Quando il design italiano era una cosa da fantascienza

Cosa ci fanno Joe Colombo e Vico Magistretti in Spazio: 1999? Negli anni Sessanta e Settanta, i set sci-fi, dalle serie più costose all’ultimo dei B-movie, erano arredati con icone del design italiano, che all’epoca sembravano provenire da una civiltà aliena o dal futuro.

Il 4 Settembre 1975 i telespettatori inglesi assistevano per la prima volta dai loro divani a una puntata di Spazio: 1999. La serie TV, l’ultima ad essere concepita dalla coppia d’oro dello sci-fi Gerry e Sylvia Anderson, arrivava a sei anni dall’allunaggio del luglio 1969 e al culmine di un lungo decennio in cui la space age aveva permeato l’industria creativa, occidentale e non.

Dalla moda (Pierre Cardin) alla comunicazione (i Papalla pensati da Armando Testa per carosello dei televisori Philco), passando per la musica (David Bowie e le sue Moonage Daydream e Space Oddity, per citare gli esempi più celebri) e l’infinita produzione di giocattoli per bambini, in quegli anni la cultura, alta e bassa, subiva la fascinazione della corsa allo spazio e, a sua volta, ne alimentava il mito.

Nell'industria del consumo, i settori che si sono maggiormente lasciati sedurre dallo spazio sono però senza dubbio stati il design e il cinema. Entrambi hanno avuto la capacità di partorire opere che oggi veneriamo con l’ossequiosità che si dedica alle icone atemporali, ma che al momento del loro concepimento erano soprattutto interpreti di uno zeitgeist ben preciso. Non stupisce, dunque, che i risvolti più affascinanti di questi due ambiti creativi si riscontrino spesso nel loro dialogo.

Un connubio che, oltre al capolavoro di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello Spazio (1968), ha trovato il suo apice proprio nella serie all’epoca più dispendiosa mai realizzata dalla BBC. Il suo set, anche complice il ruolo di co-produttore della RAI, è un tripudio di design per interni che spesso parla italiano, dove plastica e vinile fanno da padroni, e che negli anni ha nutrito le ricerche di moletiplici blog di appassionati come The Catacombs.

A differenza di molti film di fantascienza o dal gusto pop prodotti nei ‘60, dove spesso gli scenografi avevano il compito di allestire ambienti capaci di rispecchiare l’iconografia spaziale inseguita anche dal mondo del design, Spazio: 1999 rappresenta un’eccezione. 

Arriva a metà ‘70 e può avvalersi con maggiore consapevolezza della crema della produzione per interni dell’epoca. L’uso di arredi spesso progettati già nel decennio precedente mette allo stesso tempo in luce l’innegabile visionarietà del design modernista europeo e, soprattutto, italiano. 

La macchina da scrivere Gabriele 2000 di Triumph-Adler, la lampada Pileo di Gae Aulenti per Artemide e la poltrona Ribbon di Pierre Paulin per Artifort sono solo alcuni dei più iconici pezzi di design che si possono ritrovare negli episodi di Spazio: 1999.
La macchina da scrivere Gabriele 2000 di Triumph-Adler, la lampada Pileo di Gae Aulenti per Artemide e la poltrona Ribbon di Pierre Paulin per Artifort sono solo alcuni dei più iconici pezzi di design che si possono ritrovare negli episodi di Spazio: 1999.

The bright side of the Moon

È il caso, per esempio, della lampada Sorella di Harvey, e oggi rieditata da iGuzzini che, prodotta nel 1972, trova ampio impiego nel cinema degli anni seguenti ogni qual volta si punti la cinepresa sulla Luna. Oltre a ricoprire il ruolo di lampada da scrivania della sala di controllo Main Mission in Spazio: 1999, Sorella ritorna in Moonraker (1979), undicesimo film della saga di James Bond, e nell’episodio ‘The Invisible Enemy’ (1977) dell’altrettanto celebre serie TV inglese Doctor Who. 

