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Icone domestiche
In uno spazio total white, Poltronova ha presentato alla Design Week milanese una rassegna dei suoi arredi più rappresentativi e coinvolgenti, capaci ancora oggi di farci emozionare. #MDW2016
Poltronova è la storica azienda toscana, al tempo come oggi con base Agliana (anche se non più nella sede originaria), che ha permesso alle avanguardie fiorentine di realizzare gli oggetti più rappresentativi di ciò che chiamiamo design radicale.
Dal 1957, Poltronova non ha mai spesso di produrre e di stupire. In occasione della kermesse milanese del design, quest’anno ha presentato, in via Vigevano, “Domestic Icons” – non poteva esserci miglior titolo – ossia una selezione dei suoi prodotti in diverse edizioni e varianti di colore. E proprio di icone si tratta, pezzi protagonisti di uno dei momenti più coinvolgenti della storia del design che, oltre a arredare le case più inusuali e anticonformiste, fanno anche parte delle collezioni permanenti dei grandi musei internazionali. La storia di Poltronova è affascinante: Sergio Camilli fonda l’azienda e chiama alla direzione artistica Ettore Sottsass (dal 1959 al 1972); dopo diverse vicissitudini, ecco Roberta Meloni nel ruolo di attuale CEO, braccio ma soprattutto cervello e cuore del marchio che ne riordina il patrimonio per creare nel 2005 il Centro Studi Poltronova, fare il punto sui materiali esistenti (modelli e disegni del tempo salvati dagli operai) e portare avanti con la tenacia e l’eccitazione di sempre questa anti-tradizionale tradizione.
In un contesto total white (sia per lo spazio sia per le scatole dello scenario astratto firmato dall’architetto Pier Paolo Taddei), dove anche la Joe (1970) di De Pas, D’Urbino e Lomazzi ha cambiato colore, trovava spazio una rassegna degli arredi più rappresentativi e coinvolgenti della storia di Poltronova, capaci oggi di farci emozionare ancora. Fra questi, Gherpe, la lampada-palombaro da tavolo e la più nota Passiflora entrambi di Superstudio e del 1968, il lungo stelo del Sanremo (1968) e il divano componibile Superonda (1967) di Archizoom Associati, l’immancabile Ultrafragola (1970) del maestro Sottsass, collante delle avanguardie. Un caleidoscopio di oggetti capaci di stupire chi li vede per la prima volta e che gli addetti ai lavori amano sempre ritrovare. C’erano anche altre sorprese in mostra: due riedizioni e un libro.
La prima è Rings (1966) gioielli che nascono da un kit di una quindicina di pezzi di diverse misure e più colori (bianco, nero, blu, specchio, verde e rosa ovviamente fosforescente) e dalle forme differenti create da Cristiano Toraldo di Francia (membro di Superstudio) che commenta: “Questi anelli sono stati realizzati verso la metà degli anni Sessanta con gli scarti della lavorazione del plexiglas, quando questo materiale si usava soprattutto per costruire insegne per negozi. Li costruiva su mio disegno un artigiano del perspex con l’insegna in via del Corso a Firenze, utilizzando gli strumenti e le tecniche del traforo: seghetti, trapani, carta smeriglio e collanti. Gli ho dato il nome di Aurora e Boreale, pensando alle bande luminose di vari colori, continuamente cangianti prodotte da questo fenomeno generato dall’incontro delle particelle solari con la ionosfera terrestre nei pressi dei campi magnetici del pianeta. Piccoli fenomeni ottici colorati e cangianti, da indossare sulle dita di mani pallide, rosa, scure, gialle, brune… lisce o rugose...”.
Superstudio è protagonista della seconda riedizione con Sofo, progetto di seduta libera del 1966. “Il Sofo è un sedile da mettere in fila come un treno, o da costruirci montagne e troni più o meno regali, montagne e piramidi colorate solidamente piantate per terra, ma che in fondo resta sempre un blocco di poliuretano, un cubo tagliato in due da una specie di esse, e poi rivestito di un tessuto con due righe sopra. Nasce da un’operazione molto semplice, senza sprechi materiali e intellettuali, e si presenta come un oggetto grosso, colorato, un po’ astratto magari come tutte le cose che hanno addosso un po’ di gioia di vivere e che per questo sembrano venire da un altro mondo” si legge.
E poi un libro, il secondo che l’azienda pubblica dopo quello del 1976 (che fu primo e ultimo) dal titolo Poltronova Backstage: Archizoom, Sottsass and Superstudio, the radical era 1962-1972, edito per l’occsasione da Fortino e a cura di Francesca Balena Arista, docente al Politecnico di Milano con più contributi tra cui Barbara Radice, Dario Bartolini, Adolfo Natalini, Gilberto Coretti, Cristina Morozzi e introduzione di Michele De Lucchi. Il volume presenta fotografie inedite scattate dal 1962 al 1972 durante i backstage per le produzioni di cataloghi dell’azienda; altra testimonianza di un design concepito come totalizzante. “Questi autori consideravano la parte della comunicazione, e quindi gli scatti fotografici dei loro pezzi, come parte integrante del processo creativo”, aggiunge Roberta Meloni.
“Sono felice di presentare queste riedizioni, Poltronova ha una storia particolare da valorizzare; pensare che quasi la metà dei progetti pensati per quest’azienda dai diversi autori che hanno collaborato con noi non sono mai stati messi in produzione. La provincia italiana di quegli anni era la patria di queste istintive scintille di genio, che lavoravano senza pianificazione, dotate tutte di grande entusiasmo e voglia di fare. Il dopoguerra era passato, c’era una sorta di anarchia e si lavorava su progetti che nascevano apparentemente in maniera casuale come ad esempio Tizio Caio e Sempronio di Archizoom Associati (1967): c’era della vetroresina a disposizione e quindi si è pensato come utilizzarla al meglio. Cosa si poteva fare con questa partita di latte...” commenta, facendo trasparire la passione con cui porta avanti oggi questa avventura. Insomma, allora c’era la libertà di pensare e di fare”.
E se dobbiamo imparare dalla storia per comprendere meglio il nostro presente e pensare il futuro, il design radicale deve essere considerato come uno dei grandi movimenti idealistici della storia del design internazionale e dovremmo ricordarne i valori che parlavano sì di creatività ma anche di uguaglianza e condivisione oltre che di libertà espressiva. Questo periodo storico ci insegna che il design non è soltanto prodotto – sedie, tavoli, lampade – ma riguarda soprattutto l’esistenza, il pensiero degli uomini e la costante tensione al cambiamento dello status quo.