La sua Storia del design del 1985, come l’approfondimento dedicato alla scena italiana 22 anni dopo, sono fondamenti della formazione di chiunque si avvicini al mondo del progetto, e lo stesso vale per quei suoi Segni di architettura, che oltre ad essere una delle opere più famose, comparivano anche su Domus negli anni ‘80 in episodi dedicati di volta in volta a Bernini o Palladio. Artista col Movimento Arte Concreta, collaboratore di Zanuso e poi di Rogers, docente all’Università di Napoli Federico II, Renato De Fusco ha fatto di un approccio critico alla Storia il cuore di una lunga carriera, premiata per la sua rilevanza anche con un Compasso d’Oro, nel 2008.
Col numero 821 di Domus, l’ultimo del 1999, si dedicava proprio alla nostra rivista come ad uno specchio potentissimo attraverso cui guardare l’evoluzione della cultura in arte, architettura, design, attraverso momenti di svolta e personaggi chiave come Gio Ponti, Edoardo Persico, Alessandro Mendini, Lisa Ponti e i direttori ed autori che avevano fatto navigare la rivista lungo tutto un secolo.
La storia di Domus, secondo Renato De Fusco (1929-2024)
Ricordiamo il grande storico e teorico dell’architettura, che ci lascia a 94 anni, attraverso il saggio che, sul finire del millennio, aveva dedicato proprio alla storia di Domus, come punto d’osservazione della storia culturale italiana e internazionale.
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- Renato de Fusco
- 01 maggio 2024
Domus: fatti e interpretazioni
Un testo dedicato “alla capostipite delle riviste italiane di architettura e design”, com’è stata definita Domus, potrebbe, stando alle mie corde, redigersi in due modi. Il primo condotto in base alle libere associazioni, ai ricordi, alla cronologia memorizzabile per ricavarne un quadro di puntuale corrispondenza fra la pubblicazione milanese e il suo tempo, specie i cinquant’anni, che restano i principali, della direzione di Gio Ponti; il secondo fissando alcuni capisaldi storiografici, rispetto ai quali considerare fatti e idee che nella rivista sono stati illustrati, non solo negli anni Trenta, ma fino ai nostri giorni. È noto inoltre che la storiografia si fa dalla visuale di oggi e che questa è stata definita ‘trasversale’, ossia volta non tanto a illustrare i ‘fatti’ quanto a parlare di idee, a proporre interpretazioni. Si aggiunga a questa nota introduttiva che Domus e il sottoscritto sono quasi coetanei, donde una interpretazione che è anche una testimonianza. Scegliendo la prima via sarei obbligato a ricordare che, in generale, Domus si pone negli ultimi cento anni di vita italiana tra le istituzioni più consolidate e a far seguire un elenco di queste, dalla Fiat al Corriere della Sera, dalla Triennale alla Biennale di Venezia, dal boom del design a tanta milanesità, per citare le prime che vengono in mente. E se il periodico non ha avuto la stessa popolarità di tali istituzioni, ne ha avuto certamente l’intenzione e le potenzialità. Fenomeno prettamente italiano, quindi, Domus ha accompagnato passo dopo passo la vicenda del Novecento in tutti i suoi aspetti e per così lungo tempo.
Ma questa contestualizzazione sarebbe generica: un vero e proprio “contesto storico” è sì l’insieme dei fatti eterogenei e contemporanei all’evento che si vuole studiare, avente però con quest’ultimo una stretta pertinenza, cosa che non si riscontra in tutte le voci del suddetto elenco. Scelgo pertanto la seconda via che rende il presente articolo non una vera e propria storia di Domus, per un verso ampiamente nota, per un altro tutta da approfondire in altra sede, bensì alcune riflessioni in gran parte di natura storico-metodologica, sull’attività svolta dalla rivista per oltre tre quarti del secolo ormai trascorso; dove per ‘attività’ è da intendersi l’insieme dei ‘fatti’, mentre per ‘interpretazione’, il loro commento. Se intendessi scrivere un vero racconto storico, i termini di questo binomio sarebbero l’uno la storia, l’altro la storiografia.
