Grafico e teorico del design, Riccardo Falcinelli è uno degli art director più noti italiani. Specializzato in grafica editoriale, il suo studio grafico ha curato le pubblicazioni di editori come Einaudi, Harper Collins, Laterza, Zanichelli, ma anche grandi aziende e istituzioni.
“Personalmente io mi occupo di editoria, ma il graphic design lo si incontra anche nel packaging di un succo di frutta” ci racconta Falcinelli. “Nel contemporaneo rientrano nel graphic design gli artefatti più diversi: dall’impaginazione di un libro alla segnaletica stradale, dall’aspetto di una scatola di cereali all’interfaccia dello smartphone. L’esempio per eccellenza è che se tu prendi un oggetto a caso di grafica, ti capita o il volantino della pizza di quartiere o il bollettino delle poste. Degli oggetti funzionali. Però se tu prendi una storia della grafica alla fine trovi delle cose più artistiche, trovi poster, manifesti, oggetti collezionati al MOMA. Nel design c’è sempre un doppio passo, è inevitabile che sia così”.
Già autore di saggi di successo come Critica portatile al visuale design, Cromorama e Figure – dedicati ai meccanismi alla base della cultura visiva – ha recentemente pubblicato in collaborazione con Einaudi la nuova opera Filosofia del graphic design, un’antologia di grandi idee sul design. “Sono da circa 25 anni che insegno, e l’idea di tradurre un po’ di testi chiave sulla storia della grafica l’avevo già da parecchio tempo. Convincere un editore a produrre un testo di questo genere però non è un’impresa semplice. Gli editori sono sempre un po’ perplessi, preferiscono parlare di storia dell’arte, dell’architettura. Il design e la grafica vengono sempre un po’ per ultimi” ci racconta Falcinelli. “La verità è che il mondo è cambiato, da quando abbiamo tutti un computer, la grafica è diventata sempre di più un argomento di cultura generale. Oggi ad esempio chiunque ha a che fare con i font, chiunque compone un testo. Non è più un sapere esoterico da addetti ai lavori”.
Il graphic designer, come professione inventata nel ventesimo secolo, è qualcosa che non esiste più.
Il volume raccoglie al suo interno quaranta saggi di graphic designer – da Moholy-Nagy a Lissitzky, da Munari a Morris – raccontando attraverso di essi un secolo dalla nascita della materia. “Ho scelto testi o figure che sono state lette, commentate, che hanno messo dei semi che hanno portato a delle discussioni future. Ci sono alcuni testi anche di autori meno noti, tipo Earnest Elmo Calkins che è però il primo fondatore di un’agenzia pubblicitaria. Lui scrive negli anni ’30 con una visione incredibilmente ottimistica del mercato, un punto di vista molto lontano anche dalle disillusioni che abbiamo oggi. Che però leggendolo ti fa capire quanto certe idee sono state nel ‘900 significative e influenti. Lui ripete più volte che chi oggi vuole fare un mestiere creativo ha come unica strada la pubblicità. Questo pensiero è stato sposato da alcuni, messo in discussione da altri, o addirittura completamente rigettato. Ha creato un dibattito”.
L’inizio del nuovo millennio ha visto cambiare in modo radicale il mestiere di grafico, al punto che forse non è piú una professione dai confini circoscritti. “Credo che dal 2000 con la diffusione massiccia della grafica come elettrodomestico, ma sopratutto con l’avvento di internet, quel mondo è finito ed è iniziata una fase nuova. Il graphic designer, come professione inventata nel ventesimo secolo, è qualcosa che non esiste più. I grandi autori inseriti nel volume vivevano in un mondo dove la grafica era una professione da inventare da zero, ma allo stesso tempo con dei confini percepibili. Oggi invece la grafica è ovunque, e essendo ovunque viene svolta dalle persone e dalle professioni più diverse. Si occupa di grafica un social media manager, così come uno stilista” continua Falcinelli. “Anche i testi più recenti, quegli degli anni ’90, leggendoli ti rendi conto di quanto sono distanti da noi. Si parla per la prima volta di telelavoro come una cosa distantissima del futuro, si parla di estetica digitale, di come bisogna rapportarsi alle immagini bitmap. Tutte cose che per noi sono lontanissime perché diventate banalmente quotidiane”.
