prodotti anche industrialmente fin da prima del XX secolo. 

L’edificio del Vitra Design Museum progettato da Frank O. Gehry. Courtesy © Vitra Design Museum. Foto Norbert Miguletz

E qui c’è anche il tema di un archivio enorme da maneggiare, il Department of Nike Archives  - DNA con i suoi 250.000 elementi tra prodotti, prototipi, documenti, assemblato in più di 20 anni a partire da diverse collezioni personali “In un certo senso, è più affascinante perché è già una collezione di storie diverse”, ci ha detto Glenn Adamson, curatore della mostra e curator at large di Vitra “quindi abbiamo sviluppato una struttura che guarda a diversi momenti della storia dell’azienda, mostrando l’idea di crescita e la velocità di questa crescita”. In un allestimento, curato da Jayden Ali, che cerca l’idea di struttura visibile in trasparenza, come dal lato di una Air Max, e un radicamento degli oggetti in un certo periodo storico, Adamson ha definito lo spirito della mostra come “Guardare a come l’ingegneria e l’espressione possono essere combinate in una pratica di design, in una cultura del design. Oggettivo-soggettivo. Scienza-arte: è una convergenza di questi due opposti”.

Bill Bowerman trafficava, cercava di migliorare le cose. Innovava. Cercava di rendere le cose più leggere, più veloci, più stabili. Ancora oggi è quello che cerchiamo di fare. Ciò che è cambiato nel nostro approccio sono piuttosto gli strumenti.

Martin Lotti, Chief design officer di Nike

Vitra Design Museum, Nike: forms follows motion curata da Glenn Adamson. Courtesy Nike

È così che una prima stanza, Track, racconta le origini, tutte americane nella voglia di Phil Kinght di cambiare un mercato (le scarpe da competizione) prendendo come sviluppatore del prodotto il suo ex insegnante di ginnastica, il poi leggendario Bill Bowerman, attraverso oggetti simbolo (la macchina da Waffle che ispirò nei primi ‘70 la suola omonima) e figure fondamentali, come Carolyn Davidson che concepì lo Swoosh e Diane Katz che fece la storia studiando i vestiti, i primi parka da corsa con la loro mantella a linee inclinate per rispondere alla pioggia.

Ma già racconta un cambiamento nelle pratiche sociali, nella corsa che passa dalla pista al running come pratica non agonistica.
Uno scambio ininterrotto atleti-produttori-consumatori che è centrale appena si passa nell’ambiente rosso intitolato Air, con la grande teca che riunisce le scarpe di Michael Jordan e LeBron James attorno a una forma che dà fisicità alla traiettoria di un dunk (una schiacciata di basket, tocca tradurre), e soprattutto racconta l’innovazione proposta a Nike da Frank Rudy, di sospendere le scarpe su un cuscino d’aria. Un’idea destinata ad una certa notorietà.

Foto pubblicitaria di Bill Bowerman nel suo laboratorio di Eugene, 1980 © Nike, Inc.

Ancora collaborazioni quando si passa poi alla stanza del presente-futuro, Sensation, dai racconti visuali della “mothership” a Beaverton, Oregon, con i suoi impianti di ricerca dove atlete e atleti testano e di fatto co-progettano i nuovi prodotti, gli esperimenti come il FlyKnit, gli ammortizzatori Shox, tomai monolitici e suole 3d-printed che sospendono chi corre su concrezioni coralline in materiali riciclati, fino a salire in un paesaggio giallo acido dove teche di cristallo musealizzano le storie che hanno unito Nike a Comme des Garçons, Riccardo Tisci, Elton John e Virgil Abloh, per fare alcuni nomi.

Più che esaurire nella totalità dei dettagli tutta la complessità di una storia tanto articolata, la mostra apre un intero panorama di stimoli e connessioni che restituiscono il brand come un prodotto culturale, prima ancora che industriale. Ed è anche così che ce lo ha restituito Martin Lotti, Chief design officer di Nike, Quando ha accettato di andare “all the way design” assieme a noi di Domus, raccontando i veri motori del lavoro di un team da più di 1000 persone, e accettando il gioco di riassumere la storia dello Swoosh in quattro pietre miliari (che trovate nella gallery all’interno dell’articolo). 