Ma le ragioni per le quali non propongo un racconto storico sono altre. Di ogni cosa si può tracciare la storia, ma nel caso di una rivista, specie così aperta a tanti interessi, come Domus, la sua storia si fonde e confonde coi ‘fatti’ che, per istituzione, essa ha documentato via via che accadevano nel corso degli anni. Non quindi una storia, per dir così, in presa diretta, ma un’altra ‘registrata’, ‘documentata’, ‘trascritta’, ecc. Donde la prevalenza della confusione fra la vicenda propria della rivista e quella delle opere-eventi in essa illustrate. Infatti, quali sono i ‘fatti’ pertinenti a Domus: quelli relativi all’incontro dell’architetto Gio Ponti e l’editore Gianni Mazzocchi che nel ‘28 fondarono la rivista? il breve intermezzo dal ‘41 al ‘47 nella direzione di Ponti, passata prima a Massimo Bontempelli, Giuseppe Pagano e Melchiorre Bega, poi a Guglielmo Ulrich, quindi nel dopoguerra a Ernesto N. Rogers? la sospensione della pubblicazione nel ‘45? il ritorno di Ponti dal ‘48 al ‘78 un anno prima di morire? la successione dei vari direttori da Casati a Mendini, da Lisa Ponti a Bellini, da Magnago Lampugnani a Burkhardt coi loro diversi programmi? Sono ‘fatti’ i rapporti che la rivista ha stabilito nel tempo con le istituzioni, l’industria e il suo pubblico, oppure ‘fatti’ vanno considerate le opere d’architettura, d’arte e di design illustrate diversamente a seconda dell’avvicendarsi dei redattori, dei grafici, dei fotografi?
Certo, tutto ciò rappresenta la storia di Domus, ma in questo caso il suo commento, la sua storiografia non può che essere sommaria, a meno di non articolarla in tante storie, il che non entra nell’economia del presente articolo. Si pone allora l’esigenza di puntare su un solo genere di ‘fatti’ salvo a vedere se è possibile far corrispondere a essi un solo genere di commento storiografico. Si potrebbe pensare che il più tangibile, comunicabile e costante genere di ‘fatti’ sia costituito appunto dall’insieme delle opere illustrate dalla rivista nel corso degli anni; opere che hanno una loro cronologia e contrassegnano anche la cronologia del gusto della loro rappresentazione; basti vedere le pagine pubblicitarie, talvolta non molto dissimili da quelle dedicate alle opere. Queste ultime sono ciò che resta di più invariante in ogni tipo di “Domus story” sia esso un articolo, un libro, una rappresentazione teatrale, come quella recentemente allestita con la regia di Robert Wilson. Tuttavia quelle opere documentate sono le stesse che si trovano anche in altre riviste specializzate; in che cosa allora si distingue la loro presentazione nelle pagine di Domus?
Ricordando il principale assunto storiografico per cui non si dà storia senza una storiografia che la racconta e tramanda e in pari tempo non si dà storiografia senza il suo oggetto, ecco che ‘fatti’ e interpretazioni dovrebbero essere distinti ma non separati; invece – e qui sta il mio maggiore rilievo a Domus come ad altri periodici del genere – si riscontra paradossalmente ‘indistinzione’ e ‘separatezza’. Infatti, mentre per altri tipi di pubblicazioni – libri di storia e studi monografici su un architetto, una tendenza, una città – gli eventi e il commento sono chiaramente distinguibili, per una rivista essi si presentano in maniera assai più confusa e problematica. Intanto sottolineiamo, essendo la sua principale caratteristica rimasta costante nel tempo, che Domus tratta d’architettura, d’arredamento, di design artigianale e industriale, di arti figurative e spesso anche di molte altre cose che abbiano attinenza con la comunicazione visiva. Ed è proprio questo positivo eclettismo a rendere complessa la distinzione tra i ‘fatti’ e la loro interpretazione, al punto che, come dicevo, uno scarso senso critico induce alla loro separatezza, segnatamente quella fra immagini e testo, fra idee e parole. Comunque, che le opere siano la più ‘positiva’ documentazione della vicenda di Domus non è tanto sostenibile col modo in cui esse sono state presentate, bensì grazie a un caposaldo storiografico. Infatti, come ha notato Argan, la storia dell’arte “è la sola, fra tutte le storie speciali, che si faccia in presenza degli eventi e quindi non debba evocarli né ricostruirli né narrarli, ma solo interpretarli [...] Quale che sia la sua antichità l’opera d’arte si dà sempre come qualcosa che accade nel presente”.
