Celebrato e amato in tutto il mondo, il nome di Issey Miyake, morto il 5 agosto a 84 anni, è quello che associamo a pietre miliari della moda come il plissé degli abiti “Pleats Please” o la superficie scomposta in facce triangolari della Bao Bao Bag. Ma queste icone non sono che le cime della montagna di una ricerca profonda, nata respirando il desiderio di liberazione totale del maggio '68 a Parigi e contaminandolo con intuito individuale, lavoro di squadra, e impulso ad una innovazione continua, di tecniche, materiali, usi e loro effetto sulla società, al di là dei soli confini della moda.
“Non è certo uno stilista, o un couturier, anche se è conosciuto nell’ambiente della moda. Quello che fa non ha niente a che fare con le stagioni o i trend” aveva detto Michele De Lucchi incontrando Miyake a Tokyo nel 2018, “è difficile immaginare questo signore giapponese preoccuparsi per l’evoluzione del gusto e analizzare mese dopo mese l’evoluzione degli stili di vita. Per una semplice ragione: lui li conosce già ed è lui a indicarli”. Nel novembre 1997, il creatore giapponese aveva parlato per Domus di quella rivoluzione che, a pochi anni dal lancio di Pleats Please, stava portando in un mondo del design in profondo cambiamento. L’incontro era stato pubblicato sul numero 798.
L’abito della libertà. Issey Miyake
Kazuko Sato
Fotografie di Yasuaki Yoshinaga
La parola chiave per intendere il fashion design di Issey Miyake non può essere che ‘libertà’. Dalle imposizioni e dalle convenzioni sociali, ma anche dalle costrizioni fisiche, dagli impedimenti e dalle rigidezze di abiti in disarmonia con i corpi che li indossano. Ma non è solo libertà negativa, libertà da qualcosa. Con “Pleats Please” Miyake ha raggiunto la dimensione della libertà positiva, libertà di esprimersi, di vestire in modo elegante e disinvolto, raffinato e facile. Dietro questa svolta c’è anche una lunga ricerca sui materiali e sulle tecniche, un lavoro quasi ingegneristico che si è poi aperto alla dimensione artistica.
Gli abiti di Issey Miyake profumano di un vento che pare spirare direttamente dall’Asia. Sono abiti straordinariamente elastici, che si gonfiano e danzano al vento; l’aria che circola leggera tra la pelle e la stoffa rende più liberi il corpo e lo spirito di chi li indossa. Essi sono il punto di arrivo di un lungo percorso creativo e di ricerca: è stato infatti l’incontro con la rivoluzione parigina del Maggio ’68 a suscitare per la prima volta in Miyake il desiderio di creare abiti liberati dalle costrizioni e dalle convenzioni imposte dalla società, abiti che fossero semplicemente in grado di offrire ai corpi la più completa libertà di movimento.
Nel ’76 viene presentato “Ichimai no nuno” (letteralmente “un’unica stoffa”), il cui concetto è quello di un’equa condivisione di libertà tra chi crea e chi indossa l’abito. Nell’88 compare “Issey Pleats”, un abito di singolare grazia e leggerezza ottenuto dalla giustapposizione di due tagli di stoffa plissettata. Ma è solo nel ’93 - al culmine di un lungo itinerario di ricerca sui materiali e sulle tecniche di lavorazione, e come risultato di una sapiente combinazione fra lavoro manuale e alta tecnologia - che nasce l’assoluta novità di “Pleats Please”, un abito funzionale e bello allo stesso tempo, proposto a un prezzo accessibile, che può essere indossato da chiunque e dovunque, combinato e sovrapposto in totale libertà. Ed è proprio di “Pleats Please” che Issey Miyake ci ha parlato, nel suo ufficio di Tokyo, lo scorso maggio.
Alle origini di “Pleats Please”
“In primo luogo, partecipando da lungo tempo alle sfilate di moda parigine, ho sempre pensato che parallelamente alla moda rivolta a un pubblico selezionato, fatto di ‘pochi eletti’, dovesse esistere anche un design che attirasse l’interesse di una più ampia cerchia di persone. Pensavo a un abbigliamento ‘easy’ come lo stile jeans & T-shirt, ma che potesse essere indossato in un ambito più ampio; a un abito che, indipendentemente dall’età e dalla professione, possedesse una sua moderna bellezza e fosse al contempo funzionale; a uno stile che rimanesse indifferente ai trend. In secondo luogo, c’è stata l’evoluzione di un materiale particolare, il poliestere. Nell’ambito della nostra ricerca, l’attenzione si è concentrata su questo materiale industriale di costo contenuto, che nessuno aveva fino allora usato nell’abbigliamento. Lo abbiamo migliorato con una serie di interventi ‘soft’ e abbiamo deciso di farne il materiale per ‘Pleats Please’. Infine, è intervenuto un cambiamento radicale nel panorama umano: sono aumentate le donne che lavorano, sono comparse nella società donne capaci di esprimere la loro personalità”.
