Il Villaggio Olimpico al Lingotto
Cristina Bianchetti
Nel 2000, quando si decide di localizzare l’idea del Villaggio Olimpico, dopo qualche indecisione, nell’area dei Mercati ortofrutticoli all’ingrosso, appare chiaro come la scelta si regga su circostanze che si rivelano potenziali opportunità: la possibilità di disporre di un’ampia area di proprietà pubblica, la presenza di manufatti pregevoli e tutelati, dei quali non era chiaro cosa si potesse fare, la loro disponibilità immediata, la vicinanza al Lingotto e alla futura fermata della metropolitana. Da mercato a villaggio. Il ribaltamento degli usi precedenti è inteso come una condizione univoca per salvaguardare l’unitarietà del sito, assunta come valore. Integrità spaziale e nuove pratiche vanno insieme. Niente di meglio dunque di un Villaggio Olimpico: recinto, la cui genealogia oscilla tra il campo militare e la “città semi-sacra”. In ogni caso luogo altro, specializzato, eterotopia (seppure domestica). Ciò che conta è il carattere unitario di questa scheggia. Anche se poi se ne sottolinea sempre la capacità di fare centro, a dimostrazione di quanto sia difficile sottrarsi alla tirannia del policentrismo.
Il progetto coordinato da Benedetto Camerana, vincente nel concorso sugli altri quattro presentati, interpreta il Villaggio come un solido recinto, chiuso verso la città a ovest e aperto verso i binari sui quali lancia, con qualche entusiasmo, la passerella sorretta dall’arco. L’estetica industriale dei vecchi mercati di Umberto Cuzzi è salvaguardata dall’accorto intervento di recupero di Costantin , Camerana e Rosental. I manufatti sono riportati al colore tenue del cemento armato che forse non hanno mai avuto, e che esalta, ammorbidendola, la luce riflessa nei grandi ambienti. I lavori di ripulitura delle arcate mostrano la leggerezza delle sette coppie di arcate paraboliche lunghe 100, larghe 9 e alte 8,5 metri. La piazza coperta dalle ampie ali in cemento armato è chiusa da una pieghettatura che il vetro non riesce ad alleggerire.
Nella parte residenziale, il progetto si costruisce su un principio insediativo governato da poche scelte: l’impianto a scacchiera aperto verso la collina; un disegno del suolo completamente affidato al pedone; la ripetizione variata di un medesimo tipo, la palazzina di sei-sette piani, riproposta una quarantina di volte con un periodare unificante e ordinato che si addensa verso ovest e si dirada verso sud. L’insieme condivide la fiducia espressa dalle esperienze berlinesi degli anni Novanta che, con attenzione sostenuta e tranquilla alla periferia, hanno modulato analoghe densità urbane, a mezzo del ritmo e della ripetizione di edifici che pure mantengono una loro precisa individualità (qui giocata anche dal piano del colore). Con una specificità non di poco conto: nel Villaggio Olimpico l’alloggio cambia natura, si fa casa comune per gli atleti. È stabile nell’involucro (equipaggiato da teleriscaldamento, pannelli solari, serre applicate) e completamente provvisorio all’interno: gli alloggi sono privi di cucina e spesso hanno pareti in cartongesso. Il tema è quello della reversibilità, della transitorietà. Di ciò che appare stabile, senza esserlo. Destinato a un rapido smontaggio.
Vince la gara di aggiudicazione un consorzio temporaneo di imprese composto da Maire Engineering, Garboli Conicos, Cooperative Costruzioni. Il nuovo soggetto si fa carico del progetto esecutivo, congiuntamente ai progettisti, all’Agenzia olimpica e alla società di validazione. Il progetto slitta, diviene costruttivo. Il suo carattere mai finito fa sì che nessuno esca definitivamente da un gioco che le imprese giudicano troppo affollato, dichiarando il disagio di una situazione costretta tra finanziamenti blindati, tempi ristretti e scarsità di manodopera in una città con 1.300 cantieri aperti.