Questa coincidenza dell’opera con l’evento può indurre all’errore di pensare a una identità di storia e storiografia, ma non è così. Anche per la storiografia artistica, nonostante che le opere visive siano autoespressive, essendo il loro un vero e proprio linguaggio, si pone sempre l’esigenza di accompagnarle con un commento, di una coesistenza di “storia e critica”. Risulta vero invece un altro aspetto della ‘realtà’ delle opere d’arte. La loro positiva presenza si verifica anche nel caso che non vengano realizzate e rimangano allo stato di progetto.
Tutti gli altri progetti-programmi non hanno l’iconicità di quelli d’architettura e di design, cioè la somiglianza fra il disegno e la cosa denotata. Questa proprietà è di grande importanza: mentre un progetto di legge, una programmazione economica, una ordinanza politico-amministrativa, un piano strategico se non vengono attuati non lasciano quasi alcuna traccia, reperibile magari solo dagli archivisti di professione, i disegni d’architettura, nello stesso caso della loro mancata traduzione in opere concrete, per il suddetto iconismo, costituiscono il tangibile simulacro dell’architettura che s’intendeva realizzare. E come spesso accade, nel caso di edifici rimasti incompiuti o distrutti, i progetti costituiscono l’unica testimonianza dell’iniziale programma architettonico o del primitivo stato di una fabbrica. A questa coincidenza dell’opera con l’evento si aggiunga l’esigenza che per una rivista d’architettura, design e arti visive è indispensabile seguire costantemente l’attualità; cosicché la invariante contemporaneità dell’opera d’arte dà luogo addirittura a una “storia nel suo farsi”. Si può obiettare che questo attualismo testimoniale contrasta con la cosiddetta “prospettiva storica”; ma, ammesso e non concesso che essa valga per libri e monografie, non vale certo per una pubblicazione che, in quanto periodica, deve seguire l’attualità. Né si può invocare contro il concetto di “storia nel suo farsi” la distinzione fra storia e cronaca perché la prima non si basa sul tempo che passa fra i fatti e il commento, bensì sul giudizio e questo prescinde dalla data in cui è accaduto un evento.
Scelto il genere di storia affidato alle opere-eventi, o meglio, alla loro ‘rappresentazione’, resta da vedere quale tipo di commento, quale interpretazione, quale storiografia corrisponda a esso. Ed è questo il punto più interessante sia del momento in cui al ‘fatto’ fu associato il commento (per esempio come fu presentata su Domus la villa Savoye di Le Corbusier accanto a opere di De Finetti, di Muzio, di Canino, dello stesso Ponti), sia del momento attuale nel quale interpretiamo tale accostamento. In sostanza, mentre le opere d’arte restano costanti nel tempo, tanto da far pensare a una “storia ferma”, il loro commento, il loro studio, la loro interpretazione cambiano, tanto più in una rivista che, come s’è detto, deve tener conto della molteplicità degli argomenti, dell’attualità, del gusto del pubblico, ecc. La più flagrante prova della variabilità dell’interpretazione è data proprio dal genere di pubblicazioni in esame, dal come, poniamo, una stessa opera è stata documentata su Domus, su Casabella o sulla rivista di Zevi. La variabilità di tale documentazione sembra ridimensionare la ‘potenza’ dei fatti e dar ragione a Nietzsche quando osserva: “Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni ‘ci sono soltanto i fatti’; direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo le interpretazioni.