Carolyn Davidson, Disegno del design originale dello swoosh, 1972 © Nike, Inc

Una metodologia che Lotti descrive in: “Pensate a un film. Si inizia con il titolo del film, qual è la storia, poi si trovano gli attori, cioè l’oggetto”. Si tratta prima di concept – e c’è un intero nuovo gruppo che si concentra sul concept – poi viene il prodotto, poi lo storytelling. A differenza del passato, quando si creavano prodotti come primo passo, ora l’obiettivo è passare dai prodotti alle idee, diventando più olistici, in modo da collegarsi all’allenamento, all’alimentazione, al prima, durante e dopo l’allenamento o la gara. 

Guardare a come l’ingegneria e l’espressione possono essere combinate in una pratica di design, in una cultura del design. Obiettivo-soggettivo. Scienza-arte: è una convergenza di questi due opposti.

Glenn Adamson, curator at large di Vitra

È un approccio che si basa sulla combinazione di esigenze dell’atleta, esigenze culturali ed esigenze commerciali, ma deve rimanere all’interno del dna Nike, in quella zona tra sport, cultura e giovani.

Questo dna “è la costante”, ci ha detto Lotti: “Se si guarda alla metodologia di quello che Bill Bowerman cercava di fare e a ciò che stiamo facendo oggi, è la stessa. Ascoltava gli atleti. Trafficava, cercava di migliorare le cose. Innovava. Cercava di rendere le cose più leggere, più veloci, più stabili.  Ancora oggi è quello che cerchiamo di fare. Ciò che è cambiato nel nostro approccio sono piuttosto gli strumenti”.

Poster "Nike Sport Shoes", con le Tennessee State Tigerbelles, 1978 © Nike, In

C’è poi un capitolo nella storia di Nike più apparentemente sfuggente perché non è direttamente un prodotto, ma è cruciale nell’inquadrare il brand come un attore nel design contemporaneo, ed è l’investimento sul supporto delle community, di atleti o di persone appassionate, con una crescente inclinazione verso un mercato in espansione: il running, guarda caso quello da cui tutto era cominciato. È un fondamento nello sviluppo dei nuovi progetti, come ci ha confermato Sabrina Oei, senior director for global running Communications, ma anche nel posizionamento culturale e sociale del brand.

Non solo atleti dell’agonismo sono diventati ambassador Nike, ma anche coach e animatori di aggregazioni sociali dove lo sport diventa la porta per accedere ad un benessere fisico e soprattutto mentale sempre più irraggiungibile nella società formativa e produttivista degli ultimi anni. A presentare la mostra proprio ad una community globale di running non per niente ci sono stati Lotti ma anche due di queste figure, Dora Atim da Londra e Joe Holder da New York, impegnati nello riunire attorno alla corsa gruppi il più possibile inclusivi di abitanti delle città, è in pieno evento si è sentito Holder dichiarare come “le persone non dovrebbero pagare per allenarsi”.

E questo riapre un po’ tutti i giochi, rispetto all’evoluzione del marchio di come lo si potrà raccontare, proiettandolo di fatto nel campo in assoluto più politico del design. 

Pista per la prova di resistenza, Nike Sport Research Lab, Beaverton (Oregon), 2022 © Nike, Inc.

Pensando a quella che potrebbe essere una nuova mostra tra dieci o vent’anni, le cose che ci vengono in mente per prime sono un augurio e un interrogativo. Augurio più per Vitra, di non rimuovere il mega-swoosh dalla parete una volta finita la mostra di oggi, ma di ridipingerci sopra, in modo da consegnare il primo lavoro europeo di Gehry alla sua nuova carriera di stratificazione archeologica. 

E la domanda su come potrà essere una prossima mostra – chiaramente, sempre da tenersi in un museo di design: sarà ancora così tangibile, e con così tante scarpe? D’altro canto, è stato proprio Virgil Abloh, anima di tante piccole rivoluzioni targate Off-White e Nike, a dire, parlando di architettura – nient’altro che il design della vita negli spazi – che “I giovani architetti possono cambiare il mondo facendo in modo di non costruire edifici”. 

Mostra:
Nike: Form Follows Motion
Curata da:
Glenn Adamson
Date:
dal 21 settembre 2024 al 4 maggio 2025
Dove:
Vitra Design Museum, Weil am Rhein, Germania

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