A guardare con attenzione, ogni stagione dell’arte ha avuto i suoi “primitivi”. Che si trattasse di icone bizantine, delle sottili e allungate figure del Duecento italiano, delle donne di Thaiti per Gauguin, della scultura negra per Picasso o di quella egea per Modigliani, il gusto per i primitivi è ricorrente. Sintetizzando, si può dire che questo tema nasconde da un lato una certa tendenza intellettualistica a staccarsi dal coro, a voler imporre una visione autonoma rispetto agli accreditamenti ufficiali della storiografia artistica. Non a caso i raffinatissimi signori Stoclet nel loro Palazzo-tempio a Bruxelles, summa delle capacità della Secession di Josef Hoffmann e compagnia, non scelsero autori contemporanei da appendere alle pareti, bensì la loro esclusiva collezione di icone e miniature tardo gotiche ricercate in tutto il mondo. Ma dall’altra parte, l’attenzione ai primitivi rivela un’autentica passione per l’idea di primigenio, incorrotto, archetipico. Ed è forse questo aspetto che ha maggiormente attratto molti autori nel tempo.
Anche il design ha avuto e sembra ancora perseguire il suo interesse per i primitivi. Tanto che la diffusione di questa attenzione non è di per sé collocabile né nella stretta definizione di industrial, né in quella di art design, ma nella direzione della più autentica speculazione di indagine conoscitiva.
Frequenti sono oggi i cross-over culturali che sembrano nascere dall’analoga ricerca di un modo di fare che non sia necessariamente contro l’industria, ma più precisamente oltre l’industria. Non a caso, spesso si tratta di ricerche praticate da designer emergenti che trovano in questo campo un modo per iniziare a realizzare collezioni che vivono dello scambio culturale, come fossero grandi operazioni di viaggiatori/ricercatori. Oppure è il caso di autori che con l’industria, quella dei grandi numeri, hanno frequentazione e dimestichezza, ma che nel cross-over prendono linfa vitale per l’esercizio al progetto, vera palestra di pensiero e di fare manuale.
Nel primo gruppo troviamo molte storie di contaminazione tra culture. Tra il 2010 e il 2013, per esempio, lo studio nippo-olandese BCXSY dà vita alle collezioni Origin I, II, III e IV che corrispondono ad altrettante tipologie e scambi con artigiani incontrati in diverse zone del mondo: attrezzi per la tavola con la comunità di pescatori Meithal Mara in Irlanda; tessuti con artigiane beduine in Israele; paraventi con un maestro carpentiere giapponese; oggetti realizzati in collaborazione con una società no profit di artigiani giapponesi Ibuki.
Qualche anno prima, nel 2009–2010, Max Lamb aveva lavorato al China Granite Project I e II, realizzato nella provincia cinese di Fujian con società locali di estrazione del granito e maestri cinesi nella lavorazione del materiale. Il risultato è sempre quello di un’estetica quasi brutale, molto lontana dalla perfezione e patinatura della serie industriale.
Oggetti quasi precari e instabili, come quelli di Brynjar Sigurðarson in The Silent Village Collection per la cui realizzazione l’autore ha vissuto per quattro settimane nel Nord-Est dell’Islanda in un villaggio dominato da ghiaccio e silenzio con un pescatore di squali settantenne come unico compagno, il quale gli ha insegnato una tecnica di tessitura che utilizza un uncino e del filo da pesca. Dalla più profonda assenza di comfort, questi mobili, che sembrano assemblati più per fortuna che per disegno, arrivano alla Galerie Kreo di Parigi, vero tempio contemporaneo del collezionismo di design di alto lignaggio con un pubblico decisamente agli antipodi delle vite precarie e improvvisate. E anche questo è un punto a favore del fatto che quello per il primitivismo sia un gusto e un concetto; comunque una scelta precisa, di certo non una condizione di necessità.
Come dicevamo, anche designer abituati alle grandi industrie traggono dal confronto col mondo dei primitivi interessanti spunti di ricerca. Nel 2009 l’associazione The Nature Conservancy lancia il programma Design for the Living World in associazione col Cooper Hewitt Museum di New York. L’idea è quella di far entrar in contatto grandi autori del mondo del progetto e dell’arte con realtà di artigianato locale in via d’estinzione. Tra i partecipanti è una design-star, l’olandese Hella Jongerius, che si trasferisce per diverse settimane in Messico nella Maya Forest dove scopre la lavorazione della gomma naturale, la stessa utilizzata storicamente per la produzione dei chewing gum. Ne deriva una collezione di vasi nella quale la gomma si trasforma in materiale decorativo inedito, di certo molto lontano dalla raffinata purezza delle porcellane olandesi, ma con il potere d’evocazione di culture dove il prodotto è atto finale di un gesto che ha sempre forte implicazioni con ritualità e condivisioni di gruppo.
Anche il filone del riuso a partire da materie prime e componenti reperiti in zone non industrializzate sembra rientrare a pieno titolo nel contemporaneo gusto dei primitivi. Molti gli autori che si sono confrontati con questa prassi progettuale. Per citarne uno fra tanti, Francesco Faccin che non solo ha progettato in Kenya l’arredo di una scuola con maestranze e materiali locali lasciando un metodo di progetto prima ancora che dei manufatti, ma da quell’esperienza ha riportato una incredibile collezione di oggetti di una produzione parallela a quella dell’industria occidentale. Questa si basa su pezzi di scarto e componenti usate che vengono codificate in tipologie merceologiche inedite, ma pienamente di valuta corrente per il mercato di quelle zone. Probabilmente è anche grazie a questa esperienza di cross-over culturale che lo stesso Faccin, tornato in Italia, ha progettato il kit Re-Fire. Pubblicatissimo dalla stampa specializzata e non, a distanza di un anno dalla sua presentazione si può affermare che esso abbia avuto un grande successo con una edizione limitata andata completamente esaurita. Le caratteristiche per essere icona del gusto contemporaneo per i primitivi questo oggetto le ha tutte. È simbolo per eccellenza dell’anti tecnologia, manifesto provocatorio della ripartenza, funziona nel suo essere più simbolico che utile, riporta alla gestualità del rito laddove tutto sembra passivamente automatizzato. E ci fa riflettere sul punto di arrivo della nostra civilissima società con una punta di polemica nostalgia sul desiderio di ripartire da zero, ovvero dalla primitività contemporanea.