L’isola del tesoro

Il progetto inedito delle scenografie per una versione fantascientifica del romanzo di Stevenson offre l’occasione ad Achille e Pier Giacomo Castiglioni per illustrare la propria visione del futuro tra viaggi interplanetari e realismo degli oggetti. Testo di Bruce Sterling. A cura di Francesca Picchi

L’Isola del Tesoro versus Guerre Stellari
Bruce Sterling

All’uscita di ogni nuovo episodio della saga di Guerre stellari, la terra trema. Al poderoso impatto di ogni pellicola inedita sugli schermi cinematografici dell’universo, fa seguito infatti un’alluvione di robot-giocattolo, videogiochi, spazzolini da denti, lenzuola, dolciumi, costumi vari e persino latticini. Per essere una storia che si dipana nello spazio siderale, Guerre stellari dispone di una delle macchine promozionali più potenti del pianeta. Quarant’anni fa, l’idea di trasformare un film di fantascienza in una piattaforma di lancio per il product design era impensabile. Eppure poco mancò che accadesse. E che accadesse in Italia, quando il celebre designer Achille Castiglioni e suo fratello Pier Giacomo si trovarono a progettare la scenografia per un film di fantascienza, il cui regista doveva essere Renato Castellani, figura di spicco del neorealismo e uomo di mondo, amico dei Castiglioni dai tempi dell’università.

Per qualche ragione, Castellani era diventato un patito del classico di Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro. Così, a metà degli anni Sessanta, apice supersonico dell’Era Spaziale, l’immaginazione di Castellani produsse una brillante, italocentrica versione spaziale del romanzo, completa di un protagonista dodicenne, di insolenti pirati spaziali e di un sinistro “pianeta del tesoro”. Achille Castiglioni è famoso per aver firmato una lunga serie di icone del design modernista italiano.

Di particolare interesse fantascientifico risultano lo sgabello Mezzadro; Albero, un tripode portafiori dall’aspetto marziano, e le due lampade Taraxacum, dei lampadari oltremondani di plastica verniciata e alluminio icosaedro. Reclutati da Castellani, Achille e il fratello Pier Giacomo si misero al lavoro con grande lena, ricoprendo pagine e pagine di minuscoli e agili schizzi di astronavi a ciambella e minimaliste navicelle pirata a forma di cono. L’aspetto di queste ultime, in particolare, era dichiaratamente modernista e del tutto anni Sessanta, tanto da farne il perfetto prototipo per i vasi da fiori in ceramica che i Castiglioni avrebbero prodotto due anni dopo.

A questo punto, una svolta di enorme importanza era a portata di mano: Renato Castellani avrebbe potuto girare il suo progetto spazial-operistico, riempire lo schermo con oggetti modernisti per l’Era Spaziale firmati da Castiglioni, e usare il film per vendere i diritti connessi, promuovendo e commercializzando un completo stile futurista per i consumatori di tutto il mondo. E tutto ciò è più plausibile di quanto possa sembrare: basta prendere 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, sottrarre le scimmie, il monolite e la navicella spaziale per constatare che quel che rimane è una serie di abiti, ambienti e mobili anni Sessanta che presentano sorprendenti similitudini con quelli del vero 2001.

L’alleanza Castellani-Castiglioni avrebbe potuto spingersi più in là, perché avrebbero potuto creare le condizioni per la commercializzazione delle loro idee. I film di Castellani avrebbero potuto tramutarsi in cartelloni pubblicitari per i prodotti disegnati da Castiglioni, così da consentire di proporre al mercato le loro creazioni. Ma all’epoca tutto ciò era inimmaginabile. Come Achille Castiglioni ha sempre sostenuto, lo scopo del design è servire il pubblico, mentre la fantascienza non serve a nessuno. Il compito della fantascienza è emozionare e stupire, non certo rendersi utile. È questa la ragione per cui i fratelli Castiglioni, che avrebbero potuto produrre lampade, vasi, posate e sedie per i loro film, si sono lasciati prendere la mano nel progettare un faraonico aeroporto spaziale, il “Roma-Napoli Spazioporto”.

