Nuova vita per il Groninger Museum

Dopo otto mesi di lavori, il museo olandese ha presentato al pubblico i nuovi spazi firmati Baas, Hayon e Job.

Il Museo di Groningen ha una seconda vita. Sono contento di questa seconda inaugurazione del Museo di Groningen, a quindici anni dalla prima. Questa bella avventura cominciò per me, per mio fratello Francesco e per il mio gruppo nel 1990, quando l'allora direttore Frans Haks ci propose di progettare il Museo. La maturazione del progetto non fu facile, e ci trovammo spesso al centro di dure polemiche cittadine. Fu Frans Haks a inventare la formula culturale del Museo, ed è a lui che dobbiamo il piacere di questa esperienza eccezionale. Un Museo fatto di padiglioni separati, già all'inizio previsto con degli architetti ospiti: Michele De Lucchi, Philippe Starck, Coop-Himmelb(l)au. L'assistenza di Team 4 e di tutti gli amici olandesi è stata importante. L'invenzione del progetto fu basata sull'idea di un'isola della cultura, una specie di acropoli utopistica, una cittadella delle arti. Oggi le arti, il mondo, le città e le architetture sono dei patchwork. E così anche questo Museo è un patchwork, vuole essere come il retroscena delle opere d'arte che contiene, è riflesso nell'acqua del canale come fosse un miraggio. Le forme e i contenuti di questa architettura mescolano immagini, volumi, colori, materiali, autori, epoche e mezzi espressivi. Anche le zone funzionali sono ibride, dalle sale di esposizione, alle biblioteche, ai laboratori.

La struttura delle attività si è sviluppata in questi quindici anni in una variazione continua di strategie e di nuovi autori, come oggi si vede con gli interventi di Maarten Baas, di Jaime Hayon e di Studio Job. Anche questi nuovi raffinati interventi che inaugurano oggi partecipano al senso di back-stage, all'ipotesi di estraneamento labirintico che era nelle idee originali del progetto. All'interno l'idea era ed è quella di creare situazioni molto variate in modo da mostrare le opere d'arte in spazi architettonici attivi e non neutrali, capaci di generare sorprese, curiosità e attenzione. All'esterno l'idea è stata ed è che ogni padiglione abbia una propria identità visiva corrispondente alle varie sezioni culturali: storia, design e artigianato, arte classica, arte contemporanea. Una specie di auto-rappresentazione architettonica.

La fortuna del Museo, e pertanto la quantità di pubblico molto superiore a quella prevista all'inizio, ha reso necessari nel tempo la sostituzione di materiali consumati e la integrazione di nuove funzioni e impianti dovuti alla logica della vita reale del Museo. Ed ora il potenziamento e le nuove strategie delle attività volute dal direttore Kees van Twist hanno condotto alla esigenza e alla decisione di un restauro e di un restyling radicale di tutto il complesso architettonico. Progetto cui ci è stato chiesto di sovrintendere. Così che noi stessi progettisti originari del Museo ci siamo trovati a ristudiare, a reinterpretare e a restaurare la nostra stessa opera, a cambiarle la pelle come avviene nei templi di legno giapponesi. Abbiamo anche introdotto nuove immagini e nuovi materiali, come per esempio le nuove grandi facciate di ceramica serigrafata realizzate dalla storica ditta Makkum

Ci ha veramente lusingati l'attenzione dei responsabili del Museo verso il nostro progetto originale, che è stato rispettato in tutti i suoi aspetti estetici come fosse un monumento storico. E così il visitatore si trova oggi di fronte a una situazione strana: cioè a un Museo, un edificio di cui in un certo senso conosce da tempo l'immagine, ma di cui percepisce in modo subliminale una novità, cioè un'altra immagine giovane e fresca. Alessandro Mendini

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