Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Domus 1058, giugno 2021.
Non è chiaro perché la vita segua sentieri misteriosi, che a volte fanno lunghi giri per tornare al punto zero o, invece, si allontanano dall’origine come un asintoto, che si perde nell’infinito. Quello che le neuroscienze attuali confermano e, però, quanto resta scritto nel libro sapienziale dell’induismo, il Bhagavadgītā. Tutto dipende dai primi anni, da quell’infanzia troppo mitizzata e marginalizzata assieme dove le sensazioni, le emozioni e gli incontri definiscono il nostro essere. Veniamo alla luce come un tiepido lago luccicante che poi si fissa in ciò che saremo, ma soprattutto come saremo. Le opportunità della vita, dunque, non starebbero nelle condizioni di partenza esterne, la sovrastruttura di Karl Marx e dei suoi modesti epigoni. Quanto in una nostra dimensione interna, fatta di immagini, pastiche e ricombinazioni. Una proiezione del pensiero che resta l’unica possibilità per creare e modificare la realtà.
“Ne sono convinto”, sorride Giuseppe Cornetto Bourlot. “Le opportunità sono un fatto di esposizioni, incontri, contaminazioni. La formazione delle persone avviene all’inizio, da giovanissimi. Dopo, c’è solo maturazione e quello che si è a 20 anni si ripete. Per esempio, io provengo da una famiglia piemontese, ho viaggiato in tutto il mondo, ma sono sempre stato a Roma. Grazie a un professore, mi appassionai di finanza e ho fatto finanza in tutte le sue forme. Fui esposto alla musica sinfonica e, ancora oggi, sostengo l’Accademia di Santa Cecilia. Fin da bambino, sentivo il bisogno di qualcosa di più visibile, tangibile, che si potesse toccare, anche perché ho sempre visto la finanza come un ottimo mezzo, ma un pessimo fine. Per questo, mi sono rivolto al turismo e, grazie all’osservatorio del private equity, sono arrivato al design, e quindi a Luxy: una realtà a chilometro zero che dovevo solo accompagnare e dove, invece, ho deciso di restare, perché mi si addiceva. Un luogo di alto artigianato industriale che stiamo rilanciando in un’ottica di desiderio”.
Grazie all’osservatorio del private equity, sono arrivato al design, e quindi a Luxy: una realtà a chilometro zero dove ho deciso di restare, perché mi si addiceva. Un luogo di alto artigianato industriale che stiamo rilanciando in un’ottica di desiderio.
Per Bourlot, l’emergenza sanitaria ha modificato non solo come desideriamo, ma anche il nostro modo di percepire le cose e il loro uso: a partire dalla casa, diventata in parte ufficio, in parte palestra, in parte scuola. Una crisi tragica in cui Luxy ha sofferto, ma poi ha intravisto un’opportunità nel portare l’ufficio a casa. Dopo essere stata scelta per le sedute del G7 e del G20, durante la pandemia Luxy ha venduto più di 1.000 sedie, soprattutto al Nord e soprattutto ai privati. “Forse è stato riconosciuto il nostro concetto smart working, smart chair, perché a casa quasi nessuno aveva una sedia ergonomica antinfortunistica. Mancavano anche la scrivania e tutto il resto, da ripensare. A Luxy vogliamo essere parte attiva di questo processo che non riguarda solo la casa, ma anche gli uffici, dove la flessibilità non basta più”.
Emerge qui l’altro filone giovanile di Bourlot, che continua ad accompagnare questo signore che sembra sempre appena uscito da un massaggio. La passione per i media e la comunicazione. “Occorre ripensare, ricomprimere, contaminare. Le digital room dove faremo le call saranno infatti comunicazione, come comunicazione sarà la fabbrica, cioè l’architettura dei luoghi di lavoro. Per questo, Luxy propone una visione con un suo strabismo: partecipiamo al G20, ma guardiamo anche ai giovani, ammirando la capacità di pulizia estrema che ha insegnato Apple e ispirandoci anche a Google che ha esacerbato i colori per la contaminazione tra ufficio e casa”. Due punti di riferimento globali e anglosassoni che non gli hanno impedito di rimanere fedele all’estetica del bello della tradizione italiana. “L’Italia è fortissima nella creatività, da sempre. Ha inventato tutto, dalla musica alla moda, anche se spesso, essendo divisiva e non sapendo fare squadra, lancia il progetto e lascia che altri lo sviluppino. Resta però la patria del bello e del funzionale, che oggi non è solo un vantaggio estetico, ma anche competitivo, perché il numero di chi si affaccia al ruolo di partecipazione all’affluenza è sempre più alto. Oggi il nuovo mondo tende al bello offrendoci un’occasione storica che non possiamo perdere”.
A Luxy, Bourlot sta chiedendo di puntare tutto sulla logica del servizio e della sua affidabilità, che trova nel digitale l’ecosistema ideale, ma ancora una volta al di fuori degli schemi sovrastrutturali. “Spesso nel design il digitale è una retorica, che non appartiene alla sua filiera. Per noi, invece, un click deve servire per un focus estremo sui prodotti, avvicinando sia il nostro dealer che l’architetto dei vari mercati internazionali all’interpretazione di famiglie e idee con un accesso molto semplice, come le tre parole chiavi di volta del futuro: scommessa, visione, execution. Per superare l’obsolescenza nel mondo dell’ufficio, che è una metafora di quella della vita, che ci riserva ancora molte sorprese”.
Immagine di apertura: la sedia Italia di Francesco Favaretto per Luxy. Foto Laura Pozzi