Le persone hanno anche generalmente un’idea molto vaga di cosa faccia il grafico. L’unico modo per rendere più certi questi confini è parlare di cosa è stato questo mestiere, chi l’ha inventato.
Ciò che però rimane rintracciabile fino all’attualità è il rapporto tra la professione creativa e quella del mercato. “Un rapporto incredibilmente conflittuale, ed è giusto che sia così. Questa è la ragione per cui io mi sono dato anche dei grandi temi da esplorare, il rapporto del graphic designer con l’arte e l’autorialità, il rapporto con la politica e il proprio ruolo sociale. Molti testi li ho scelti perché rispondevano o interagivano con altri testi. Questo ti permettere di capire come a seconda del momento storico, a seconda anche del maggiore o minore benessere economico che viveva la società, c’è un approccio più positivista, più entusiastico, più progressivo, più critico, nei confronti dei temi che alla fine sono gli stessi che tornano” prosegue il grafico. “Quello con l’industria rimane secondo me un dato conflittuale perché da una parte noi abbiamo l’idea che le professioni creative dovrebbero essere libere, e in questa libertà fanno del bene alla società perché ci danno punti di vista nuovi alle cose. Allo stesso tempo però la grafica alla fine è qualche cosa che è nata proprio perché l’industria ne aveva bisogno. Se la committenza aristocratica e borghese era quella degli artisti, con la pittura e la scultura, è l’industria che ha bisogno di questo nuovo tipo di mestiere”.
W. A. Dwiggis, copertina per Layout in Advertising, 14,5 × 21,5 cm, Harper, New York, 1948
Otto Neurath e Gerd Arntz, Mappa Isotype, Società ed economia, impiegati in Urss, 30 × 45 cm, 1928-29
Alexey Brodovitch (art director), copertine per «Harper’s Bazaar», 25 × 33 cm, New York
Jan Van Toorn, Je ne cherche pas, je trouve, Centro culturale De Beyerd, Breda, manifesto, 1984
Richard Hollis, manifesto per la mostra «Open» alla Whitechapel Art Gallery, 42 × 29,7 cm, Londra, 1980
W. A. Dwiggis, copertina per Layout in Advertising, 14,5 × 21,5 cm, Harper, New York, 1948
Otto Neurath e Gerd Arntz, Mappa Isotype, Società ed economia, impiegati in Urss, 30 × 45 cm, 1928-29
Alexey Brodovitch (art director), copertine per «Harper’s Bazaar», 25 × 33 cm, New York
Jan Van Toorn, Je ne cherche pas, je trouve, Centro culturale De Beyerd, Breda, manifesto, 1984
Richard Hollis, manifesto per la mostra «Open» alla Whitechapel Art Gallery, 42 × 29,7 cm, Londra, 1980
Cosa possiamo attingere quindi dalla lettura di questi grandi maestri? “Possiamo attingere a lezioni di metodo, quindi di cultura generale e di punto e di vista sulle cose. Non pratiche ovviamente, loro lavoravano con la riga e la squadra e disegnavano con la china, noi oggi facciamo tutto al computer” spiega in conclusione il designer “Come tutte le questioni storiche, chiedersi quando ci siamo porsi per la prima volta alcune domande è fondamentale per avere una propria consapevolezza culturale. Per qualsiasi professione la consapevolezza culturale è fondamentale. Le persone hanno anche generalmente un’idea molto vaga di cosa faccia il grafico come professione. Questa maggiore confusione, significa che i grafici in primis si trovano in una posizione più incerta. L’unico modo per rendere più certi questi confini è parlare di cosa è stato questo mestiere, chi l’ha inventato, perché si fa in un certo modo. Finché sulle pagine dei quotidiani generalisti non si parlerà di grafica come si parla di cinema, teatro, architettura, rimarrà sempre un sapere che non appartiene al dibattito culturale fino in fondo. L’uomo comune ha molto più a che fare con un logo che con un dipinto. Eppure questa cosa non è testimoniata poi dal dibattito più generale e culturale”.