Franco Albini ha 57 anni quando riceve insieme a Franca Helg l’incarico per la progettazione delle stazioni della linea 1 della metropolitana milanese. È il 1962. Due anni dopo il progetto di allestimento e segnaletica della metropolitana, a cura di Bob Noorda, vince il Compasso d’oro. A distanza di un quarantennio dall’inaugurazione di uno dei sistemi di trasporto urbano più radicali e innovativi l’azienda dei trasporti di Milano, invece di promuoverne il restauro, ne altera irrimediabilmente il disegno. Quali motivazioni avrebbero dovuto ispirare un diverso criterio di protezione dell’integrità manufatto?
Molti anni prima di fregiarsi del titolo di “capitale del design” Milano fu effettivamente capitale economica, morale e culturale dell’Italia post-bellica. È in questo contesto di rinascita dell’intelligenza e della progettualità che prende forza quello che in seguito diverrà il “disegno industriale italiano”.
Fu quindi una scelta naturale e forse non particolarmente sofferta quella che oggi appare come il massimo della sofisticazione: progettare e realizzare in poco tempo un’infrastruttura complessa, un sistema integrato di innovazione tecnica (la tipologia di costruzione delle gallerie successivamente chiamato Milano) e disegno dello spazio, certamente il più esteso intervento di progettazione urbana mai realizzato in Italia. Le cronache narrano che, come spesso accade, l’architettura dovette adeguarsi a ciò che l’ingegneria aveva già deciso, ma è un fatto che lo fece in modo così efficace da lasciar credere piuttosto il contrario.
Entrando nel merito del progetto vale la pena di soffermarsi su una caratteristica fisica che differenzia la metropolitana milanese dalla maggior parte delle sue concorrenti: essa è una ‘sotterranea’ che corre molto vicino alla superficie. Da qui l’estrema accessibilità dei mezzanini che, almeno nei primi anni di funzionamento, si prolungavano in spazi pedonali di servizio, sottopassaggi e gallerie commerciali. Quest’ultimo aspetto, mai veramente compiuto tanto da subire varianti e modifiche continue, è inedito e coraggioso e meriterebbe oggi ben altra considerazione in un’epoca in cui la città è diventata una sorta di ‘mall’ globale.
Le banchine, due rampe di scale più in basso, sono aperte alla vista contemporanea dei due binari che corrono separati solo da setti strutturali. Salvo eccezioni alla quota di circolazione dei treni, tutte le stazioni sono identiche. Se il progetto di Albini-Helg fu limitato al ‘solo’ rivestimento dello spazio e alla sua percezione non appare per questo diminuito nella sua ricchezza di temi e di soluzioni tecniche. L’idea di trattare tutte le strutture in cemento armato con un colore scuro – verde o marrone secondo i casi – minimizzando le irregolarità della superficie del calcestruzzo le rende eleganti ed essenziali. I pavimenti di gomma nera sono di facile sostituzione e attutiscono il rumore dei passi contribuendo ad accrescere il comfort acustico delle stazioni. La pietra delle panchine e delle scale (serizzo lucidato o a piano sega per gli esterni) è autentico lusso se paragonata alla plastica, alla maiolica e al metallo di quasi tutte le altre metropolitane. Il rivestimento modulare delle pareti, un composto di cemento e polvere di marmi, è risolto mediante l’accostamento di lastre sospese a circa 10 centimetri dalle strutture portanti e permette di nascondere dietro di sé gran parte degli impianti mantenendone l’accessibilità e la semplice manutenzione. L’illuminazione è fluorescente e lineare, sempre orientata nella direzione dei flussi pedonali. Notevole è poi il disegno delle opere in ferro il cui particolare più noto rimane la curvatura alle estremità dei corrimano tubolari di colore arancio.
