I lavori di Francesco Pace (Pozzuoli, 1985) sono intimamente legati alla terra in cui è cresciuto, alla zona dei Campi Flegrei, anche dopo gli studi a Milano, Berlino e Eindhoven, dove oggi vive e lavora.
Non a caso il nome che ha scelto per il suo nuovo progetto è Tellurico. Inizialmente dedicatosi al video e alla fotografia, è passato poi alla formatura di calchi e stampi. Oggi la sua ricerca si focalizza sull’uso della pietra lavica nei materiali ceramici. Il risultato formale e la ricerca sui materiali si contaminano reciprocamente, come nel suo recente lavoro “Era da una vita che non sognavo” che presenterà durante la Milano Design Week presso Alcova, con la galleria Salvatore Lanteri.
La lontananza da Pozzuoli ha generato un motivo per studiare e apprezzare il luogo dove sono cresciuto.
Che ruolo ha avuto il posto in cui sei cresciuto nel tuo lavoro come designer?
Per me, è stato fondamentale! Almeno quanto sia stato fondamentale andarmene. La lontananza da Pozzuoli ha generato un motivo in più per studiare e apprezzare il luogo dove sono cresciuto. Vivere al di sopra di una gigantesca caldera vulcanica attiva, circondato da ventiquattro crateri stabilisce un ordine di proporzioni e priorità differenti. Trasmette una sensazione di incertezza ma allo stesso tempo restituisce una maggiore inclinazione all’adattabilità. Dai per scontato alcuni processi naturali che da altre parti vengono percepiti come pericolosi e questo ha influenzato molto il mio lavoro. Se penso alla mia ultima ricerca – che investiga la possibilità di trattare la roccia lavica come un materiale ceramico – ne ho la conferma.
Hai frequentato sia il Politecnico di Milano che la Design Academy di Eindhoven, scuole che hanno un approccio molto diverso. Cosa pensi di aver preso da ciascuna?
Penso che delle formazioni così diverse mi abbiano aiutato ad avere una visione più ampia del progetto. Con il Politecnico ho potuto sviluppare quella che definiscono, ‘’visione sistemica di progetto’’ dove all’interno del flusso creativo vengono inseriti interlocutori di diverso tipo come artigiani, aziende, tecnologie di produzione, materiali, clienti, utenti finali, e così via. Mentre invece l’Academy mi ha dato la possibilità di investigare il lato emozionale del progetto. Cosa una forma, una superficie, un materiale o un colore possa trasmettere in termini significato. Mi sento fortunato ad avere avuto la possibilità di conoscere punti di vista diametralmente opposti sul design.
Quali sono gli incontri che hanno avuto un ruolo nel tuo modo di pensare il design?
Non saprei dirlo con precisione. Ogni incontro a suo modo ha avuto un suo riscontro nel mio lavoro. Sicuramente nel periodo in cui ero dai Formafantasma ho imparato molto, soprattutto nella gestione del progetto, ma forse fra le persone che hanno influenzato di più il mio approccio c’è Maarten Baas, mio mentore all’Academy. Non tanto sotto il punto di vista stilistico, non penso abbiamo molto in comune, ma quanto sotto il punta di vista umano. Da una persona che a 24 anni aveva già un solo – show l’attivo alla Moos Gallery di New York non ti aspetteresti certi atteggiamenti. Invece lui disponibile, pragmatico, incoraggiante: è come se involontariamente mi avesse insegnato a restituire una dimensione più umana al progetto. Questa cosa mi ha aiutato molto soprattutto nell’interazione con gli altri. E pensare che mi ha anche bocciato al suo corso!
Nel tuo lavoro mi pare ci sia una volontà costante di relazionarsi ai luoghi – o environments, come ti piace chiamarli – attraverso gli strumenti del tuo lavoro. A cosa attribuisci questa relazione?