Analogamente, la lampada Pileo (1972) di Gae Aulenti per Artemide, anch’essa fiore all’occhiello dei set di Spazio: 1999, viene utilizzata sul set del Time Lord sul finire del decennio. 

O ancora, un’altra lampada Artemide, la Tizio (1972) di Richard Sapper, la cui matrice futuristica sta soprattutto nella longevità del suo successo commerciale, Compasso d’Oro 1979 e vero e proprio must degli anni ‘80, figlio di un’estetica industriale che supera la space age per anticipare il post-moderno.

Emblematico dello slancio progettuale del design per interni del tempo, è l’impiego che nella serie TV si fa della Lucciola (1971) di Fabio Lenci per iGuzzini. La lampada, nella sua versione da tavolo, è infatti utilizzata con licenza cinematografica come microfono in virtù della sua enigmatica e sinuosa silhouette. La Lucciola è però, soprattutto, interprete della forma mentis proiettata al futuro ricercata dalla serie stessa. Essa fu infatti – assieme alla Tizio – una tra le prime lampade a luce LED a basso voltaggio, sistema di illuminazione sino ad allora impiegato nelle automobili.

Un design figlio dell’ottimismo

Se la selezione di lampade impiegate nella serie televisiva sarebbe sufficiente ad allestire un museo del design, altrettanto si può dire di sedute e scrivanie. 

In esse si concretizza la ricerca sui materiali, come fibroresina e plastica, che tanto ha contribuito a assegnare al design industriale dei ‘60 le connotazioni futuristiche e sperimentali che ne hanno reso la produzione celebre. 

Anche le mummie siedono su poltrone di design in Spazio: 1999. Foto tratta da Gerry Anderson's Space: 1999 Annual, World Distributors Limited, 1978.
Anche le mummie siedono su poltrone di design in Spazio: 1999. Foto tratta da Gerry Anderson's Space: 1999 Annual, World Distributors Limited, 1978.

Una ricerca che poteva godere di una cultura che promuoveva ottimisticamente l’uso di materiali oggi condannati dalla rinnovata centralità della sostenibilità e della circolarità nel discorso del design. L'irripetibilità delle premesse di simili ricerche contribuisce, dunque, all’odierna percezione di questo design come iconico, non perché senza tempo, ma esattamente in virtù della sua precisa interpretazione di un momento di trasformazione socio-culturale.

Sarebbe infatti un errore trascurare come questa libertà progettuale si inserisse in un più ampio clima di entusiasmo incondizionato verso il futuro, in cui la giocosità e la leggerezza erano trasversali tanto alla sfera artistica quanto al cinema. Eroine spaziali svampite, liberazione sessuale e frammenti di totale nonsense pop trovavano così un perfetto sodalizio con un design che, pur non sfociando nell’ironia deliberata e post-moderna di Memphis, sembrava uscito dalle fantasie di un fumetto o da una copertina di Urania.

Arredare la Luna

Questo spirito si rispecchia nel range di sedute impiegate nella serie. Sono soprattutto prodotti come la sedia Selene (1968) di Vico Magistretti per Artemide e la poltrona Elda di Joe Colombo, addirittura del 1963, per Comfort (oggi prodotta da Fratelli Longhi) a racchiudere con le loro strutture in fibroresina e, nel caso della seconda, cuscini in pelle rigorosamente bianca l’immaginario space age. 

Senza trascurare poi tutta quella produzione ‘minore’ che guardava ai grandi maestri, come la poltrona Domani (1972) prodotta dai tedeschi Odo Close offrendo una rivisitazione optical e lunare della celebre Lounge Chair di Eames.