Gli scostamenti evidenziano una negoziazione nella quale ciascuno ha da rimproverare qualcosa agli altri. Si apre dunque un grande cantiere. La presenza di 700 persone, di provenienza diversa, che vi lavorano, crea un ripiegamento del sociale, una diversa quotidianità che cambia la merce dei negozi, rende alcuni luoghi improvvisamente affollati, senza un loro attrezzarsi stabile. Il cantiere muta le relazioni che gli abitanti hanno costruito con il luogo. Nel contempo instaura nuovi legami. Non più astratti, razionali, duraturi. Ma fatti di percezione, disagio, curiosità. Quotidiani e concreti. Fermarsi a guardare nel cantiere la città che cambia aumenta la capacità di tenere relazioni, non strette e durevoli, ma personali, qualitative. Ridefinisce i contorni di una “simpatia sociale”, come avrebbe detto Max Scheler. Come nel teatro goffmanniano, la prossimità rende possibili passaggi di senso.
Nel settembre scorso la consegna delle prime palazzine: un nuovo pezzo di città che si ritiene possa essere facilmente metabolizzato, una volta che i giochi saranno terminati e i colori delle facciate sbiadiranno. Diversa la situazione nella parte cosiddetta internazionale sulla quale si addensano maggiori incertezze. Come si costruisce socialmente il problema di ciò che verrà dopo le Olimpiadi? Ancora una volta, la vicenda sembra ridursi a una continua ridefinizione di temi e problemi. Il forte impegno finanziario (pubblico) sollecita numerosi soggetti (altrettanto pubblici) ad avanzare richieste per insediarvisi. Il problema si presenta in termini di affollamento di esigenze puntuali, tutte legittime, ma non tutte ugualmente strategiche. È, come sempre, un problema di ordinamento e argomentazione. Contemporaneamente il post-olimpico assume nel dibattito pubblico la forma di idee sul futuro dell’area del tutto evanescenti: parco scientifico, luogo per esposizioni, luogo di formazione. Nessuno dei tre scenari sembra più robusto di altri. Tutti lo sembrano in ugual modo. Non danno luogo a contrapposizione o a conflitti: come se non esprimessero ancora una negoziazione reale. Ma una grande libertà di movimento. La stessa leggerezza che già aveva caratterizzato la localizzazione nella città dei luoghi olimpici, alla ricerca di circostanze che potessero trasformarsi in opportunità.
Luoghi olimpici
Cristina Bianchetti
Ogni città, si dice, generi la forma della sua rappresentazione, una propria identità linguistica. La rappresentazione che si sta formando di questi tempi a Torino è costruita attorno a una collezione di hautes lieux: il museo del cinema, la nuova biblioteca, la stazione ristrutturata di Porta Susa, il Palafuksas (locuzione che sostituisce il nome dell’autore all’incertezza della destinazione). Una trama non stabile, che si fa e si disfa, come se una grande narrazione, l’uscita dal fordismo, si sbriciolasse in una dimensione mobile. In tutto questo, un posto importante è riconosciuto ai luoghi dei giochi olimpici: la ristrutturazione degli stadi, i villaggi, i quattro nuovi impianti sportivi: l’Oval per le gare di velocità su ghiaccio, il Palahokey e il palazzo del ghiaccio di corso Tazzoli, il Palavela per il pattinaggio artistico e short-track. Qualche considerazione può aiutare a cogliere gli elementi di paradosso intrappolati nei discorsi.