La segnaletica, risolta con una fascia continua lungo tutto lo sviluppo perimetrale delle banchine e dei mezzanini, è contraddistinta dalla sobria ripetizione del nome delle stazioni o dalle indicazioni riguardanti l’ubicazione delle uscite. Senza dubbio i materiali impiegati per il progetto della metropolitana milanese rappresentano ancora oggi un abaco di straordinario valore. A quale tipologia di cittadino-committente si rivolgevano Franco Albini e Franca Helg nel loro progetto? Probabilmente a un soggetto sociale ormai maturo, protagonista di una reale evoluzione della cultura. Mi piace pensare che la metropolitana appartenga a quella breve stagione durante la quale fu possibile progettare senza ammiccamenti o compromessi al ribasso, con il solo beneficio della collettività. Una stagione durante la quale coincisero miracolosamente i gusti e le inclinazioni di committenza e progettisti e della quale Milano fu sì indiscussa capitale.
Con quali modalità l’azienda dei trasporti e di riflesso l’amministrazione cittadina si sono mosse per proteggere l’eredità costituita dal progetto originale di Albini-Helg? Quanto di quel patrimonio è ormai perduto? La corruzione dell’idea albiniana ha inizio quando la metropolitana milanese decide di progettare in proprio la terza linea ma, come spesso accade in Italia, è il deficit culturale che investe la manutenzione a causare la progressiva perdita d’integrità del manufatto.
Inizialmente le modifiche hanno riguardato gli spazi commerciali e di collegamento pedonale. A ciò è seguita l’incapacità di far rispettare un codice estetico nella collocazione delle insegne e nel disegno delle vetrine. È però con la progressiva introduzione delle tecnologie di sorveglianza e di comunicazione al pubblico che viene meno il rispetto per il progetto originale. La privatizzazione dell’azienda dei trasporti introduce nella metropolitana un regime di commercializzazione selvaggia degli spazi pubblicitari: scatole luminose, installazioni temporanee, chioschi e persino proiezioni video invadono i mezzanini e le banchine con un armamentario tecnologico obsoleto e approssimativo.
L’avvento del sonoro all’interno delle gallerie è poi, nella sua ottusa violenza da televisore domestico, una perfetta metafora della mutazione genetica che la città sta attraversando alla fine del secolo. Con il volgere del nuovo millennio arrivano le ultime novità: da principio il cambiamento del sistema di accesso e obliterazione dei biglietti che provoca la scomparsa dei tornelli e dei cancelletti a pressione poi, senza una ragione plausibile, la progressiva sostituzione dei pavimenti in gomma nera con piastrelle di gres di colore bianco (con il principale risultato di poter finalmente contare tutte le macchie ed i rifiuti che i viaggiatori sono in grado di produrre a dispetto dell’esistenza dei cestini gettacarte).
Anche la grafica e la segnaletica non vengono risparmiate da questa furia ‘modernizzatrice’. Al progetto di Noorda si sostituisce una sorta di goffa caricatura che, imitandone lo stile, crede di attualizzarne l’estetica attraverso l’uso di colori più brillanti e di un lettering non più dedicato. Identica sorte è riservata, a livello della strada, alle scatole luminose che segnalano le scale d’accesso alle stazioni dove adesso accanto al simbolo della metropolitana (da anni non più MM ma semplice M) campeggia quello misterioso della S del passante ferroviario (già R per brevissimo tempo). Dopo anni di onorato servizio all’interno delle carrozze vengono pensionate anche le mappe schematiche delle linee metropolitane che, forse nell’illusione di apparire più estese e complesse di quello che sono, includono nella loro rappresentazione una congerie di informazioni e indicazioni aggiuntive. Si sarebbe potuto operare altrimenti? Probabilmente no, ma è suggestivo immaginare il contrario. È il paradosso di un sistema politico che governa e gestisce le proprie infrastrutture in maniera del tutto scollegata dalla realtà del proprio territorio e di una cittadinanza superficiale e distratta, lontanissima da quella che contribuì a orientare le scelte strategiche che adesso non facciamo che rimpiangere.