E ancora, la poltrona Rodica (1968) di Mario Brunu per Comfort; la Ribbon (1966) di Pierre Paulin; i tavoli Stadio, Tessera e Mezzatessera tutti del 1966 e di Magistretti per Artemide; il sistema di divani modulare Swany (1970) di Sylvain Joly e Hughes Steiner per Steiner; e il sofà Throw-Away (1965) pensato dall’allora editor di Queen e successivamente Harper’s Bazaar Willie Landels per Zanotta. Un arredo-concetto figlio della frenesia industriale con struttura in poliuretano progettato per essere usato, facilmente lavato, assemblato e disasemblato modularmente e infine gettato - come suggerito dal nome stesso.

Il design come utopia estetica utilitaria

Dopotutto, la grande rivoluzione aliena mostrata da Spazio: 1999 sta nell’applicazione di oggetti di design all’ambiente di lavoro quotidiano degli astronauti. Dimostrazione che all’epoca del loro iniziale concepimento questi pezzi generavano sì nel pubblico una fascinazione estetica extraterrestre, ma erano concepiti come prodotti utilitaristici, nella miglior tradizione del design industriale.

Quale miglior esempio dell’uso, tra gli altri, della scrivania Jarama (1969) per Saporiti e del carrello da bar in ABS (1970) per Kartell entrambi progettati da Alberto Rosselli, tra i padri fondatori della filosofia del design industriale italiano. Analogamente, lo dimostra l’abbondante impiego del sistema di scaffalature modulari Demetrio 45 (1965) di Magistretti per Artemide, del classico trolley Boby (1970) di Joe Colombo per B-Line, o degli scaffali da muro di Bisterfeld + Weiss (circa 1972) reinterpretati come strutture di contenimento per macchinari elettronici e medici. 

Nella serie anche semplici azioni del quotidiano, come sorseggiare un caffè o effettuare addizioni, sposano questa filosofia in linea con la forma mentis del tempo. Si pensi al set di tazze Gabbianelli in ceramica arancione dei quartieri abitativi, allo spremiagrumi e alle scodelle da insalata Gustavberg, o alla radiosveglia Sanyo RM5430 (1972).

I set di tazze Gabbianelli restituiscono la dimensione quotidiana della vita extraterrestre secondo Spazio: 1999. Foto: frame da film.
I set di tazze Gabbianelli restituiscono la dimensione quotidiana della vita extraterrestre secondo Spazio: 1999. Foto: frame da film.

Immancabili, poi, prodotti Olivetti come la calcolatrice portatile Divisumma 18 (1972) di Mario Bellini o la macchina da scrivere Gabriele 2000 dei tedeschi Triumph-Adler (poi inglobati dall'azienda di Ivrea negli anni '80) . Nella cura dei dettagli delle scene, addirittura i calendari guardano alla luna, sostituendo la tradizionale carta con la plastica ABS bianca pensata nel 1970 da Brusasco e Torretta Architetti per Euroway.

Pratiche abitative e oggetti di uso comune che, calate nei setting fantascientifici della serie, oggi forse stordiscono ancora più che al tempo del loro concepimento con la coscienza del fallimento delle utopie spaziali con cui il pianeta sognava il suo elegante futuro extraterrestre. 

In Spazio: 1999 si celebra un approccio all’oggetto di design che negli anni si è progressivamente smarrito, polarizzando la produzione elitaria da quella economicamente accessibile e alienando, così, intere generazioni dallo sviluppo di un gusto tangibile in fatto di interni. 

L’interior design come simbolo del cinema di rottura

L’impiego di molti di questi pezzi in altre serie TV prodotte dalla BBC, come il già citato Doctor Who e The New Avengers (1977), apre una più ampia finestra sulla centralità del design per interni nella cinematografia dei ‘60 e ‘70, e non solamente in ambito fantascientifico. 

Influenzate dal blockbuster Barbarella (1966) di Vadim, molte produzioni minori, come i molti sceneggiati RAI dei Settanta, finirono per assorbire e declinare a modo loro questo gusto.

