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Beijing Design Week
Beatrice Leanza racconta a Domus come il “suo” festival di design proverà ad attirare appassionati e addetti ai lavori nella capitale cinese da tutto il mondo.
Il festival di design di Pechino, festeggia una nuova edizione e una nuova direzione. Si tratta della capace italiana Beatrice Leanza che ha sostituito Aric Chen – ora curatore all’M+ di Hong Kong – alla guida dell’evento che intende attirare appassionati e addetti ai lavori nella capitale cinese da tutto il mondo – opening il 26 settembre.
Nel 2012, Leanza ha compiuto dieci anni di soggiorno in Cina: dopo la conclusione degli studi alla Ca’ Foscari di Venezia prima, dove si è laureata in storia dell’arte asiatica, e a Londra e Heidelberg poi, giunta in Asia alla ricerca di un soggetto, all’epoca tanto impopolare quanto disatteso dal mondo accademico sinologico, che le fece incontrare i protagonisti della cosiddetta avanguardia artistica cinese. “Ho cominciato nella frugale comunità di artisti che per virtù o necessità si aggirava nelle periferie della capitale – tra i pochi luoghi dove le era concesso – e lavorato per più di tre anni come curatore al China Art Archives and Warehouse (CAAW) con Ai Weiwei, nel villaggio urbano di Caochangdi, oggi meglio conosciuto come l’alter-ego dell’ormai ‘disneyficato’ quartiere artistico della 798; parte di un’esegesi non canonizzata, era stato fondato verso la fine degli anni Novanta proprio da Ai Weiwei al ritorno dagli Stati Uniti, Frank Uyterrhagen e Hans Van Dyk; un virtuosismo dedicato all’arte contemporanea cinese, un luogo di creazione poroso e gregario, nonché anticamera per curatori e consulenti stranieri alla ricerca di nuovi esotismi che si facevano sempre più numerosi in quegli anni.”
Una singolare avventura dirigere un festival come quello di Pechino, dove il protagonista è il design, per una straniera. Come è iniziata? “Dopo l’esperienza al CAAW, nel 2006 ho fondando lo studio BAO Atelier, un laboratorio di azione e ricerca che intendeva operare come un dispositivo aggregante di posizioni critiche pluridisciplinari; BAO rispondeva all’emergere di giovani comunità creative oltre a quelle strettamente legate alle arti visive fino ad allora più popolose, e alternativamente rivelatrici di un trasformismo intellettuale e culturale refrattario alle compiacenze sistemiche del ‘miracolo creativo’ cinese fatto per l’esportazione. Questi gruppi dinamici connessi al di fuori dei network istituzionali ufficiali, creavano un arcipelago di pratica e riflessione all’intersezione di diversi campi ed esperienze – relativi all’architettura, design, film, produzione digitale, musica e sound art tra altri”.
“I progetti realizzati abbracciavano pratiche all’interno di queste diverse discipline con mostre, pubblicazioni ed eventi che non avevano allora uno specifico contesto né un ambiente discorsivo conclamato. Nello storicismo di una cosiddetta ‘decade globale’ cinese (post 2001, ovvero dopo l’ingresso nel WTO), alle complessità relative nella sua impennata economica e nella sfrenata urbanizzazione sottendevano necessariamente sismi sociali di eguale misura, non solo nella formazione di nuovi fronti di classe, ma in uno slittamento generazionale foriero di una nuova visione ed esperienza del mondo, che non si identifica nella prospettiva monodimensionale dettata dall’opportunismo economico imperante. David Harvey ha definito l’emergenza globale cinese come una ‘accidentale congettura di significato mondiale’, coincidente con l’ascesa di correnti neoliberali in occidente; in realtà, le tensioni con cui le istituzioni politiche e culturali cinesi si confrontano oggi hanno precedenti sin dall’inizio del secolo scorso e sono legate all’inconciliabilità con le strutture del pensiero modernista occidentale. In questo perpetuo processo di attentata sintesi e superamento della medesima si articola l’esperienza cinese, e con essa il mio percorso di lavoro e ricerca. Se ve ne è uno in formazione, il ‘modello cinese’ interessa il futuro della città del XXI secolo, che ha qui uno dei suoi più avvincenti laboratori di studio e applicazione.”
E, in qualche maniera, la conduzione della Beijing Design Week è diventata – per usare le parole di Leanza – una “naturale congettura” all’interno del suo percorso personale: avendo scelto Pechino come centro di gravità, considerata la quintessenza di questa produttiva disattesa di sintesi formale, ancora oggi sorride e non si spiega come siano volati gli ultimi dieci anni lontani dall’Europa. “Pechino ha una dimensione formulata nel presente, ma è una città declinata sul divenire, eponimo di una contemporaneità irrisolta, iperconnessa e perenne. Nella pratica, poi, avevo a lungo collaborato con le organizzazioni e istituzioni che oggi sono parte di e supportano la Beijing Design Week, in particolare per la curatela di mostre e pubblicazioni durante il Salone del Mobile di Milano”.
Quest’anno il festival rinuncia all’impianto tematico unico adottato negli anni precedenti, e intende riflettere la rinnovata volontà trasformativa cinese per posizionarsi come palcoscenico di rilievo non solo asiatico, dal respiro internazionale; “lavoriamo sempre con la medesima struttura divisa in sezioni che coprono il design award per gli innovatori locali, un forum ufficiale (in cooperazione con CCTV e New York Times), una mostra tematica che come gli anni precedenti è prodotta e presentata dal China Museum of Digital Arts su Smart Cities e avrà Pechino come ‘case study’ e Amsterdam come città ospite 2013. Inoltre, un corpo più sostanziale della programmazione chiamato Design HOP si dipana in zone della città rappresentative della sua natura ‘policentrica’”. I progetti? Dalla pianificazione di un’intera città o quartiere, all’ingegneria di un prodotto tessile o un polimero industriale, all’interfaccia di un sistema di navigazione stradale, la progettazione di un bagno pubblico in un quartiere in degrado a due passi dalla citta proibita, fino alla riscoperta di come il passato – un retaggio artigianale secolare affascinante e variegato – possa vivere nel presente. Il design insomma, invade la città.