“La realtà non è un universo monolitico, ma la sommatoria di linguaggi differenti tutti ugualmente poetici e originali”: è su questo principio basilare che – secondo Vanni Pasca – si fonda da sempre l’estetica di Driade, l’azienda di design fondata nel 1968 da Enrico Astori con la sorella Antonia e la moglie Adelaide Acerbi.
Se altre aziende/icone del design italiano fondano la loro linea editoriale e produttiva su scelte coerenti, complessivamente omogenee e uniformi, Enrico Astori spinge invece la sua Driade – curiosa e dinamica come le rigogliose ninfe degli alberi di cui porta il nome – a una trasversalità di approccio che non teme ma addirittura ricerca il contrasto, la differenza, la pluralità di sguardi e di visioni.
Così, ad esempio, negli anni Settanta il design concettuale di Nanda Vigo si contrappone in Driade alla visione modulare di Antonia Astori, negli anni Ottanta il rigorismo etico di Enzo Mari incarna l’altra faccia della medaglia rispetto all’approccio ludico e dinamico di un Philippe Starck, mentre negli anni Novanta Ron Arad e Ross Lovegrove danno voce – dentro Driade – a visioni non proprio coincidenti del design anglosassone.
Merito, indubbiamente, di Enrico Astori, capitano e imprenditore coraggioso, ma anche navigatore curioso ed esploratore spregiudicato nel mare magnum della creatività. È grazie a lui e alla sua azienda che il design italiano si è liberato da gabbie concettuali e progettuali troppo rigide e ha saputo dialogare con altre discipline limitrofe e confinanti.
Ma è sempre grazie a lui – inconfondibile con il suo garbo, i suoi colletti alla coreana, i suoi cappotti avvolgenti e la sua erre moscia – che il sapere legato all’estro italiano si è confrontato e spesso si è fuso con quello proveniente da altre culture, altre radici, diverse tradizioni (quella orientale nipponica, prima fra tutte). “Ho fatto ciò che mi piaceva, ho prodotto oggetti che avrei voluto acquistare o regalare, ho frequentato persone che stimolavano la mia curiosità e ho desiderato di lavorare con loro”: così Astori (nato nel 1936 a Melzo e scomparso a Milano nel maggio 2020, a 84 anni) parlava di sé e del proprio lavoro. Della sua azienda invece parlava con passione e con soddisfazione. Oltre che con l’orgoglio di chi non ha mai considerato Driade un obiettivo o un fine, ma un mezzo, uno strumento di conoscenza.
Philippe Starck
“Vedo Driade come uno scrigno – dichiarava – o un’arca che raccoglie le bellezze del mondo in attesa del diluvio.” In effetti, se c’è un merito assoluto che va riconosciuto ad Astori è proprio quello di aver creduto sempre nella bellezza, nel suo valore etico oltre che estetico, perfino nella sua funzione sociale: attratto da tutto ciò che è inedito ed esprime una chiara idea di originalità, insofferente nei confronti dei modelli consolidati e già affermati, emozionato ogni volta di fronte alla scoperta di nuovi talenti o nuovi linguaggi, Astori ha perseguito con coerenza un progetto di innovazione continua che l’ha portato a essere lungimirante e innovatore, e a fare di Driade – sono parole sue – “non un’azienda, o un pacchetto azionario, ma un’attitudine al viaggio, alla curiosità, alla scoperta”.
Fin da subito, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, mentre nel mondo esplodono contestazioni e rotture, e mentre il good design è messo da più parti sotto accusa, Astori si fa carico dei fermenti innovativi del tempo e inaugura con Driade1 e poi con Oikos– in un’epoca in cui il design è ancora fortemente patriarcale – una linea di elementi d’arredo sistemici e modulari progettati e comunicati da donne (la sorella Antonia e la moglie Adelaide).
Oscar Tusquets
Tra i primi a comprendere il valore imprescindibile della comunicazione, del marketing e degli eventi nella promozione e diffusione del design (indimenticabili le feste nello showroom di via Manzoni a Milano, appuntamenti immancabili a ogni edizione del Salone del Mobile…), Astori si circonda dei designer più innovativi e meno conformisti (dal gruppo De Pas-D’Urbino-Lomazzi a Enzo Mari, da Alessandro Mendini a Giotto Stoppino, da Matteo Thun a Fabio Novembre, dal 2020 nuovo art director dell’azienda, per non parlare dei giapponesi Naoto Fukasawa, Toyo Ito, Kazuyo Sejima e Tokujin Yoshioka) e li ascolta, li accoglie, li ingloba nel suo progetto aperto e polifonico. Da vero demiurgo, o da artigiano divino che unisce idee e materia, come ha detto di lui l’amico architetto Flavio Albanese: “un demiurgo che sapeva celebrare il rito delle connessioni impossibili, il radicalismo dei vecchi maestri con il neobarocco dei giovani designer, la rigorosa griglia architettonica dell’Oikos con le scorribande creative negli accessori impossibili per la casa”.
Non è banale eclettismo, quello di Astori. Piuttosto è polifonia. È capacità di orchestrare un concerto a più voci e con strumenti diversificati. È alchimia di linguaggi e di sensazioni. È consapevolezza della necessità di favorire la pluralità invece che l’appiattimento, il plurilinguismo dialogico invece che il monologhismo autoreferenziale.
Driade è stata così l’officina polivalente di cui ha parlato Alessandro Mendini: un organismo mutante che ha attraversato gli ultimi decenni del Novecento e i primi del nuovo secolo senza mai lasciarsi irretire dalle mode o dalle tendenze del momento, ma sempre interpretando le pulsioni profonde, i bisogni emergenti, le ipotesi più visionarie. Tanto da indurre un designer affermato e acclamato come Philippe Starck a confessare che senza Astori e senza Driade lui non esisterebbe o non sarebbe comunque quello che è. Tanti altri protagonisti creativi del nostro design potrebbero dire senz’altro la stessa cosa.
Flavio Albanese
Dal 2013 Driade è entrata nel portfolio del fondo italiano Creation Group, ma l’eredità spirituale e la lezione di Astori sono tenute vive dalla figlie Elisa e Elena, che condividono col padre l’innata eleganza, la curiosità intellettuale e la ricerca della bellezza.
Immagine in apertura: Enrico Astori. Courtesy Archivio Astori