Noi non possiamo constatare nessun fatto ‘in sé’; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere”. Anche a non condividere questo giudizio, risulta in parte vero, e comunque tale nel caso di Domus, il nostro rilievo già citato per cui i fatti sono stati separati dalla loro interpretazione. Ma, volendo indagare criticamente detta separazione, con quale criterio è possibile farlo?
Nel caso particolare, quale può essere la chiave idonea a interpretare la posizione concettuale o, più semplicemente, la formula di Domus? quale la periodizzazione della rivista stessa? la sua contestualizzazione negli anni del fascismo, della ricostruzione, del ‘miracolo’ economico, della cosiddetta prima repubblica, fino agli anni attuali delle magnifiche sorti e progressive europee? Una risposta complessiva potrebbe ricavarsi da Persico quando nel ‘30 scriveva: “Una storia dell’arte si può sempre risolvere in un compendio di storia civile: basta mettere le vicende umane allo specchio dei valori plastici”; tuttavia un anno più tardi, con un giudizio chiaramente riferito alla polemica contingente, considerava un luogo comune la pretesa “di giudicare il valore di un’opera o di una tendenza dell’arte riferendole soprattutto alla loro importanza sociale [...] o qualche volta, addirittura la pretesa di eleggere le arti e lettere a reggitrici di popoli”.
Notiamo che fra le due proposizioni non c’è contraddizione, ma incertezza. Si direbbe pertanto che la maggiore coscienza critica dei primi anni di Domus non possa fornirci che uno spunto per parlare del periodico di cui ci occupiamo; tra i numerosi meriti di Persico era infatti quello di nutrire dubbi in un’epoca caratterizzata da indiscutibili certezze; basta leggere il suo significativo saggio, “Punto e da capo per l’architettura”, pubblicato nel novembre del ‘34 sulla rivista, per rendersi conto di quanto fosse diversa e distante la sua posizione da quella di Domus. D’altra parte, coi dubbi non si costruisce nulla di pratico, donde la constatazione che la nascita del nostro periodico, la sua lunga durata e il suo successo internazionale, persino quell’accento positivamente ‘businesslike’ si debbano al decisionismo di Ponti e Mazzocchi, quest’ultimo fondatore anche dell’Editoriale Domus, la casa editrice che pubblica la rivista dal ‘28 a oggi, caso raro per un periodico d’architettura e design.
Che nel loro programma vi fosse anche l’intento di rivolgersi alla media borghesia per ciò che atteneva all’arte della casa è un segno del giusto target verso il quale un periodico del genere si rivolgeva e anche un segno della sua attualità: lo slogan che appariva nelle prime annate della rivista, “la nostra pubblicità è la migliore guida per i vostri acquisti”, trova puntuale riscontro nel più popolare talk-show dei nostri giorni. Solo sostenendo posizioni decise e pragmatiche Ponti riuscì a caratterizzare la sua rivista e a realizzarne il programma; quello cioè, come ha scritto l’attuale direttore, di “valorizzare la qualità artigianale accanto a quella industriale, dare rilievo alle innovazioni formali e al ruolo delle arti plastiche nell’architettura e nel design; insomma presentare la storia dal punto di vista della trasformazione del gusto un po’ borghese e un po’ riformatore, ma sempre nella più fresca attualità, tipico – va detto – di un pubblico che, ancora e sempre, vuole essere aggiornato senza troppe scosse”.