1. Ai luoghi olimpici è affidato il compito di mettere in scena il cambiamento nel suo infiltrarsi, limitarsi e dilatarsi nell’urbano. Un compito che assolvono con la forza di un discorso visivo, evidenziando la tensione tra quel che si muove e quel che sta fermo nella città. Il rischio è tuttavia quello di scambiare le Olimpiadi con la forza principale del cambiamento. Alcuni equilibri risulteranno più chiari ricordando che i 1500 milioni di euro destinati ai giochi sono la metà della somma destinata al passante, un terzo di quella destinata alla realizzazione della prima linea della metropolitana. Una questione di rapporti, ma anche di carattere. La ”energia allegra”, che le Olimpiadi mettono in scena, è un’energia pubblica. Al centro sono gli investimenti infrastrutturali e il mercato edilizio e fondiario. È su forme che altri direbbero keynesiane, che si delinea il profilo della città post-fordista.
2. I luoghi olimpici costruiscono una diversa gerarchia urbana che implica fratture, rovesciamenti, distanze. Prende il nome di distretto olimpico: un nuovo centro a sud del centro, come nelle antiche prefigurazioni astenghiane. Non è chiaro se il nome avrà la forza di rimanere. Ancor meno se riuscirà a innescare un nuovo centro. Intanto i luoghi sono realizzati con determinazione nel rigore geometrico dei tempi, delle risorse e dei modi (stabiliti dal Cio). È forse anche per questo che lo storico Marco Revelli dice che le Olimpiadi sono fordiste. Come, questo fare intrepidamente razionale ridisegna la politica urbana? I giochi esplicitano consuetudini inedite: la capacità di gestire contemporaneamente molte cose, di resistere alle inevitabili critiche, di far fronte alla diffidenza. Hanno ispessito le reti decisionali con la presenza di nuovi importanti attori. Sebbene queste paiano indurirsi, contrarsi, piuttosto che dilatarsi: tenere aperti i giochi (sociali) non è delle Olimpiadi. Si ripropone piuttosto una logica univoca forte, lontana dagli strumenti partecipativi che avevano costituito la risposta più diretta a una società di minoranze. Che un grande evento chiuda, con qualche fretta, a transizioni e negoziazioni non può certo sorprendere. Che ciò lasci qualche riverbero sulle nuove politiche urbane, dovrebbe incuriosire.
3. I luoghi olimpici sono incerti nel loro futuro. Perché se è vero che spesso usano aree dimesse, è anche vero che sono destinati anch’essi a dismissione. È bene quindi rovesciare la prospettiva. Osservarli come destinati a passare. Da questa angolazione quel che si intravede è un loro possibile riuso da parte di altri grandi eventi. Quella del grande evento è una logica sequenziale, che prende forma su un grande mercato globale dove gli eventi si comprano finanziariamente e politicamente, come scriveva tempo fa Paolo Ceccarelli, da grandi organizzazioni che sono riuscite a creare e controllare in modo monopolistico il prodotto. Sostenere che quanto un evento lascia può essere risorsa per altri che verranno, aiuta perlomeno a risolvere un imbarazzo: Torino conta oggi oltre un milione di metri quadri di aree in trasformazione. Una quantità immensa, che contribuisce a rendere ogni discorso sullo spazio evanescente e vago.
In conclusione, le Olimpiadi sono riconducibili all’idea che sia buona cosa per la città rendere palese un punto di convergenza condiviso: un “bene comune uniforme”. Se si guarda alle Olimpiadi dal punto di vista delle rappresentazioni per mezzo delle quali esse si raccontano (da un punto di vista che tecnicamente si direbbe ideologico), si vede delinearsi un’idea di condivisione sociale e istituzionale inusuale in una città che il fordismo ha modellato in modo austero e chiuso. Se si guarda ai luoghi olimpici dal punto di vista delle traiettorie che su di essi si incontrano, si vede l’esplosione dello spazio in una pluralità indeterminata, radicata localmente e non totalizzabile, disomogenea e non riconducibile a unità. Con qualche seria difficoltà sul fronte della legittimazione di una nuova politica urbana.
Cristina Bianchetti è docente di urbanistica al Politecnico di Torino e membro del comitato di redazione della rivista L’Indice