Nei titoli della miniserie TV La Traccia Verde (1975) lo slancio futuristico del typeface Westminster di Leo Maggs si sposa con la vegetazione, in una concezione di natura come interior design tuttora contemporaneo.
Nei titoli della miniserie TV La Traccia Verde (1975) lo slancio futuristico del typeface Westminster di Leo Maggs si sposa con la vegetazione, in una concezione di natura come interior design tuttora contemporaneo. Foto: frame da film.

Tra questi A come Andromeda (1971), Gamma (1975) e E.S.P. (1974) che rimane nel limbo sci-fi andando a toccare, per estensione, il tema del paranormale. Tra gli oggetti di design che fanno capolino sul set della miniserie TV in quattro puntate, un grande classico del design space age prestato alla quotidianità: il telefono Ericofon (1956) della Ericsson, anche noto come Cobra per la sua forma affusolata.

Non possiamo, poi, esimerci dal citare La Traccia Verde, altra miniserie televisiva RAI (1974) che riprendeva, in chiave noir e fantascientifica, gli studi dell’agente CIA Cleve Backster sulle presunte capacità extrasensoriali delle piante. La serie si presenta, dunque, come un connubio di vegetazione e design modernista, che risulta oggi più che attuale nella riscoperta delle piante come elemento di interior design in accordo con la quotidianità estetizzata promossa dai social media. Ma anche con l’idea avant-green di sonorizzazione di ambienti per vegetazione, come secondo l’album culto di Mort Garson (Mother Earth’s) Plantasia (1976).

Le musiche contribuiscono, infatti, al pari del design a stabilire un’atmosfera rarefatta, enigmatica e ricca di tensione per un futuro ignoto ma tutto sommato seducente. Ne è esempio la colonna sonora della serie a cura di Egisto Macchi, tra i pionieri della musica sintetica nell’Italia dei ‘60 e ‘70.

Nella miniserie RAI La Traccia Verde (1975) Paola Pitagora indossa una t-shirt dell'etichetta discografica Cramps fondata dal grafico e demiurgo della comunicazione italiana Gianni Sassi. Foto: frame da film.
Nella miniserie RAI La Traccia Verde (1975) Paola Pitagora indossa una t-shirt dell'etichetta discografica Cramps fondata dal grafico e demiurgo della comunicazione italiana Gianni Sassi. Foto: frame da film.

Design onnipresente nelle sue declinazioni più ampie, come nel personaggio di Margaret che ne La Traccia Verde indossa una t-shirt della Cramps, visionaria etichetta discografica fondata dal grafico e guru della comunicazione italiana Gianni Sassi: nonché demiurgo della celebre pubblicità dei divani Busnelli con un giovane e psichedelico Franco Battiato.

Più in generale il cinema mette in luce l’entusiasmo dell’Europa e – in particolare – dell’Italia per il proprio design che, a sua volta, viene impiegato sul grande e piccolo schermo come veicolo lì dove si vuole sottolineare la raffinatezza, il benessere socio-economico e dunque anche il progresso estetico e l’emancipazione sessuale di un personaggio.

Oltre alla pietra miliare Pop Art Danger: Diabolik di Mario Bava (1968), la ricerca del design modernista ritorna in una pletora di commedie sexy, pellicole sado-erotiche e politiche del tempo. Ne sono un esempio, tra i tanti, l’appartamento di Gastone Moschin e Maria Grazia Buccella in Sissignore (1968) di Ugo Tognazzi, lo scarabeo Sotto la Foglia di Nanda Vigo e Gio Ponti in La Notte che Evelyn Uscì dalla Tomba (1972) di Emilio P. Miraglia, o ancora gli interni de La Matriarca (1968) di Pasquale Festa Campanile e quelli di Escalation (1968) di Roberto Faenza.

Immagine di apertura: La lampada Tizio (1971) di Richard Sapper per Artemide.  Foto su gentile concessione di Artemide.

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