Se la stessa guida di Persico non ci aiuta a risolvere il problema dell’interpretazione, non resta che riferirci, così come abbiamo già fatto e preannunziato sin dall’inizio, ad alcuni capisaldi della storiografia, anzi alla critica di essi, molti dei quali si sono rivelati luoghi comuni. Non risulta infatti completamente vero l’antico aforisma per cui la storia è magistra vitae, il quale, rapportato al nostro tema, non appare rispettato, in quanto molti errori nella conduzione di Domus sono stati ripetuti nonostante la presunta lezione della storia: mi riferisco, oltre ad alcune collusioni col potere economico e politico, a una prospettiva di stucchevole ottimismo, ad alcune cadute anche sul piano del gusto. Né è più attendibile un’altra mitica credenza, quella della cosiddetta “verità storica”. Tutta la vexata quaestio della politica culturale del fascismo; dello scontro fra politica culturale e politica della cultura (cioè quella degli uomini di cultura in quanto tali, come ha distinto utilmente Norberto Bobbio); del diverso modo di comportarsi di fronte al regime da parte degli architetti non giungerà mai a un esito unitario finché non sarà ‘convenuto’ un generale giudizio che poi è l’unico ragionevole modo per parlare di “verità storica”. Un altro caposaldo da connettere alla esposizione delle idee che hanno alimentato la vicenda di Domus sta nel tema della continuità o meno della storia, che interessa tanto i diversi direttori che si sono succeduti alla guida della pubblicazione, quanto Ernesto N. Rogers nel famoso editoriale di Casabella dal titolo “Continuità o crisi?”, che segnò una svolta nel dibattito e nella produzione stessa dell’architettura italiana dopo l’ultima guerra. Non è chi non veda nella suddetta alternativa un punto nodale della nostra storia architettonica.
Fin dagli anni ‘30 tutti gli architetti italiani si ponevano il problema di conciliare la nostra tradizione nazionale con il razionalismo europeo o, quanto meno, con le istanze della modernità, cadendo spesso in ingenui errori. Valga per tutti quello della ‘mediterraneità’, secondo il quale peraltro, proprio al fine di conciliare l’antico col nuovo, si giungevano a concepire assurde pretese; si sosteneva infatti che il pauperismo delle nostre case contadine e marinare, con il loro minimalismo formale, sarebbe stato addirittura la fonte cui s’ispirarono gli architetti europei. Né il mito della ‘mediterraneità’ fu solo nutrito dagli incerti architetti del Gruppo 7, ma sostenuto anche più o meno direttamente da altri di ben maggiore esperienza culturale: Pagano, Rogers, Cosenza e, a suo modo, persino Le Corbusier. Dopo qualche anno dall’ultima guerra, quasi nessuno s’è posto il problema di conciliare e continuare la nostra tradizione nazionale non solo con il razionalismo, ma addirittura con la modernità, l’uno e l’altra peraltro revocati in dubbio dalla cosiddetta condizione postmoderna, di cui il postmodernismo come tendenza architettonica s’è rivelato solo un epifenomeno.
Resta comunque il problema di verificare se e fino a che punto la vicenda dell’architettura contemporanea sia continua o meno tanto rispetto al passato remoto quanto a quello prossimo, definito “la tradizione del nuovo”. Una risposta si trova, evidentemente fuori dal dibattito disciplinare, nel campo della teoria storiografica. Muovendo da un diverso tema, chiedendosi cioè con quale criterio il ricercatore seleziona le cause per spiegare un evento storico, Giuseppe Galasso risponde “col criterio della creatività, originalità, innovazione di ogni presente rispetto a ogni passato. Ogni azione si inserisce sul passato e ne è temporalmente la continuazione; ma è anche una rottura del passato [...], una frattura nella catena di ciò che accade. Ed è questa frattura ciò che differenzia il presente dal passato, l’ignoto a cui si approda dal noto, la scelta che non è solo la selezione delle alternative in gioco, ma è, insieme, modificazione di quelle alternative nell’atto stesso della selezione, e – con ciò – l’illuminazione, la rivelazione del senso ultimo che le alternative in gioco vengono ad assumere”. L’indicazione ci sembra la più realistica e inclusiva sia di ciò che accade nella storia sia di ciò che si evince dalla storiografia, nonché la più propizia alla vicenda artistica, in quanto fa nascere la rottura da un atto creativo.
