Alla Keitelman Gallery, nel cuore di Bruxelles e in occasione dell’evento “Brussels Design September”, vanno in scena le ossessioni più profonde di Ron Gilad.
House sweet House
Gli oggetti della prima esposizione di Ron Gilad in Belgio alla Galleria Keitelman sono da guardare con calma: dietro ogni pezzo, c’è un mondo di significati, più o meno percepibili.
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- Maria Cristina Didero
- 29 ottobre 2014
- Bruxelles
Designer accreditato dalle diverse collaborazioni con i marchi più noti del panorama internazionale, Gilad è un personaggio in mezzo, si direbbe interrotto: sospeso (di buon grado) tra la produzione industriale e l’opera d’arte tout-court. La sua cifra stilistica è di gran lunga indefinibile. Ron Gilad è un capitolo a sé, sia all’interno del mercato del product design sia di quello dell’arte. Diciamo quindi un creativo? È difficile trovare una descrizione di maggior efficacia di questa che, pur essendo generica, è certamente in grado di abbracciare le diverse declinazioni del suo talento. Quel che è certo è che quello che sa pensare e riesce a restituire in tre dimensioni è fuori dal comune. Nel mondo dell’arte, è senz’altro inconsueto trovare un designer che sappia esprimersi con tale sensibilità.
Con diversi premi guadagnati – uno su tutti, il Wallpaper Design Award 2013 – oggi le sue opere fanno parte delle collezioni permanenti di istituzioni quali il Metropolitan e il MoMA di New York, l’Art Institute di Chicago e il Tel Aviv Museum of Modern Art dove l’anno scorso è stata presentata la sua prima monografica “The Logical, the Ironic, and the Absurd”. La sua prima esposizione in Belgio presenta, all’interno degli spazi della Galleria Keitelman, diversi pezzi provenienti da questa mostra oltre a molti lavori site-specific, come le 3 opere outdoor accolte nel giardino interno che obbligano a una vera caccia al tesoro – una di queste ha dimensioni davvero troppo ridotte per essere individuata a prima vista.
Ecco, se lo si guarda di corsa, la profondità e la ricchezza di significati del lavoro di Ron Gilad può sfuggire. Ogni oggetto – dalla scala in metallo verniciato nero e vuota (ovviamente impercorribile) alla casetta fatta con una matita fumante – può sembrare semplice (nella difficoltà che le cose semplici impongono), ma la loro simbologia è potente. Il suo linguaggio consiste in un continuo gioco di rimandi e allusioni, spaesamento e rigidità di linee grafiche dai colori pieni (semplicemente nero, o bianco, a volte un tocco di rosso per la casetta in legno lunga e stretta che si contorce su sé stessa), ma che arrivano come lame nel cuore. Segni secchi e puri alle pareti che rimandano a iconografie riconoscibili ma che appaiono come sagome di fantasmi, sono realizzati con materiali durevoli (dov’è la caducità delle cose?) quali il marmo, il vetro e il metallo solitamente associati alle cosiddette “grandi sculture”.
Basta poco: qualche tubolare piegato o una tela forata da due occhi posticci sono in grado di trasmettere un contenuto più ampio, ma non univoco, perché Ron Gilad lascia aperta la porta all’interpretazione personale delle sue creazioni e, così facendo, siamo noi a completare la sua opera. Quello di Gilad è un io a cui non ci si avvicina facilmente: la specialità della casa è l’ambiguità combinata sapientemente alla solidità, l’humor elegante e sottile è sempre condito da una trepidante inquietudine di pensiero, come se l’autore ci dicesse: “ridi ora, ma poi capirai”. Non manca una sedia su cui non ci si può sedere (retaggio della pratica quotidiana di progettista?), una porta che dà accesso alla cucina della galleria, diventata parte della mostra, su cui sono installati due spioncini ad altezza occhi e, come tali appunto, permettono di osservare ciò che succede nello spazio espositivo senza essere visti.
Gli oggetti parte della mostra “House Sweet House” – house invece della più calda home – sono da guardare con calma. Dietro ogni pezzo, c’è un mondo di significati, più o meno percepibili anche da chi il lavoro di Gilad non lo conosce, che ci danno una precisa idea della vigorosa emotività che li ha portati a esistere. Gilad sa cosa fare, a seconda di chi, o cosa, ha davanti. Per Moooi mette insieme una manciata di tradizionali lampade da scrivania e crea uno dei pezzi più riconoscibili dell’azienda: Dear Ingo. Per Adele-C incastona forme rotonde dentro la rigidità delle geometrie di diverso colore: sono i Tavolini TT, abbreviazione di Tray Table, ossia vassoi che diventano tavolini. Per Molteni pensa invece un tavolino lievemente ondeggiante e lo chiama Panna Cotta. Per Flos reinterpreta la classica lampada da tavolo in ottone con cappello verde, le banker desk lamp d’inizio Ottocento, ma vi applica tecnologia LED all’avanguardia, che si accende con un leggero tocco sulla base: è Goldman.
Anche in Belgio, Ron Gilad lancia il sasso e poi nasconde la mano: le sue opere in mostra sono talmente sofisticate e raffinate da appartenere a un universo fuori dal tempo, un mondo riservato, privato ma al tempo stesso fatto di rimandi platonici (non ultimo quello della morte), che si schiude a chi guarda attentamente. Il percorso ci porta fino all’ultima stanza della galleria: chi è l’uomo che tiene un lenzuolo bianco per nascondersi? Si vedono solo le scarpe.
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fino al 31 ottobre 2014
Ron Gilad: House sweet House
Keitelman Gallery, Bruxelles