If I was the president / I’d pay my mama’s rent / free my homies and them / bulletproof my Chevy doors / lay in the White House and get high, Lord.
Con il suo disco To Pimp a Butterfly, nel 2015 il rapper americano Kendrick Lamar ha portato la periferia più brutta e malfamata direttamente alla Casa Bianca. La copertina dell’album ritrae infatti un gruppo di ragazzi da Compton – cittadina nell’area metropolitana di Los Angeles nota per l’elevatissimo tasso di criminalità – in posa di fronte all’attuale residenza di Donald Trump. I giovani afroamericani brandiscono bottiglie di alcolici e mazzette di banconote, sfoggiano collane d’oro ed esultanti sembrano dire: “Ora ci riprendiamo il centro (del potere)”.
Scattata dal fotografo francese Denis Rouvre – vincitore del World Press Photo nel 2012 per una serie di ritratti ai sopravvissuti allo Tsunami – l’immagine della copertina racchiude i temi dell’album, che parla di discriminazione razziale, amore e odio di sé e per la propria nazione, e in generale delle storie di un n**** in America.
To Pimp a Butterfly è una rara combinazione di rabbia, consapevolezza e ricercatezza linguistica, le stessa che, pur in ambiti apparentemente differenti, abbiamo trovato nella mostra personale di Guillermo Santomà al Museo Cerralbo di Madrid.
Dal suo studio nella periferia di Barcellona, Santomà porta nella capitale spagnola un furgone con 18 dei suoi lavori, che “scarica” nella casa-museo barocca. Porta a due passi dal Palazzo Reale di Madrid dei frammenti di quei quartieri popolari che lo ispirano nella sua ricerca: “io passo tutto dal filtro del popolare, mi interessano quei luoghi in cui ancora si possono creare discorsi ricchi, plurali e partecipati, perché è da opinioni e sentimenti opinioni diversi e conflittuali che nascono le collettività,” ci racconta il designer catalano.
Santomà concepisce la mostra al Museo Cerralbo come un’unica installazione, in cui l’uso e la forma dei singoli oggetti passa in secondo piano. Dice: “non mi interessa progettare una sedia, o una lampada. Ci sono molte industrie che possono fare arredi migliori, più belli, economici ed efficienti dei miei.”
L’autore crea una narrazione in cui destruttura e materializza le sue numerose ispirazioni tra design, architettura, arte, scenografia, scultura, scrittura: “quando ho approcciato questo lavoro quasi era un progetto fittizio, un’approssimazione molto reale. Anche se ho fatto molte visite, sarei voluto fermarmi per dormire, cucinare una tortilla, bere qualcosa e cercare di abitare la casa per davvero.”
Santomà ridà vitalità a spazi domestici ben conservati, ma immobili e imbalsamati, e vi inietta un po’ dell’essenza sgraziata e un po’ sgarbata dei quartieri popolari. Questo cambiamento non avviene solo esteticamente ma anche a livello di uso e di distribuzione. Allo stesso tempo le sue opere, ispirate da un contesto ricco di stimoli e lontane dal freddo dei white cube, risplendono di una luce diversa. Lo stesso designer ammette: “dopo la mostra per me sarà difficile vedere i pezzi senza il loro contesto originale, perché ora hanno un significato unico.”
Ma se nell’ambiente protetto del museo si percepiscono nuove vibrazioni, ci chiediamo se quello che abbiamo definito come Ugly Design possa diventare uno strumento per riconquistare luoghi o interi quartieri che turismo, mercificazione e brandizzazione hanno svuotato di identità e di passone, trasformandoli in parchi giochi per turisti occasionali e consumatori disinteressati.
Possiamo pensare a strategie estetiche di anti-rigenerazione o contro-gentrificazione? Può l’Ugly Design diventare Ugly Urbanism?