Produzione in serie ed emozione
“Non ho mai pensato di dare vita a una produzione in serie di tipo omologante. Gli abiti cambiano espressione secondo le diverse persone che li indossano, perché seguono i corpi, si gonfiano per il calore della pelle, vengono modellati dall’aria... occorre che ci sia un adattamento reciproco tra l’abito e chi lo indossa, una sorta di rimodellamento che renda l’insieme esteticamente gradevole. La funzionalità è di primaria importanza, questo è ovvio, ma vorrei che fosse sempre integrata da un pizzico di humour e di imprevedibilità. Mi sento in questo molto vicino al design di Swatch che, pur essendo un prodotto di massa, non dimentica mai l’allegria, la sorpresa e il gioco”.
Incontri
“Se non avessi incontrato William Forsythe e il suo Ballet Frankfurt, probabilmente ‘Pleats Please’ non sarebbe mai nato. E ancora, se non avessi incontrato Shiro Kuramata non sarei arrivato, nell’83, a ‘Body Works’. E gli incontri con Lucie Rie, Isamu Noguchi, il poeta Shuntare Tanigawa, Anselm Kiefer, Joe Colombo, Ettore Sottsass sono stati tutti per me una preziosa occasione per entrare in contatto con l'‘uomo’ che c’è dietro le loro opere. Lavorando con Irving Penn, poi, ho visto la forza inaspettata che le mie opere esprimono attraverso l’obiettivo e mi sono reso conto dei miei limiti ma anche dei possibili sviluppi del mio lavoro. È una continua fonte di energia per me”.
La cultura tradizionale come ‘palestra’
“Le forme e gli stili codificati dell’artigianato tradizionale, cosi come le opere prive di utilità pratica degli autori tradizionali, non mi interessano. Ciò non toglie che io osservi dall’esterno, obiettivamente, tale cultura tradizionale e rifletta sui significati in essa contenuti, sul suo concetto dello spazio, per esempio. I giapponesi hanno una loro peculiare tradizione relativa, per esempio, al cibo, all’abbigliamento, alle abitazioni che li differenzia dagli altri popoli e influenza anche il loro senso dell’ambiente, dell’equilibrio... e io sono sempre consapevole della parte giapponese che è in me. Abbiamo anche condotto numerose ricerche su come sia possibile adattare i materiali tradizionali giapponesi alle esigenze della vita contemporanea, razionalizzandoli. Anche per il ‘Pleats Please’ abbiamo studiato a lungo le tecniche di ripiegatura (tatamu) degli abiti tradizionali, acquisendo così consapevolezza di come una stoffa possa cambiare completamente espressione secondo come viene piegata. Attraverso questo esercizio si è formata una tradizione tutta nostra, che ha poi dato origine alle particolari tecniche di piegatura ‘Pleats Please’”.
L’anonimato del design
“Credo che il fashion design, per il fatto di rivolgersi a un mondo particolare e per il desiderio di suscitare un impatto immediato, avesse bisogno di associare ai suoi prodotti un segno forte come il nome del designer. Negli anni ’80 si è poi ulteriormente sviluppato il filone del designarte, ma io personalmente penso che il designer dovrebbe diventare anonimo, che la sua vera vittoria consisterebbe nell’anonimato. Se un certo design ha successo anonimamente, la ‘fonte’ deve comunque assumersi la responsabilità di spiegare come quell’abito sia giunto a essere ciò che è, perché abbia un certo prezzo, e così via. Sarei felice che la gente indossasse ‘Pleats Please’ senza accorgersi che è di Issey Miyake, soprattutto in una realtà come il Giappone, dove tutti appartengono al popolo e non esiste una vera high society”.
Collezioni di moda e prodotti in serie
“Per quanto mi riguarda sono necessari entrambi, ma il concetto di design nei due casi differisce profondamente. Nelle collezioni di moda fondamentali sono la ricerca e l’esercizio continuo e tutti quanti lavoriamo mettendo tutta la nostra passione e tutto il nostro sentimento. La produzione in serie, invece, nasce dal lavoro di un gruppo ristretto di persone che combinano a ‘sangue freddo’ diversi elementi. Per le decorazioni e i colori ci rivolgiamo anche ad altri designer e dall’anno scorso, in aggiunta, presentiamo ogni sei mesi una ‘Guest Artists series’ che apporti a ‘Pleats Please’ freschezza, scoperta e rinnovamento nella continuità”.