Infatti, se progettare spazioporti può anche essere divertente, certo è che nessuno ne ha mai costruiti. Il design e la fantascienza presentano tuttavia metodologie comuni. I designer conducono ricerche e le applicano a problemi reali, sviluppano concetti alternativi, selezionano una direzione concettuale e giungono a una soluzione progettuale. Nel design, l’esito ideale è “il più avanzato, purché accettabile” – catturare una possibilità futura e trasformarla in qualcosa che il consumatore sia desideroso di acquistare.

La fantascienza, nella sua maniera nebulosa e distante, ricerca ogni tipo di bizzarrie, rigurgita migliaia di concetti strampalati, li confeziona con vistosi abiti di genere e, anziché proporsi al potenziale cliente con beni di qualche utilità, tenta di spezzare i suoi preconcetti espandendo i limiti del pensabile. Se chiedete a uno scrittore di fantascienza di limitarsi alle tecnologie del mondo reale, si sentirà imprigionato. Se chiedete a un designer di procedere alla cieca, vi chiederà piuttosto di vedere un budget, un cliente e un compratore. Ma, mentre gli anni passano sia per la fantascienza sia per il design, è facile accorgersi di come essi non appartengano a campi così separati come può sembrare in un primo momento.

La fantascienza e il design degli anni Sessanta fanno entrambi tipicamente parte del loro tempo; in quella fase culturale, ambedue approfittarono di una diffusa sensibilità nei confronti dell’Era Spaziale, e ciò non è probabilmente mai così chiaro come lo è nel modo in cui Castiglioni ha trattato il film di fantascienza. L’isola del tesoro, proprietà originale di Robert Louis Stevenson, era destinato a un dodicenne. Per la fantascienza, gli adolescenti rappresentano la fascia demografica d’oro, perché, se apprezzano ogni effetto speciale sorprendente, non hanno alcun desiderio o bisogno di comprare mobili.

La storia di Stevenson è avvincente, spumeggiante, visionaria ed essenzialmente liberatoria, e suggerisce che la realtà è una catena arbitraria di costrizioni. E ciò, essendo vero, è affermato anche da gran parte della fantascienza. Di fatto, la realtà ‘è’ una sequenza più o meno arbitraria di limitazioni, un fatto che pochi capiscono meglio dei designer. Achille Castiglioni, in particolare, ha sempre spinto i suoi studenti a “partire da zero” e ripensare intere situazioni dalle origini. È questa la ragione per cui il suo lavoro degli anni Cinquanta e Sessanta si presenta concettualmente molto più temerario del più controllato, pavido liberalismo globale e mercatocentrico dei nostri giorni.

Nel 1966, il design e la fantascienza si avvicinarono così a creare una liaison dangereuse. Ma Castellani, il regista, si ammalò, e, quando due decenni più tardi il suo progetto vide finalmente la luce, si trattò di una serie televisiva in cinque puntate realizzata con un budget modesto. Stevenson, per contro, trovò la forza per realizzare l’inimmaginabile nella vita reale: venduti tutti i suoi possedimenti, comprò uno yacht e si trasferì nelle Samoa dell’Ottocento, un arcipelago tropicale che rappresentava l’immaginaria casa dei sogni. Oggi, la fantascienza e il cinema fantasy – Il Signore degli Anelli, Harry Potter, Pokémon e Guerre stellari – sono così colossali negli obiettivi e così vasti in quanto a scala da diventare quasi delle vacanze internazionali.

Eppure difettano dell’audacia che animava l’opera di Stevenson, e non sono ancora capaci del coraggio necessario per progettare, produrre, confezionare e venderci i fantastici modi di vivere illustrati dai loro schermi. Quando accadrà? Ci vorrà tanto quanto è servito a Stevenson per raggiungere l’Era Spaziale? C’è da dubitarne. Potrebbe accadere domani. Idea avanzata, certo, ma viene il sospetto che sia verosimile.
Spazioporto abbandonato di Agrigento. 
A destra, sullo sfondo si intravede il tempio di Giunone
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Spazioporto della megalopoli Roma-Napoli “che si stende ininterrotta dalle pendici del Vesuvio fino ai colli Tiburtini”. In basso si scorge la rampa di lancio dell’astronave Hispaniola
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Elicotteri dei pirati
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