I collezionisti parigini riaccendono i riflettori sulla produzione anni ’80 di Philippe Starck. Nel 2020 ne avevamo già avuto un’anteprima alla galleria Jousse Entreprise, che nel frattempo ha riprogrammato un’altra mostra “starckiana” per il prossimo marzo. In questi giorni, è invece presso la galleria Ketabi-Bourdet, specializzata proprio nel decennio degli ’80, che possiamo osservare una raccolta particolarmente significativa dei pezzi d’esordio del grande designer francese.
Nei mobili raccolti per l’esposizione – moltissime le sedute insieme a qualche lampada, contenitori e a qualche oggetto piacevolmente inclassificabile – il cerchio di Starck si stringe intorno ad un’ossessione che lo ha lungamente ispirato nel corso della sua carriera: l’opera di Philip K. Dick.
“Dick è un grande visionario del nostro tempo”, ci racconta Starck, che non a caso ha chiamato la sua agenzia come uno dei capolavori dello scrittore americano, Ubik. “Ubik, ubiquità e mondi paralleli sono come me. Vivo in mondi diversi, senza mai capire, chiedendomi sempre se sono nella vita reale o in un sogno. Sono nato, un po' per caso, in quella che io chiamo “relatività einsteiniana”, dove tutto è così relativo che non esiste nulla”.
Tutti direttamente ispirati a Ubik e tutti chiamati con il nome di un personaggio del romanzo, i mobili raccontano l’ubiquità attraverso il superamento degli stretti principi ergonomici e una volontà di trasformismo che fa leva tanto sul multifunzionalismo – vale per il paravento luminoso Stanton Mick (1979), il lampadario appendiabiti Roi Egon Groat (1985) o la sedia-tavolo Lola Mundo Open (1988) – che sull’esaltazione di una personalità spiccata e a tratti totemica – l’armadio Fred Zafsky (1979), la poltrona Dr. Sonderbar (1983), il divano Prince de Fribourg et Treyer (1987).
All’opposto dei codici gioiosi impiegati da Memphis, grande faro dell’avanguardia progettuale del decennio, il metallo e il rivestimento in pelle nera usati in queste opere di Starck ci rimandano ad un immaginario più tenebroso e distopico, certamente più vicino a quello raccontato dallo pseudo-mondo paranormale di Ubik e segnato da una vena trasgressiva e noir vicina ad una produzione minoritaria degli ’80 (e un nome di riferimento non può che essere Paolo Pallucco, già nella scuderia di Ketabi-Bourdet).
La mostra è completata da alcune opere di Tom Vack, che di Starck fu il fotografo personale per oltre un decennio e che si dedicò alla trasposizione in immagine dei suoi prodotti con l’intensità di chi, andando oltre i principi di una più o meno riuscita composizione dell’immagine e persino di una certa resa atmosferica, concepisce la fotografia come un ausiliario della narrazione, un’opportunità per arricchire gli oggetti di nuovi strati di senso. Gli chiediamo come abbia messo a fuoco un modo così personale di raccontare i progetti del designer francese.
“La chiave è stata la mia passione per i film di fantascienza che ho iniziato a guardare da bambino e che amo guardare ancora oggi. Hanno formato in me una visione teatrale nella quale ho trovato l’ispirazione per raccontare i prodotti Starck. Ho sempre visto Starck come un visionario con un piede nel passato e uno nel futuro, con i piedi ben piantati a terra ma lo sguardo rivolto alle stelle.”
L’ossessione per l’investigazione del futuro non ha effettivamente mai fatto difetto a Philippe Starck, che all’inizio della sua carriera ha usato la fantascienza come un moltiplicatore di mondi possibili, e che in via generale ha sempre giocato sull’anticipazione per concepire e permeare di novità i suoi lavori. Eppure, quarant’anni dopo i pezzi ispirati a Ubik e ormai nell’epoca di ChatGPT e della domotica, la visionarietà fantascientifica degli esordi sembra cedere il passo verso un’altra fascinazione tecnologica, un diverso gusto dell’oracolo.
“Il culturale, il commemorativo, il sentimentale limitano la nostra creatività. Nonostante i miei sforzi per vivere al di fuori della società, come monaco moderno isolato in nessun ambiente, vedo che noi – esseri umani – ripetiamo tutti un po’ la stessa cosa”, commenta Philippe Starck, che confessa di cercare nuove piste di indagine altrove, e che questa volta si potrebbero rivelare meno distopiche del previsto. “Quindi l’unico modo per “evolvere” è chiedere aiuto a un amico più potente di me, l’intelligenza artificiale. Per esempio, con Kartell ho semplicemente posto al computer una domanda: “Aiutami a far riposare il mio corpo usando meno materiale e meno energia possibile”. La macchina ha cercato per due anni e mezzo, ha esitato, ha commesso errori e ha fatto passi indietro. Infine, l’intelligenza artificiale ha dato vita alla sedia A.I. edita da Kartell. Non si tratta di fantascienza, ma della naturale evoluzione della nostra umanità basata sull’intelligenza naturale”.