L’era del lavoro di gruppo
“All’interno del Miyake Design Studio lavora in piena libertà un numeroso staff di personalità le più disparate, tra cui Makiko Minagawa e Naoki Takizawa. Credo che mai come oggi stia diventando importante il lavoro di gruppo, il che significa riunire l’ingegno di tutti per costruire qualcosa di comune. Nel lavoro di gruppo è importante che ciascuno metta a disposizione di tutti gli altri le informazioni che possiede e che lavori con fierezza. Occorre sviluppare al massimo la ricerca e continuarla sempre. In questo modo nascerà sicuramente qualcosa di valido”.
Lavoro industriale e artigianale
“L’impiego misto di tecnologia e di lavoro manuale ha l’effetto di restituire ai prodotti industriali il calore della mano dell’uomo, di richiamare in vita il valore dell ’artigianato. Prendiamo il lavoro manuale in India: non è semplicemente ‘artigianato’, è qualcosa di molto vicino al lavoro industriale, significa che anche le mani del l’uomo sono in grado di produrre su larga scale. Nella collezione Issey Miyake del marzo scorso abbiamo presentato una serie ‘Prism Collage’ composta appunto da un collage di lavoro manuale e di high-tech. Credo che la sfida del XXI secolo sia quella di creare qualcosa che, fondendo industria e artigianato, riesca a suscitare humour, divertimento ed emozione”.
Il XXI secolo
“Prevedo che nel mondo del XXI secolo si faranno avanti persone capaci di creare con procedimenti completamente nuovi, diversi rispetto a tutto ciò che si è fatto finora. In questo senso il Giappone mi sembra un terreno fertile, ampiamente utilizzabile anche in futuro. Vedo infatti che a poco a poco stanno emergendo giovani di questo tipo”.
“Pleats Please”: questioni tecniche
I capi della collezione “Pleats Please" sono interamente in poliestere, molto leggeri: un top pesa solo 80 grammi, un cardigan 154, un abito lungo 265. Sono di facile manutenzione e si possono lavare come fazzoletti senza paura che si gualciscano. Non occorre stirarli e sono adatti ai viaggi, dato che basta arrotolarli e metterli in valigia. Sono disponibili in tredici modelli base e in sei colori, tra cui nero, grigio e beige, anche se periodicamente vengono aggiunti alla collezione colori speciali stagionali e motivi imprimé. Dall’anno scorso viene presentata due volte l’anno una linea battezzata “Guest Artists" (“artisti ospiti”). I capi della collezione “Pleats Please” sono prodotti dalla Politex, il cui stabilimento si trova nella parte nordorientale del Giappone, a Shiroishi Zaoh, circa 350 chilometri a nord di Tokyo. La società ha 105 dipendenti, compresi quelli che lavorano in un secondo stabilimento, e produce 1500 capi d'abbigliamento al giorno. Attualmente l’azienda si occupa solo della collezione “Pleats Please" e dei capi plissettati per le collezioni Issey Miyake. Lo stilista e i tecnici lavorano insieme alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecniche di plissettatura e sperimentano vari trattamenti del poliestere e di altri materiali. La plissettatura di Issey, presentata nel 1988, rivoluzionò i metodi tradizionali: fino ad allora questi capi venivano tagliati da tessuti pieghettati. Miyake invece prima taglia e cuce capi la cui superficie supera da 2 a 8 volte le dimensioni finali, poi li comprime per realizzare la plissettatura. Per questo i capi “Pleats Please” hanno linee così nette. I capi vengono prima tagliati e cuciti, poi piegati, stirati e fissati con spilli. Dopo essere stati compressi tra due fogli di carta, vengono posti in una macchina piegatrice da cui escono plissettati. Nella fase finale del processo alcuni capi vengono riscaldati a vapore in un contenitore sotto vuoto per 45 minuti, per garantire che le pieghe diventino permanenti. Dopo il raffreddamento la carta viene tolta e ne viene fuori il capo”
Pleats Please" appena terminato. La plissettatura ha vari aspetti. Secondo lo spessore della stoffa e la dimensione delle pieghe appare morbida, ruvida, lucida, talvolta vellutata.