E a questo punto, proprio in base alle soluzioni di continuità, possiamo accennare ai diversi indirizzi che la rivista ha seguito al variare dei suoi direttori. Intanto, già con Ponti – che ne resta in ogni caso il maggiore protagonista, nonché artista di grande talento – Domus abbandona il suo nazionalistico programma iniziale, “la casa all’italiana”, per aprirsi alla documentazione di fabbriche e prodotti internazionali. Con la breve direzione di Rogers (‘46-48), si tenta di approfondire questo indirizzo e soprattutto di giustificare la sopravvivenza dell’arte di fronte alla catastrofe bellica e alla distruzione: “Dovremmo accorrere con un mattone, una trave, una lastra di vetro e, invece, eccoci qui con una rivista. All’affamato non diamo pane, al naufrago non una zattera, ma parole [...] Che valore ha per questa gente la bellezza? [...] Il contrasto tra arte e morale diventa sensibile proprio ogni volta che si è sul punto di affrontare i problemi dell’esistenza sopra un piano di maggior severità di costumi [...] Gli estremi del nostro ragionamento possono portarci all’utopia o al luogo comune, perché, se chiediamo troppo, miriamo all’irraggiungibile e, se invece guardiamo solo a ciò che ci attornia, rischiamo di accontentarci di ben poco”. E il saggio si conclude: “La casa è un problema di limiti (come del resto quasi ogni altro dell’esistenza).
Ma la definizione dei limiti è un problema di cultura e proprio a esso si riconduce la casa (come, infatti, gli altri dell’esistenza). Se così è, anche le parole sono materiale da costruzione. E anche una rivista può aspirare ad esserlo”. Con Alessandro Mendini (‘79-85), nonostante l’ossequio a Ponti e l’assicurazione della continuità, Domus assume una vera e propria svolta. Si legge nel suo primo editoriale: “Credo che i problemi del progetto e dell’immagine vadano oggi visti in termini di caos operativo invece che di demagogia corporativa [...]. L’ipotesi è quella di dare al lettore stimoli critici e di esporgli documenti, notizie, dubbi, verità e anche paradossali falsità perché egli possa formulare una personale diagnosi del mondo costruito, perché egli possa reagire alla lettura di Domus tanto per progettare in concreto, quanto per pensare utopie”. Certo, la soluzione di continuità fu salutare, ma venne sacrificato a essa, insieme alla “casa all’italiana”, anche il momento del “good design”, la felice stagione dell’“italian style”, riconosciuta sul piano internazionale e caratterizzata dalle pregevoli opere di Nizzoli, Albini, Scarpa, Castiglioni, Zanuso, Munari, Enzo Mari e dello stesso Ponti, ritornato a una giovanile creatività, ecc. In breve, vi fu cambiamento ma anche premeditata confusione fino all’elogio del Kitsch. Con Mario Bellini (‘86-91) si rende necessario un “rappel à l’ordre”, un richiamo alla razionalità, nonché, con esplicito riferimento all’editoriale di Rogers, all’idea che, specie a ricostruzione avvenuta, “ancora oggi le parole possono essere materiale da costruzione”.
Con Magnago Lampugnani (‘92-95) c’è il rifiuto di rispondere all’ozioso quesito se l’architettura sia scienza o arte e l’invito a guardare “al progetto come lavoro paziente, coscienzioso, preciso e competente il cui risultato sarà, speriamo, sempre utile, giusto e bello e in qualche rarissimo caso opera d’arte”. Nell’attuale direzione di Burkhardt, gli aspetti più significativi mi sembrano quelli della ‘comunicazione’ e della trasversalità, ma questi termini vanno specificati. Ho già ricordato in altre occasioni il giudizio di Jean Gimpel, per cui nei vari campi dell’arte i risultati più positivi sono stati raggiunti nei primi anni in cui è stata inventata una nuova “tecnica espressiva”: la pittura a olio, l’architettura dell’ingegneria, la macchina fotografica, quella della ripresa filmica, ecc. Se questo è vero, come lo è in gran parte, la “tecnica espressiva” attualmente è quella ‘teleinformatica’; se qualcosa non appare in tv è come se non esistesse; se qualcosa non passa per il computer non ci dà affidamento. Qual è allora la funzione di una rivista d’architettura e design in un’epoca come la nostra? Non è certo la mimesi dei nuovi media, bensì, da un lato, l’adesione alla logica che li sottende: il carattere ‘riduttivo’, popolare, l’uso di essi senza conoscerne i meccanismi, l’orizzonte globale dell’informazione, ecc., in altre parole, l’eclettismo, la polisemia, la multimedialità, ecc; dall’altro, una critica opposizione a essi, giusto il principio della conoscenza per similitudine e/o per contrasto di ogni parametro euristico, di ogni tipoideale. Come si vede, fattori positivi e negativi, innovazioni ma anche “limiti dello sviluppo”, donde la necessità di un’azione critica che orienti il lettore.