Penso ci sia una forte relazione fra i luoghi in cui viviamo e il design, molto più che in altre discipline e credo che investigare questa relazione sia un po’ il filo conduttore della mia pratica. E’ un modo per me di capire la contemporaneità. Spesso grazie al mio lavoro mi trovo a sviluppare progetti in altri paesi, e di conseguenza a collaborare con artigiani o aziende che lavorano con tecnologie che non conosco o che rispettano differenti regole produttive e di processo. Mi piace adattare il mio approccio a queste differenze, creando dinamiche nuove che spesso spingono il progetto ad ottenere risultati inaspettati. Penso che nell’approccio al progetto ci voglia più fluidità e meno rigore.
Penso ci sia una forte relazione fra i luoghi in cui viviamo e il design, e credo che investigare questa relazione sia il filo conduttore della mia pratica.
La ricerca sui materiali è una componente strutturale del tuo lavoro, che in alcuni casi diventa quasi artigianale. Qual è la relazione fra materia e forma nel tuo lavoro?
Per me è un rapporto di interscambio. Alle volte è la forma che suggerisce al materiale come comportarsi ma molto più spesso è il materiale che impone i limiti della forma. Nella mia ultima ricerca sto cercando di evitare che questo accada. Sto utilizzando la pietra lavica in combinazione con una vasta gamma di ceramiche, proprio per cercare di utilizzare il materiale con tecniche differenti. Vorrei provare ad avere un materiale adattabile a differenti processi produttivi. Che possa essere stampato 3D, ma allo stesso tempo anche lavorato per colaggio.
Quale rapporto ti sembra ci sia oggi fra design e artigianato?
Negli ultimi anni sembra ci sia stato un forte riavvicinamento del design al sapere artigiano e questo mi sembra un flusso molto positivo. Storicamente l’artigianato italiano ha contribuito in maniera importante alla disciplina, non solo nella creazione delle icone del design ma anche nello sviluppo di nuove tecniche di produzione. Allo stesso tempo però, ogni volta che collaboro con un artigiano, la problematica comune sembra sia sempre la stessa: la mancanza di una generazione successiva a cui trasmettere il sapere. Penso sia arrivato il momento in cui la comunità del design debba offrire qualcosa in più a quella dell’artigianato. Dovremmo iniziare a trasmettere il messaggio che l’artigiano ha un valore all’interno del progetto pari se non alle volte superiore a quello del designer.
Per la collezione “Era da una vita che non sognavo” fai riferimento a sogni e miti. Che ruolo ha la narrativa nei tuoi progetti?
Nei miei progetti ed in particolare in ‘’Era da una vita che non sognavo’’ la narrativa svolge un ruolo essenziale. Gli oggetti non sono il fine ultimo quanto uno strumento per raccontare l’idea che li genera. La volontà ora è quella di continuare questo progetto e sviluppare un vero e proprio linguaggio realizzando nuovi oggetti ma utilizzando tecniche differenti. Credo che viviamo circondati da prodotti ed uno dei pochi fattori che può fare la differenza è la storia che raccontiamo.
Quali sono le linee di ricerca che stai portando avanti oggi?
In questo momento sono estremamente focalizzato su Tellurico e sulla ricerca dei materiali vulcanici. Per ora sono riuscito a sviluppare tre smalti per ceramica che hanno come ingrediente base la pietra vulcanica e sto lavorando sulla combinazione di pasta di porcellana e frammenti lavici. L’idea è di spingere all’estremo questa ricerca cercando di avere una gamma di materiali ceramici che rispettino dei parametri comuni. Per ora i risultati sono positivi, sia nella struttura che nell’estetica. Sento di aver un buon controllo sul processo di produzione. Allo stesso tempo però è la prima volta che mi trovo a gestire una così vasta gamma di dati, che comprendono differenti media ed è estremamente stimolante. Per ora, non so se la creazione di una collezione di oggetti sia la strada da intraprendere ma sicuramente non sarà lo stadio finale di questo progetto. Il primo risultato di questa ricerca verrà mostrato durante la Milano Design Week Alcova, con la galleria Salvatore Lanteri.