Questa, nel nostro campo, può essere la nuova “tecnica espressiva” di una rivista come Domus che nella sua tradizione già contiene molti dei caratteri suddetti. Sull’uso dei nuovi media tecnologici è opportuno fare altre considerazioni. Il loro utile impiego, sia detto per inciso e per il confronto che faremo, non è riuscito ai quotidiani che ripetono almeno con dodici ore di ritardo le notizie già note attraverso la tv; né il tentativo di supplire con più ampi commenti ai ‘fatti’ ha contribuito a risolvere la loro crisi. Le riviste specializzate di settore, invece, che già in quanto tali non sono in competizione coi nuovi media, dovrebbero avere, rispetto alla stampa dei giornali, maggiori possibilità di coesistenza.
Per un verso infatti dovrebbero offrire una informazione più critica di quanto non facciano gli strumenti neo-tecnologici che allo stato attuale e forse per loro natura non sono abilitati; dall’altro, per una più avvertita storicità, assimilare e/o potenziare elementi che già hanno in comune con essi: la ricchezza delle immagini, le possibilità grafiche, il colore, la “realtà virtuale”, la stessa molteplicità di argomenti; fattori tutti che Domus, in particolare, come ripeto, per il suo eclettismo multimediale, possiede più di altre riviste di settore. In breve, essa è più simile, poniamo, a Internet, che al Corriere della Sera o a La Repubblica. Cosicché, la nuova “tecnica espressiva”, nel nostro caso, potrebbe essere l’utilizzo dei nuovi media al servizio finalmente di un conciliato rapporto tra ‘fatti’ e interpretazioni. Pertanto accanto agli specialisti, i redattori e collaboratori di Domus dovrebbero essere formati e informati alla trasversalità delle competenze e degli interessi; in una parola, essere gli umanisti dell’età tecnologica. Loro compito è sì di non perdere contatto con l’attualità, ma anche di scrivere le “storie che restano” per dirla con uno dei padri della storiografia. Se quanto precede riguarda l’informazione-comunicazione, per l’idea di trasversalità cito direttamente Burkhardt, così come egli la preannunzia nel suo primo editoriale: “Abbiamo fatto appello a redattori italiani, francesi, spagnoli e austriaci che alle riconosciute capacità professionali uniscono una visione trasversale dei tradizionali ambiti d’indagine della rivista; architettura, arte, architettura d’interni, comunicazione e design.
Il loro lavoro di ricerca di opere, progetti o prodotti che travalichino il mero confine professionale delle rispettive discipline, è inteso a dare accesso, in una visione più globale degli accadimenti in corso e delle tendenze emergenti, a una lettura culturale pluridisciplinare. Di qui, un significativo allargamento degli orizzonti disciplinari stessi”. Questo tipo di trasversalità non si sostiene senza una continua osmosi di interpretazioni e di modificazioni; il che ci rimanda a un caposaldo dell’ermeneutica. Sappiamo infatti da quest’ultima che chi interpreta un testo (nell’accezione più vasta del termine, da una fabbrica a un giornale) viene modificato dallo stesso oggetto dell’interpretazione. E ciò, come ha rilevato Gadamer, si verifica specialmente nel campo artistico: “Nell’esperienza dell’arte vediamo attuarsi un’esperienza che modifica realmente colui che la fa”. A questo giudizio Vattimo aggiunge: “Che l’arte sia una forma di conoscenza non solo per chi la contempla, ma anche per l’esecutore e per l’artista stesso, significa che in essa c’è ben più di quanto il soggetto ci mette [...] La rappresentazione è anzitutto un evento di cui l’artista, l’esecutore, l’interprete-lettore non sono autori, ma partecipi”. Ora, questa modificazione reciproca fra l’oggetto artistico e il soggetto interpretante, sia esso l’autore o il fruitore, diventa più significativa nel caso delle arti ‘applicate’ quali sono, a mio avviso, l’architettura stessa, nonostante l’enfasi del suo etimo, il design, l’artigianato, la comunicazione visiva, quelli che in pratica sono i ‘fatti’ illustrati da Domus. E la modificazione è tanto più interessante in quanto in quell’aggettivo ‘applicate’ sta tutta la loro problematica, nonché artistica ed estetica, soprattutto sociale, economica, di esperienze e di attese, ovvero fattori non immodificabili, come la contemplazione delle cosiddette arti pure, bensì materia continuamente modificabile, progettabile. E qui interviene un altro principio metodologico, quello della progettualità della storia.
A conclusione di un mio recente studio sulla metodologia storiografica ho sostenuto che, se non la storia, certamente la storiografia si ‘progetta’ al pari di un edificio, di un oggetto di design o di quant’altro intendiamo prefigurare. Infatti, tutti i teorici del campo concordano nel pensare che il giudizio e la materia stessa da trattare siano frutto di scelte individuali – “tutta la storia è scelta” ha scritto Febvre – di interpretazioni, manipolazioni, artifici storiografici, ossia operazioni che figurano anche nell’iter progettuale, donde la liceità di sostenere, come ripeto che, se non la storia, certamente la storiografia è un progetto. Una conferma di quanto sostengo sta in ciò: che quanto più fantastica, immaginifica, ispirata è un’opera d’arte, tanto meno richiede una programmazione, un processo elaborativo, un progetto. La storiografia è un progetto perché, a differenza della narrativa che elabora fantasie, essa opera scelte, adotta artifici, manipola e razionalizza comunque ‘fatti’. Che dire allora di una rivista illustrante progetti o realizzazioni in ogni caso a suo tempo progettate? È lecito pensare a una metastoriografia, a una storia-studio di secondo grado? Ecco perché, nell’impossibilità di elaborarla in questa sede, come ho accennato all’inizio, non ho inteso scrivere una vera e propria storia di Domus. Comunque, ritornando all’idea di storiografia come progetto, nel nostro campo, una monografia di un architetto, un libro di sintesi storica, uno stesso periodico d’architettura, in quanto assimilabili a un progetto, presentano la potenziale capacità di autocorreggersi, il progetto essendo proprio una modificazione dell’esistente.
Ecco il compito critico che auguriamo ai redattori della rivista di cui ci occupiamo, anche a costo di rivedere la sua consolidata formula. Domus è stata, è e sarà la documentazione di opere e progetti e allorquando concilierà meglio ‘fatti’ e interpretazioni, fabrica et ratiocinatio, immaginario di forme e di contenuti, diventerà essa stessa un progetto; non quello che serve a preparare un numero mensile, operazione di tutto rispetto, ma un progetto più coinvolgente e modificante sia quelli che la elaborano sia quelli che la utilizzano. Per essa il problema non è più tanto e solo fare informazione, quanto quello di formare, coinvolgere, modificare, indurre il suo pubblico tradizionale che attualmente “vuole essere aggiornato senza troppe scosse” a più radicali posizioni, ad avventure della mente, a più numerose e approfondite aperture critiche, a un maggiore interesse per le “cronache del pensiero”, come s’intitola non una sua rubrica, ma un testo funzionante quale spina dorsale di ogni suo fascicolo.